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venerdì 1 maggio 2020

Sentieri nepalesi

Kali Gandaky Valley - Nepal - Gennaio 1976

San-Droh aveva uno sguardo dolce e gentile, anche quando si caricava il gerlone sulle spalle e partiva con gli altri tre portatori un'oretta dopo di noi, che, finita la colazione avevamo cominciato a camminare subito dopo. Avevano smontato le tende e riempite le gerle, ci raggiungevano, ci superavano rapidamente e andavano fino al punto concordato dove noi, con fatica saremmo arrivati nel tardo pomeriggio. Mentre ci sorpassavano, mi lanciava un saluto sorridente, mostrando i denti spettinati e poi via con quella giacca talmente consunta che nei punti dove sfregavano gli spallacci della gerla, non c'era più la stoffa ma solo la fodera sottostante. Alla sera attorno al fuoco, cantava assieme agli altri, canzoni d'amore alla bella Lalumai, che forse lo aspettava al villaggio. Camminammo per dieci giorni nella Kali Gandaki; alla nostra destra il gigante bianco dell'Annapurna sembrava proteggere l'anticima dell'Himachuli che le stava al fianco. 

Più indietro il triangolo netto con la cima a coda di pesce del Machapuchare, con i suoi quasi 7000 metri, gliene mancano solo una manciata per arrivarci, cima sacra e per questo ancora oggi inviolata, a ricordare che anche dove il business era profondamente penetrato, pure la fede metteva dei vincoli non superabili. Quando l'anello si avvinava alla fine e nell'ultima notte prima di arrivare di ritorno a Pokhara, avremmo dormito in una locanda sulla strada, San-Droh con gli altri, i cui servizi nonerano più necessari, ci salutò con un abbraccio. Mi strinse forte con le sue braccia solide come rami di quercia, battendomi più volte le manone screpolate sulla schiena. Se ne andò via per ultimo, camminando rapidamente lungo il sentiero che scendeva da Tatopani, agitandola mano in alto in segno di addio. Con l'altra si stringeva la giacca a vento che gli avevo regalato prima di lasciarci. Aveva piedi grossi e callosi San-Droh, quasi una suola nera sotto, a forza di camminare a piedi nudi lungo i sentieri di quel Nepal lontano.

domenica 29 marzo 2020

Annapurna sud

Annapurna - Nepal - Gennaio 1976
Mamma mia come ero giovane! A trenta anni, neanche ancora compiuti, pensi di poter spaccare il mondo e allora 44 anni fa, di mondo da spaccare ce n'era così tanto. Dalla balconata naturale di Ghandruk, la cima dell'Annapurna è lontana all'incirca cinque chilometri e con il suo vicino minore, l'Himachuli ti guarda con quell'occhio tumido della bella che sembra volerti dire, sono qui, prendimi se sei capace. Io non ho mai avuto le velleità della vetta, però stare sotto a questo gigante ti dà una scarica di emozioni che poche altre volte. Ce l'hai proprio lì a portata di mano, quasi che allungando la tu la possa afferrare, quella montagna immensa che torreggia sopra di te, anche se sei già tu così in alto, quasi a 4000 metri, da sentire il fiato mozzo per la fatica del camminare su un banale sentierino. Erano straordinarie giornate di gennaio, col cielo terso  color cobalto che pareva un tappeto di velluto. L'aria frizzantina, ma non fredda ancora a quelle quote, che dobbiamo considerare basse se proporzionate a quello che avevi davanti. 

Avevamo lasciato il villaggio da poco per raggiungere questo punto di osservazione prima discendere poi e attraversare la valle, un su e giù, già allora mortale per le mie gambe sedentarie, ma rimanemmo seduti a lungo a guardare questo spettacolo sbocconcellando un chapatti che ci aveva regalato una donna, che li stava cuocendo su un fuoco davanti alla sua casa di pietra. Mi sembrava vecchissima, ma forse le rughe potenti che le solcavano il volto erano il frutto di quel sole feroce che mordeva la pelle. Il marito invece pareva ancora atletico mentre spaccava legna, con un lungo coltellaccio, protetto da un vecchio maglione sdrucito, residuo di quando ancora militava nei Gurkha dell'esercito inglese. Gli unici rumori erano quei colpi sul ceppo ed il crepitare del fuoco sotto la piastra di ghisa. Poi solo il refolo di vento che muoveva le foglie degli alberi di rododendro portando in alto il profumo dei fiori. Non ho mai visto altri 8000 così da vicino, perché non è mai stato nelle mie priorità; io preferisco le pendici, l'ambiente che circonda il santuario e soprattutto la gente che le abita. 

