martedì 13 marzo 2012

Lettere dal Laos 23: Lost in the jungle.

Turista tedesco di passaggio.
 
Coda alla vaccinara.
A certi personaggi come quello che vedete nell'immagine, andrebbe quanto meno impedita la partecipazione a certe operazioni, se non addirittura, per semplice decenza, inibito l'accesso a determinati territori. E non ditemi che sono esagerato, il fatto è che quelli che potremmo definire oversize oversixties, con smanie giovanilistiche che si pensano in grado di fare qualunque cosa invece di valutare le proprie possibilità, non li fermi neanche col bazooka e quando decidono di andare, sono tragedie. Comunque, in questa area laotiana del cosiddetto triangolo d'oro, percorrere a piedi le foreste fitte che ricoprono le alte colline, trovando piccoli villaggi tribali non diversamente raggiungibili, è una opzione imperdibile e ghiotta a cui è difficile rinunciare. E poi che sarà mai, non cadiamo dal pero, sicuramente tutto  sarà organizzato per facilitare i turisti più bolsi, dando loro il sapore dell'avventura. Si sa che pagando ti portano di peso anche in cima all'Everest, figuriamoci se un piccolo trekking nei boschi può creare problemi. Eccoci dunque all'ufficio del turismo di Luang Nam Tha, base per l'esplorazione del parco naturale Nam Ha, che propone diversi percorsi, garantiti ad impatto sostenibile per l'ambiente e per le popolazioni locali. 
Tarzan e le liane.

I Fantozzi pronti al cimento, non hanno però l'anello al naso e a precisa richiesta sul grado difficoltà dell'impresa, ben esibiti stazza, muscoli flaccidi e carenza di fiato tipica degli uomini da divano, nonché l'attrezzatura di fortuna, scarpette da ginnastica leggere, zainotti da picnic al parco Forlanini e così via, la gentile addetta alle informazioni, dopo aver squadrato dall'alto in basso lo squinternato terzetto, sentenzia: "moderate difficulty, no problem", parole magiche che senza dubbio fugano i dubbi e rasserenano i trekkers decisi a tutto pur di non perdere nessuna occasione. Eccoci così nelle mani di See, piccola guida kamù, uomo dei boschi, munito soltanto di machete e infradito (cosa che ci rinfranca ulteriormente), a fare un po' di provviste al mercato, tra verdure e il macellaio locale. Un'oretta di tuktuk ed eccoci, di buon mattino  al limitare della jungla. Traversate facilmente le risaie del fondo valle, il percorso si getta tra gli alberi seguendo il corso di un piccolo corso d'acqua che segna la strada. Pochi passi e hai già perduto ogni punto di riferimento, circondato di alberi altissimi, mentre la luce fatica a penetrare tra le foglie spesse. Anche nella stagione secca, la foresta pluviale è ambiente umidissimo e caldo. 
Si prepara il fuoco.

Si mangia.
Ti senti subito ricoperto di sudore mentre cammini su un terreno molle e viscido di fogliame marcio, di legni fradici, tra alberi caduti e spostando a fatica le enormi foglie che pretendono di cancellare ogni traccia di passaggio. In realtà non esiste un sentiero, ma il nostro See e la guida locale si fanno largo nel sottobosco, seguendo sempre la traccia del piccolo torrentello. Saltelli sulle pietre scivolose, finendo continuamente nell'acqua fangosa quando, invece di portare attenzione a dove metti i piedi, non fai che guardarti attorno colmo di meraviglia e sovrastato da questa natura incombente, rigogliosa, prepotente che rifiuta la presenza umana. Beh, non siamo nati ieri, di certo, prima o poi si arriverà ad un'area picnic, appositamente predisposta per i grassi turisti occidentali. Intanto, i nostri due accompagnatori, sono una miniera di informazioni, mostrando e raccogliendo piante medicinali, radici mangerecce, frutti sconosciuti dalle virtù miracolose che finiscono nella piccole bisacce che portano al fianco. Ogni pianta è fonte di materiali utili, ecco da una foglia un robusto ventaglio per vincere la calura, un ramo diritto fornisce un robusto bastoncino da nordik walking, un piccolo frutto aspro sarà utile per recuperare dosi massicce di vitamina C. Il cammino è faticoso ma non impossibile in un ambiente davvero unico e straniante. 
Inghiottito dalla jungla.

