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mercoledì 26 giugno 2013

La storia di Almaz.



Almaz era nato in un piccolo paese del sud del Khazakistan. Era cresciuto in un villaggio di contadini quasi al confine con l'Uzbekistan, da dove proveniva anche la sua mamma, ragione per cui non era venuto su grande e grosso come suo padre, un Khazako alto quasi due metri con un testone quadrato enorme ed il naso rincagnato come se da piccolo avesse sbattuto contro il muro, ma aveva mantenuto i tratti gentili e minuti degli Uzbeki, anche se i suoi occhi nerissimi mantenevano quel taglio orientale e le lunghe ciglia che rendevano il suo sguardo particolare e ammaliatore. Veramente il suo nome vero era Khadjmurat, ma sua mamma aveva cominciato a chiamarlo così, Almaz, Diamante forse proprio per quelle occhiate irresistibili che lanciava quando passeggiava per il villaggio mostrando magari appuntata al petto la medaglietta del Komsomol. Nel suo villaggio era cresciuto ai bordi dei giardini e sotto gli alberi di mele, bianche e rosse, le più profumate del mondo. Come tutti i suoi coetanei era stato nei campeggi dei pionieri e poi alla scuola tecnica nella grande città vicina e la dissoluzione dell'URSS lo aveva colto mentre cominciava a lavorare per un uomo particolarmente influente che stava emergendo nel bailamme politico ed economico sopravvenuto alla creazione del nuovo stato. Era molto coscienzioso e preciso e questo lo faceva benvolere dal signor Kurjalov, il boss, che spesso lo portava con sé quando andava in giro a controllare le sue attività. Anche se piccolino, quel suo sguardo assieme tenero e misterioso esercitava un discreto fascino su tutte quelle stangone bionde di origine russa che gravitavano negli uffici, segretarie, operaie e inservienti varie, ma anche molte khazake, tarchiate e forti, avevano spesso mostrato un interesse ingordo alle sue attenzioni. Ma lui sembrava piuttosto insensibile a quei richiami, tutto teso ad accontentare i capricci del boss e a guadagnare fiducia nella gerarchia dell'organizzazione.

Così lo accompagnava a vedere il nuovo stabilimento in cui sarebbe stato montato un impianto per imbottigliare bibite gasate, oppure nelle serre enormi dove si sarebbero prodotti i meloni più dolci del mondo, che avrebbero dovuto poi essere lavorati, tagliati ed essiccati a fette, il boss le chiamava le banane di melone, nel vicino impianto. Ogni tanto andavano invece a controllare il procedere dei lavori nell'area fuori città su cui Kurjalov stava costruendo un nuovo albergo, che nel progetto avrebbe avuto tutti quei lussi occidentali che aveva apprezzato con meraviglia andando in Italia, quando era stato in quella città dalle case tutte scrostate, senza auto, con i canali al posto delle strade e le barche al posto degli autobus. Un posto davvero strano per loro che conoscevano solo la steppa e il suo arido gusto di sale. Tante cose nuove difficili da capire, come quando per tutta la notte aveva telefonato ad un numero visto alla televisione nella stanza, ogni stanza aveva un suo proprio televisore moderno e completamente funzionante e un frigorifero pieno di piccole bottiglie di alcoolici, ma così piccole che se le era scolate tutte in un attimo, e intanto non capiva cosa diceva quella ragazza al telefono, che ansimava un sacco, ma non si decideva a venire nella sua camera per fare quello che evidentemente era il suo lavoro, come prometteva dalla TV e al mattino quel costo mostruoso  in aggiunta alla camera. Per fortuna che ci avevano pensato quelli della ditta che li ospitava. Ma Almaz non pensava a queste cose. Almaz vuol dire Diamante e la sua mamma aveva scelto proprio quel nome forse proprio per il bagliore che già appena nato lanciavano in giro quei piccoli occhi neri e curiosi.

No, anche se aveva ormai quasi trenta anni, Almaz non sembrava pensare molto a queste cose, gli premeva di più la considerazione del boss, che ormai accompagnava quasi sempre. Così quando arrivò la delegazione dall'Italia per inaugurare la fabbrica delle bibite, era sempre al suo fianco un po' in qualità di autista, un po' come fiduciario. C'era il Presidente della ditta italiana che aveva progettato e fornito tutti i macchinari, il responsabile dell'Ufficio di Mosca, i tecnici che avevano seguito il progetto e anche la loro interprete italiana. Almaz, che si era messo al fianco del signor Kurijalov la guardava, mentre con spigliatezza traduceva i discorsi ufficiali, rivolgendosi di volta in volta ai due presidenti. Era bellissima, di quel fascino esotico occidentale, quali erano presenti solo le donne dei suoi sogni, minuta eppure morbida negli atteggiamenti e nel muoversi, con quel suo delizioso appoggiar la testa da un lato quando attendeva il suo turno di parlare. All'apparenza timida e riservata, lanciava occhiate qua e là, lasciando trasparire una energia insospettata e la profondità dei suoi occhi davano spazio a promesse non dette, ad un abbandono senza preclusioni verso la persona scelta. Almaz si sentiva battere forte il cuore, era completamente  folgorato. Per un giorno ancora non disse nulla, rimase soltanto in estatica ammirazione della donna che rappresentava per lui la perfezione assoluta, la personificazione del suo desiderio. Il terzo giorno tutta la delegazione si trasferì a vedere l'albergo la cui costruzione era quasi terminata. Kurijalov voleva affidarne il completamento all'esperienza occidentale. L'edificio era venuto su con criteri sovietici e aveva l'apparenza di un'area bombardata da poco.