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giovedì 7 luglio 2016

Una valle in Nepal

Gandrung - Nepal - gennaio 1976

Non mi è mai piaciuto camminare; non so come dire, specialmente se appare come una cosa inutile, fine a se stessa, fatta per il piacere di farlo. Invece quando è capitato che fosse necessario, in quanto unico modo per arrivare in un determinato posto, allora è diverso. Va bene direte voi, chi è causa del suo mal pianga se stesso, però all'età di 30 anni, si può anche dire che me le andavo a cercare. Allora andare a camminare nelle valli himalayane era molto stimolante e quella quindicina di giorni nella valle del Kali Gandaki, una della più belle del Nepal, mi ha dato sensazioni che tengo ancora adesso preziose dentro di me. Era un su e giù continuo per colline corrose dalle piogge torrenziali del monsone estivo, circondate da quinte di neve eterna imponenti e capaci di intimidirti. Himachuli, Macchapuchari, Annapurna, Daulagiri, nomi che emozionavano solo a sentirli,mentre li guardavi dal basso pronunciandoli. Però quello mi è sempre bastato. Non ho mai sentito dentro quel desiderio di sfida e di conquista che ti muove a volerne violare la cima. Arrivare in punta. 

Questa è una motivazione tutta occidentale, che ti costringe a voler arrivare dove nessuno ha ancora messo il piede, una sfida con la natura e con te stesso che non riesce ad emozionarmi. Come la gente che ci ha sempre abitato, sotto quei monti, e che queste pulsioni non conoscono, anzi neanche le comprendono bene, io mi sono sempre sentito appagato di guardarle dal basso, ebbro di quei panorami estremi ma non troppo, piuttosto in sintonia con quella gente che lì attorno elabora la propria vita. Erano villaggi raggiungibili solo a piedi in giorni e giorni di cammino su sentieri erti o fatti a scale infinite che risalivano il fianco della montagna per poi ridiscendere a precipizio per raggiungere l'altra parte della valle. Landrung, Gandrung, Gorepani, nomi di villaggi tutti uguali di poche case volte a solatio per prendere anche gli ultimi raggi del sole durante l'inverno. Gente rude, quasi tutti Gurkha, stirpe guerriera, abituata a vivere con quello che dava la montagna attorno. Questa bambina che si trascinava il fratellino sulle spalle mentre governava un gruppo di capre nere e magre, su uno spoglio  pascolo invernale, guardava curiosa, forse si chiedeva che ci facessero quei due occidentali che di capre non ne avevano neanche una. 

Oggi avrà una cinquantina d'anni, sempre che sia ancora viva e di occidentali, ne avrà poi visti passare chissà quanti. Forse si sarà sposata qualche anno dopo con un ragazzo del villaggio vicino e se non è morta di parto avrà scodellato un buon numero di ragazzini la maggior parte dei quali non sarà arrivata a cinque anni. Forse, come si vedeva dagli occhi svegli e curiosi, avrà usato la sua casa per ospitare qualuno di quei matti di passaggio, magari all'inizio facendo solo mettere le loro tende nel cortile e preparando qualche cosa da mangiare, un bad and breakfest ante litteram che ha permesso di vivere alla sua famiglia una vita non agiata ma tranquilla. Adesso magari ci sarà un cartello fuori su cui uno dei figli, andato a scuola, avrà compitato in lettere incerte Free wifi o homemade cooking, perché anche dopo 40 anni non ci sarà ancora la strada ma certamente internet sì e qualche suo nipote sarà seduto al bordo del villaggio con lo smartphone cinese in mado che posta su Facebook. Lalumai invece, così si chiamava quella bambina, scampata al terremoto, sarà dietro in cucina a preparare verdure tagliate o a cuocere chapatti in attesa che arrivi il prossimo gruppo di turisti.