Qui perdi il senso del tempo, perduto nella jungla salgariana, dove devi solo pensare ad andare avanti, facendoti strada in un mondo ostile ma bellissimo. Quando l'ansimare comincia a diventare penoso, eccoci alla base di una cascatella che apre uno spazio nel muro verde. I nostri puliscono alla meglio lo spazio tra le rocce, poi, utilizzando una bambagia ricavata da un albero vicino, si accende un fuoco fumoso con i rami umidi raccolti lì attorno. Ecco che vengono estratti tutti i materiali raccolti nella mattinata. Un grande bambù, opportunamente tagliato fornisce una pentola, dove vengono messi a cuocere, piante raccolte, foglie dai profumi forti, un fiore di banano sminuzzato, piccole radici di galanga, la spezia citata da Marco Polo. Grandi foglie di banano vengono distese a formare una tavola, altre piccole foglie tenute da uno stecchino fungono da cucchiaio, alcuni robusti steli lunghi e diritti saranno le bacchette da tavola. Ecco un pranzo improvvisato e scodellato al momento (ma non avevamo immaginato esserci l'area picnic appositamente predisposta di griglia e catering?). Ma non c'è molto tempo per riposare. Fa caldo e lasciamo il torrente, prendendo un'erta fangosa che si inerpica lungo il fianco della montagna di cui gli alberi impediscono di vedere la cima. La fatica si fa subito importante. Bisogna arrampicarsi tra le piante facendo leva a forza di braccia. 

Una sosta.
Le gambe diventano subito pesanti e legnose, caviglie e ginocchia tremule sono continuamente a rischio, le scarpine da ballo scivolano sulla terra rossa viscida come una saponetta, gli zaini malfermati ballonzolano da una parte all'altra sbilanciandoti e minacciando ad ogni passo di farti precipitare tra i tronchi spinosi più in basso. See indica con preoccupazione le grandi foglie che non bisogna toccare assolutamente, pena pruriti feroci, ortiche malefiche truccate da innocuo fogliame domestico. La salita è infinita e se di tanto in tanto ti puoi fermare appoggiato ad un tronco, il respiro spezzato, i muscoli doloranti, basta volgere lo sguardo più in alto, sperando di intravedere nella cupola verde il termine della sofferenza. Invece il cammino continua, sempre più pesante, difficile, faticoso. Sono quasi le cinque quando emergiamo dalle cime degli alberi nella parte alta della montagna, dove il terreno è stato parzialmente liberato per una primordiale agricoltura taglia e brucia. Ancora un'ora di falsopiano tra piccoli campi che mostrano solo più le culture rinsecchite. Riposiamo  un poco, distrutti, sotto un riparo di frasche usato dai contadini durante il lavoro dei campi. See e l'altra guida ci guardano con un sorriso (di compatimento?). Un ultimo strappo ripidissimo ed ecco sul crinale del monte la lunga fila di capanne di un villaggio Akha. Forse siamo in salvo.

Il villaggio Akha.

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4 commenti:

Martino ha detto...

Se la guardi bene, l'ultima foto ricorda Vignale Monferrato visto da lontano, lontano...

Adriano Maini ha detto...

Certo, in questa occasione balza evidente agli occhi la tua formidabile, e artistica, vena di ironia, ma non userò certo questa cifra, sia perché inadatto, sia per rispetto della miniera di grandi informazioni che anche qui hai scavato

Nidia ha detto...

Saper sorridere ansimanti e sudati è una gran bella dote. Forse sorridi adesso che l'avventura è racconto:-) Inutile dirti quanto, ancora una volta, mi piaccia leggerti e seguirti nei tuoi percorsi impervi (standomene seduta comodamente)

Enrico Bo ha detto...

@Marty - Direi piuttosto Montemagno se ci fosse il campanile.

@Adri - Bisogna ridere per non piangere. In effetti è stato un itinerario davvero spettacolare quello nella jungla.

@Nidia - Una volta fatto rimangono solo i ricordi positivi e sono stati talmente forti ed intensi che ne valeva di certo la pena. (Molti amici dicono poi che io amo ingigantire un po' le cose per farmi compassionare, ma se non dai un po' di colore, diceva un mio amico giornalista...

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