Muri e piastrelle nuovi ma già sbrecciati, gradini sconnessi, scale sbagliate e soglie di marmo bianco storte e male applicate, tondini di ferro già arrugginiti che fuoriuscivano dalla facciata male intonacata.. Si aggirarono per un po' nell'edificio. Gli occidentali non avevano cuore di dire al boss che sarebbe stato meglio radere tutto al suolo e ripartire da zero. L'interprete traduceva accuratamente i consigli con quella sua voce dolce e la erre arrotata così sensuale. Il segretario prendeva nota e Almaz intanto, dietro, non aveva occhi che per lei, la guardava muoversi, quel leggero ondeggiare delle sua figura flessuosa che promettevano notti bollenti e gli pareva che di tanto in tanto, mentre si rivolgeva ridendo a Kurjalov, guardasse anche lui, anzi forse quello splendido sorriso era rivolto proprio a lui con il delizioso arco delle sue labbra, quasi fosse un invito a farsi avanti. Quella sera, attese che fossero terminate le infinite pridlazhenije che accompagnavano i brindisi, poi terminata la cena, mentre accompagnava il boss, decisamente allegro, tra gli infiniti cadaveri di bottiglie di vodka vuote, ebbe il coraggio di raccontare il suo segreto, chiedendogli di intercedere per lui. Il giorno dopo, mentre passavano dal paese dove Almaz era nato, fece vedere a tutti la sua casa e presentò suo padre che se ne stava seduto in silenzio sulla panca di fianco all'uscio. Chiese scusa, poi si appartò un attimo con lui a parlottare, mentre gli italiani girellavano intorno scattando qualche foto. Si sentì ad un tratto la risata sommessa della ragazza che stava accarezzando due bambini che giocavano nella polvere. Il vecchio alzò la testa in quella direzione e fece un cenno di assenso con la testa. Almaz chinò il capo su cui il vecchio passò una mano lieve, come una benedizione.

Il ragazzo tornò alla macchina e disse a Kurjialov: "Mio padre ha dato l'assenso al matrimonio." A questo punto il boss decise di prendere a cuore la causa del suo uomo fidato. Si era deciso di andare al paese dove sorgeva l'impianto delle serre, per mettere le basi per il progetto degli essiccatoi per le banane di melone prossime  venture. La strada correva diritta lungo la steppa arida; lontane verso sud la catena delle montagne dalle cime innevate. Le auto si fermarono, al fianco della carreggiata, in un grande spiazzo, un gruppo di cavalieri correvano in ogni direzione disputandosi con gran colpi e spallate, una carcassa di montone. Era il buzkashi, il gioco delle campagne che diventa vetrina ed esibizione dell'abilità a cavallo dei giovani del paese. Spinte e colpi proibiti, tutto vale per strapparsi la bestia e portarla, inseguiti dagli altri, al palo per segnare il punto. Kurijalov, forte della sua autorità scese dall'auto e interruppe il gioco, richiamo i capi delle squadre e distribuì loro, con la larghezza di un sovrano mongolo, una gran mazzetta di tenghé, le sudice banconote khazake che circolavano a pacchi, perché mostrassero agli ospiti occidentali il gioco in tutta la sua feroce violenza. Mentre tutti erano sul bordo della strada a guardare il volteggiare dei cavalli e gli strattonamenti per strapparsi l'animale, qualcuno cadeva malamente, altri galoppavano verso il fondo dello spiazzo e tutti gridavano avvolti dal polverone sollevato dagli zoccoli, Kurijalov si avvicinò al Presidente parlottando a lungo.

In soldoni, il suo Almaz chiedeva ufficialmente in sposa l'interprete italiana, di cui si dichiarava perdutamente innamorato. Lui come suo garante, assicurava la copertura di tutte le spese del matrimonio e una congrua dote agli sposi, eventualmente anche l'acquisto di un gregge di proporzioni maestose qualora avessero voluto sistemarsi nel villaggio di origine di Almaz o in alternativa una casetta in città. Bastava che il presidente fosse d'accordo e la cosa si poteva concludere anche subito. Il Presidente preso alla sprovvista cercò di tergiversare assicurando che avrebbe comunque parlato all'interprete della serietà delle intenzioni di Almaz e alla sera in albergo, quando spiegò alla ragazza, completamente sorpresa, la vicenda, le consigliò di tenere un profilo basso fino al giorno dopo, data prevista per il rientro in Italia. Quella sera ci fu una gran festa, la cena di addio e Kurjalov non voleva certo sfigurare di fronte agli ospiti italiani. C'era una orchestra tradizionale e si ballò molto, mentre le casse di Stolichnaja si vuotavano. A un certo punto un suonatore di dombrà si staccò dall'orchestra e si mise davanti alla ragazza che si teneva proprio di fianco al Presidente e cominciò a suonare una melodia struggente.