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venerdì 20 maggio 2016

La discarica

Katmandu - Nepal - gennaio 1976
Kavita aveva la schiena curva ed il volto segnato dalla vita, che la facevano sembrare molto più vecchia di quanto probabilmente non fosse. Scavava come suo solito ogni giorno, in un grande immondezzaio alla periferia estrema di Katmandu, sulla strada per arrivare al santuario di Bodhanat, in cerca di qualche cosa di utile, da usare, da consumare, da vendere, valutando come ricchezza quello che per altri era stato inutile scarto. Era un po' il suo lavoro di tutti i giorni, per lei e per i suoi figli, che correvano attorno alla capanna di cartoni e stracci di plastica svolazzante tenuta assieme da funi, perché il vento forte che scendeva dalle montagne non la portasse via, in attesa del lavacro purificatore del monsone estivo. Anche quei ragazzini che sembravano giocare, in realtà buttavano l'occhi in giro con molta attenzione, per trovare nella nuova quantità di materiale che i camion scassati avevano scaricato nella giornata precedente, nuova miniera da esplorare, non ci fosse mai qualcosa di buono. Nessuna traccia di uomo. Chissà se un marito ci fosse da qualche parte, magari in cerca di qualche opportunità di lavoro, in città, al mercato a scaricare derrate o ad offrirsi per qualche servizio ancora più umile. A gennaio faceva un certo frescolino specialmente durante la notte e non so fino a che punto gli stracci bisunti con cui aveva coperto il sari nero, liso e dal bordo sdrucito, la potessero proteggere. 

Quasi tutti i bambini, infatti, tossivano e avevano vistose candele pendenti dal naso. Una scena piuttosto consueta da quelle parti e che oggi, dopo più di 40 anni, non dovrebbe essere cambiata molto, complici buon governo, terremoti e disgrazie varie che, come una dannata combinazione capitano sempre negli stessi posti, quelli già di per sé, più disgraziati del pianeta. Mai sentito parlare di uno tsunami a Montecarlo. Da quelle parti se la raccontano con la storia del karma, così non è colpa di nessuno, solo tua e del tuo pessimo passato in effetti e si può avere così un migliore controllo della pace sociale, per quanto è possibile naturalmente, ogni tanto anche lì si perde la pazienza. Erano le prime volte che mi misuravo con queste situazioni che impongono comunque di fermarsi a riflettere, a fare considerazioni, molto spesso anche sbagliate, anche se poi pensare serve sempre. Anche a questo dovrebbe servire il viaggio. A raccogliere, far sedimentare e maturare idee, cercando di non farle diventare giudizi. Questi erano i miei primi viaggi davvero fuori porta, in cui cercavo soprattutto la diversità. Qui il germe è diventato droga costante di cui, poi, non ho potuto più fare a meno, pena dure crisi di astinenza. Queste poi, erano le prime diapo che scattavo, una vera rivoluzione tecnica che mi avrebbe fatto abbandonare le sere chiuso in uno stanzino buio, alle prese con le bacinelle degli acidi a spiare l'immagine in bianco e nero che si formava lenta sulla carta coperta dal liquido trasparente. Chi poteva immaginare allora la rivoluzione digitale, mentre si scattava con parsimonia, considerando le 300 lire che costava ogni clik. 

Più o meno le stesse che avrebbero consentito a Kavita di mangiare con la sua famiglia quel giorno. Un clik o quattro o cinque scodelle piene di riso e masala di chilli davanti a facce che ridono di soddisfazione, come è strano il mondo. Chissà se Kavita è viva, una vecchietta dalla faccia incartapecorita dalle rughe, accovacciata sui talloni davanti alla solita baracca, quasi ogni anno nuova, la vecchia cancellata dal monsone, ma sempre uguale, con qualche nipotino che corre nelle stesse immondizie, tra gli stessi fumi, tra la medesima puzza, oppure se è già morta di qualche malattia banale, rattrappita in fondo alla baracca, sperando fino all'ultimo in una rinascita migliore, come si sarà meritata. E di quei bambini, una parte dei quali di certo non c'è più, che sarà stato?Qualcuno ce l'avrà fatta ad uscire di là, a trovare una forma di schiavitù anche solo un poco più dignitosa, che abbia permesso una baracca in mattoni, pronta però a crollare sotto il prossimo terremoto, con figli che sono andati a scuola oppure lo spostamento è servito solo a creare altra carne per il mercato dei mendicanti. In quei mondi le opportunità sono molto poche, è difficilissimo prenderle al volo, il più delle volte sono falsi veli di Maya che si rivelano trappole che ti trascinano, se possibile ancora più a fondo. Il torrente di liquami che scorreva sotto la grande discarica era lo stesso che, più a valle, raccoglieva le ceneri delle pire dei morti. Terminata la storia, le spoglie corruttibili, hanno la stessa valenza della verdura marcia e delle lattine schiacciate. No quelle almeno si possono recuperare.

