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giovedì 20 maggio 2010
Lettere dalla Kampuchea 15: Case sul fiume.
Oggi pausa dalla realtà virtuale dell'archeologia e tuffo nella realtà reale del popolo dell'acqua. In Cambogia ci sono centinaia di migliaia di persone che vivono sull'acqua. Sui fiumi e sull'immenso lago Tonlé Sap che occupa tutta la parte centrale del paese, espandendosi e riducendosi di cinque volte, gigantesca cassa di espansione in cui rifluisce anche l'acqua del Mekong, quando l'intensità del monsone impedisce al mare di ricevere la massa di precipitazioni. La straordinaria ricchezza biologica di questo bacino, ha consentito lo svilupparsi di una vera e propria civiltà lacustre, fatta di villaggi di palafitte, di case-barca, di zattere galleggianti, di insediamenti provvisori che sfruttano a seconda dei periodi le parti affioranti durante le secche. In aprile il livello minimo consente a queste genti di spingersi avanti nel lago, su isolotti affioranti e argini malfermi che con l'abbassarsi del livello, vanno ricoprendosi di verde tenero e provvisorio. Kampong Khleang è il più grande insediamento fluviale del paese e si sviluppa per alcuni chilometri lungo le rive di un immissario minore del lago. La strada per arrivarci abbandona la nazionale ad una quarantina di chilometri da Siem Reap e percorre un alto argine lungo il bordo destro del fiume. Di tanto in tanto gruppi di capanne si raggrumano, in vicinanza di uno slargo, attorno ad uno spazio sterrato e polveroso dove subito trovano spazio i banchi di piccoli mercati improvvisati. C'è un gran movimento di biciclette, motorini e carri colmi di derrate; a volte la strada è occupata parzialmente da stuoie coperte di riso messo a seccare al sole, diversamente i bambini sono padroni assoluti degli spazi di fronte alle capanne. Il fiume a lato è ormai un rivolo secco maleodorante, una fogna imputridita che non riesce neppure più a scorrere verso valle, una poltiglia fangosa in cui finisce tutto quanto e da cui comunque la comunità trae vita, cibo e acqua. Man mano che ci si avvicina all'area più popolosa, si rimane impressionati dall'altezza delle palafitte che emergono dal fondo del fiume e che mostrano chiaramente dove può arrivare il livello durante la piena. Le capanne ed anche le case meglio strutturate sembrano in precario equilibrio su sottili pali di oltre dieci metri di altezza, sottili e fragili all'apparenza, che forse proprio per questo si moltiplicano fino a formare una fitta ragnatela di liane a cui le abitazioni, più che sostenute, paiono appese. La gente le raggiunge con lunghe scale appoggiate agli ingressi, alcune fungono da negozi, altre da officine o magazzini. Dappertutto la vita ferve vorticosa. Sullo spazio centrale una camionetta con tanto di megafono fa propaganda elettorale, scommetto promettendo meno tasse e più riso per tutti. Un sentiero fangoso scende verso un imbarcadero affollatissimo di natanti di ogni tipo, incuneati tra nasse giganti, bilance e trappole di canne e marchingegni per la cattura del pesce di grandi proporzioni. Una cooperativa di pescatori ha capito che i turisti rendono e ti porta a fare un giro fino al lago per un paio d'ore per una cifra esorbitante. Ma almeno sono soldi che rimangono qui, nella comunità e non sembrano un furto. A passare tra le case galleggianti guardando la vita che scorre attorno a te, par di guardare un film neorealista. Tutti ti salutano, anche se si stanno lavando alla meglio immersi nella melma giallastra, qualcuno rema veloce per portare ad un vicino mercato una barca piena di frutta, altri tornano dal lago carichi di foraggio acquatico o col risultato della pesca. Al contrario di quanto si avverte quando si gira per le campagne, dove sempre provi una sensazione di tranquilla pigrizia, di serena lentezza, qui tutto ha un aria più frenetica e caotica; forse per il sovraffollamento o per il senso di sporcizia e di disordine, anche se allegro, che traspira dalla difficoltà di vivere in queste condizioni. E' un giro istruttivo, che ti mostra come si riesca ad andare avanti in assoluta "normalità" anche in situazioni che, solo descritte, potrebbero sembrare insostenibili. Quando la barca mi riporta sull'argine, faccio un lungo giro a piedi tra le baracche, mi sembra più opportuno chiamarle in questo modo, per cogliere ancora qualche frammento di vita, per cercare di capire quanto sia adattabile la specie umana. Poi il mio tuk tuk riprende la via del ritorno. Ci fermiamo ad un banchetto che vende riso e cocco, cotto dentro a grosse canne di bambù. Ormai l'intestino si è placato oppure si è piano piano abituato. A tutto ci si abitua, anche condizioni impossibili possono diventare vita quotidiana, assoluta normalità. Al ritorno, liquido il mio driver dopo quattro giorni, con una generosa mancia, più dello sconto che mi aveva fatto dopo una estenuante trattativa. Dappima non capisce, poi mostra la sua soddisfazione Rado, sì come l'orologio, che ha appena preso la patente e spera al più presto di mollare il tuktuk e di passare ad un auto vera. Un progresso sociale che lo rende pieno di orgoglio e di speranza. A sera mi porta in centro a Pub Street, ma non vuole essere pagato, dice che gli porterò fortuna.
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2 commenti:
Bravo, Enrichetto, molto gradevole, come tutto il resto, per altro.
Toglimi solo una curiosità: per ricordarti tutte 'ste cose, giri con lo stenografo?
Dottordivago
Grazie Doc, detto da uno che faceva l'autore professionista è una gran cosa. La memoria ormai latita, ma io viaggio come gli inglesi nell'ottocento, con un taccuino di carta riso giapponese finissima e uno stilo di grafite morbida. Poi quando non mi ricordo, invento.
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