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Il sardar Ray

giovedì 30 aprile 2015

Nepal: Dialogo della Natura e un Islandese

Quanto è avvenuto in questi giorni in Nepal, non ha potuto come ovvio, che colpirmi profondamente, sia per l'entità del disastro, sia per la vicinanza che io sento per quelle genti e quei luoghi. Le persone che ho incontrato nel mio viaggio del mese scorso, per fortuna, pur vivendo in prossimità di quanto avvenuto, mi hanno assicurato di non aver subito danni di sorta, tuttavia non riesco a fare a meno di pensare di continuo alla fragilità nostra di fronte alla natura, che pare accanirsi sempre contro i luoghi più segnati del nostro pianeta, come fosse una dea malevola e crudele, anche se forse non è così. Per questo credo che sia opportuno ragionare almeno un attimo su questo nostro antropocentrismo, davvero così pretenzioso. Ieri mi è stata data l'opportunità di riprendere un brano delle Operette morali di Leopardi, che mi sembra davvero illuminante su questo tema e per questo ve ne ripropongo un brano. Un uomo che per tutta la vita, convinto che la Natura sia crudele e operi malignamente contro l'uomo stesso, ha cercato non già di inseguire il piacere, ma quantomeno di sfuggire al dolore, incontra in un suo viaggio estremo proprio la Natura stessa sotto forma di gigante e con lei intesse una conversazione.

Dialogo della Natura e un Islandese

L'islandese: ........Dal sole e dall'aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l'uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto all'una o all'altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho consumati senza pure un'ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci opprimi. E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de' viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl'incomodi che ne seguono.

Natura: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.

Islandese: Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.

Natura: Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.

Islandese: Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?

Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall'inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell'Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l'Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.

martedì 5 maggio 2009

La gavetta delle Indie

Siccome sono al corrente che le migliaia (o sono decine di migliaia?) di lettori di questo blog sono in parte anche grandi viaggiatori, voglio fare assolutamente una marchetta di cui chi avrà la ventura di usufruire, mi ringrazierà pubblicamente. Si tratta tanto per cambiare di un ristorante (guardate che ho consigliato anche musei, quindi bando alle solite battute). Non è proprio dietro l'angolo, ma per chi avrà l'occasione di passare da Katmandu (Nepal) non perda l'occasione. Generalmente, il problema di questi posti è che i neofiti vogliono provare il colore locale e finiscono per passare gran parte della vacanza seduti sulla tazza, ma, attenzione, da queste parti, ci sono difficoltà anche a trovarla. L'altro problema è che se vuoi sfamarti in maniera decente, vieni giustamente spennato in quanto turista. Ecco allora la soluzione a Katmandu:
Ristorante Mammamia, gestito da un'amica italiana, pulitissimo, (verdura , cibi non cotti e uova vengono lavati e disinfettati, cosa non secondaria per non rovinarsi la vacanza). Sembra un ristorante di lusso, ma qui c'è la sorpresa, ha prezzi molto economici. Servono piatti di cucina italiana oppure indiana a scelta, questi ultimi ancora più economici, per fare un esempio ottime lasagne abbondantissime a 270 rupie (2,7 euro). Tanto per fare il Raspelli, antipasti con panzarotti e bruschette, pasta al forno anche vegetariana per chi ricerca il suo karma, ravioli ai funghi o spinaci o panir, tagliatelle e uno strepitoso cacciucco di ceci! Poi pollo al prosciutto o in salsa vellutata di spinaci. Dolci e pane fatto in casa in forno a legna (il migliore di Ktm), e per chi non ne sa fare a meno anche pizza. Solo ingredienti freschissimi e di ottima qualità, incluso olio d'oliva e non porcheria rifritta cento volte. Un angolo di cucina amica con sentori esotici. Se ci andate salutatemi la Niki, una simpaticissima italiana che ce la mette proprio tutta per fare funzionare questa questa avventura. Se non ci andate, ditelo ai vostri amici!
Mammamia
Tridevi Marg, all'inizio del quartiere turistico di Thamel
Telefono: 21 91 729
Mail : nikitesoroni@yahoo.it

venerdì 16 gennaio 2009

Il Sardar Ray

Il bambino ci guardava in piedi senza dire nulla, davanti alla tenda dove avevamo trascorso la notte, mentre facevamo colazione. Dietro, gli ottomila metri dell'Annapurna e del suo guardiano minore l'Himachuli, ritagliavano nel cielo una skyline di purezza; le nuvole scorrevano veloci. Mentre i nostri portatori smontavano il campo e ci apprestavamo a ripartire verso la base della montagna, si avvicinò a noi, sotto il suo cappelluccio di pelle, mostrandoci in silenzio la gamba piagata e gonfia. Non avendo competenze, lasciammo alla madre gli antibiotici che avevamo con noi con le opportune spiegazioni che le diede il nostro sardar. Seguiti dal suo sguardo muto, cominciammo a camminare risalendo la cresta. Un grande senso di impotenza. Salivamo da quasi una settimana, avendo lasciato Pokhara e il suo lago azzurro e toccando lungo il sentiero piccoli agglomerati di casupole, Gorepani, Tatopani, Landrung, Gandrung, dove avevamo dormito da un Gurkha in pensione ancora vestito col maglione dell'esercito inglese ed il pugnale al fianco. Il nostro sardar, Khrishna, era un Ray dalla faccia segnata dal sole delle alte quote; un viso scuro, tagliato di rughe profonde che lo facevano assomigliare in modo curioso a Charles Bronson. La notte prima della partenza, mentre ci abituavamo al freddo della canadese, aveva fatto un ultima notte brava con i nostri portatori in qualche locanda vicina e tornando sulla canna della bicicletta di un amico, piuttosto rotondi entrambi di arrak, un torcibudella locale, erano caduti nel torrente, dalla spalletta di un ponticello. Aveva passato la notte nel vicino dispensario, per cui eravamo partiti un po' più tardi ritrovandocelo davanti con un braccio al collo e la testa fasciata, ma deciso a non mollare. A poco a poco, camminando, le botte erano rientrate e davanti al fuoco, alla sera, mentre man mano mangiavamo i polli che ci portavamo dietro vivi in una stia (ecco il motivo di quattro portatori e una guida per due soli clienti). Khrishna aveva ripreso a ridere, cantando le sue canzoni himalayane. Oh rato mato, sindru ko saato... Oh terra rossa portata a valle dal torrente... diceva una melodia in nepali suadente. Cantavano tutti con occhi sognanti, intensi pensando forse alle mogli al villaggio. Anche San Drog, il più malandato dei portatori che camminava a piedi nudi, senza neanche le ciabatte ritagliate dai pneumatici, come gli altri tre; quello a cui rifilavano sempre la gerla più pesante, quella con la cassa cucina, cantava con voce forte e potente e guardava sempre verso di me, accarezzando con occhio intenso il mio cappello di lana pesante ed i miei guanti. Che piedi straordinari aveva San Drog! Sembravano forniti di suola eppure apparivano così prensili quando calcavano con cura il terreno incerto. Tornati a valle, dopo una decina di giorni, ci abbracciammo forte, prima di vederli allontanare con le loro gerle sulla schiena e la fascia appoggiata alla fronte. Gli feci scivolare in tasca cappello e guanti e mentre si allontanava, i suoi occhi ridevano. Scrivemmo per molti anni al nostro sardar Ray; si è dato alla politica diventando il sindaco del suo distretto, oggi chissà. Camminare era molto più faticoso.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 121 (a seconda dei calcoli) su 250!