La canzone doveva però essere divertente e con qualche salace sottinteso, perché tutti ai tavoli si davano gran manate sulle spalle ridendo a crepapelle. Solo Almaz non rideva e seguiva la serenata con gli occhi bassi mentre la ragazza, imbarazzatissima cercava di darsi un contegno continuando a tradurre banalità. Nella penombra delle luci basse i suoi lunghi capelli si muovevano come onde ed i suoi occhi che guardavano nella sua direzione di sfuggita, sembravano ancora più belli. Con molta diplomazia il Presidente prese da parte Kurjalov, per la verità già un po' alticcio, fece presenti le difficoltà della situazione, consigliando di soprassedere e il giorno dopo la delegazione prese il volo, con l'interprete ancora leggermente scossa dall'intera vicenda. Almaz rimase a lungo sulla balconata dell'aeroporto a guardare le ali d'argento che gli portavano via la donna della sua vita. Kurijalov gli sbatté una delle sue manone sulla schiena e con la sua risata grassa gli disse: "Ricordati che le donne ed i montoni li devi scegliere sempre al tuo paese". Un anno dopo arrivò la notizia che aveva rapito, col suo consenso naturalmente e con quello del boss, una bella uzbeka dagli zigomi alti, pare bravissima a fare yogourth di latte di cammella, una fuitina centroasiatica insomma. 


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giovedì 27 dicembre 2012

Quei bei freddi di una volta!

Gelo russo. - (f. Komaricev)

Il tempo è cambiato, le temperature si sono alzate, in montagna invece di nevicare piove, sembra quasi primavera, Monti è salito in politica. Avevano ragione i Maya, deve essere cominciata una nuova era. A testimonianza degli ultimi giorni del tempo passato, l'amico E. mi manda dalla lontana Russia questa bella foto nostalgica che illustra bene la situazione dei - 50°C, ragionevolmente comuni da quelle parti fino a pochi giorni fa. E' un grido di dolore, un amarcord dei bei tempi andati di come si stava bene quando si stava peggio. Un   momento di caduta nostalgica a ricordare una quindicina di anni fa, una fine inverno trascorsa in un vecchio palazzetto malandato e cadente a Chimkent, terra di Khazakistan. Pareva uno di quei palazzi di Beiruth dopo i bombardamenti e invece era appena finito e la mancanza di riscaldamento (era uno dei momenti più cupi della ex-URSS in default) faceva fiorire i muri interni delle case di questi cristalli malevoli, bellissimi nel racconto, ma come dita di una strega maligna che avesse lanciato il suo incantesimo mortale su una landa sfortunata. Tornano alla mente amici ormai lontani. Il gigantesco Khazako dalla faccia da Gengis Khan che cercava sempre di baciarti in bocca, generoso e semplice nel suo desiderio di creare nuove fortune, una volta a cercar di convincere la mia collega a sposare il suo protetto Almaz, un'altra a tentare di ingozzarci di latte di cammella, panacea di tutti i mali. Poi l'amico emiliano, così somigliante a Pavarotti che questo era ormai diventato il suo nome, troppo presto perduto e tanti altri ormai dispersi nella steppa ghiacciata del ricordo. Il tempo scorre in fretta e ti fa parer piacevole anche i momenti in cui ad ogni respiro sentivi una lama arrivar dritta in fondo alla gola, segno che si era ormai sotto i 25°C e lanciavi maledizioni, sognando solo di tornare a casa, mentre cercavi di rientrare al più presto in un locale riscaldato. Da allora non ho quasi mai freddo, che strano, eppure ero sempre stato un freddoloso piagnone che si ricopriva come un gatto da camino. Sarà la situazione generale che, se appena ci pensi, fa sudare.

sabato 12 marzo 2011

Notte Khazaka.


Era da poco passato mezzogiorno. I binari della stazione di Alma Ata parevano immersi in una lattescenza pallida dalle sfumature grigie che impediva di scorgere anche i binari. La poca neve che riusciva a cadere dal cielo ghiacciato sembrava sospesa per aria e faticava a scendere quasi timorosa di sporcarsi tra le banchine inzaccherate. Nascosto dietro i pilastri, infagottato in una dublijonka di pelle unta, un vecchio uzbeko segaligno stava mummificato dal freddo, con gli occhi ridotti a fessure sottili. Davanti a lui, ordinate su di un piccolo banchetto di legno, una piramide di enormi mele verdi e rosse. Le famose mele di Alma Ata, il Posto delle Mele, dolcissime, forse le più buone del mondo, così almeno recitava lo scrostato manifesto di benvenuto fuori della stazione.


G. ne comprò un paio, le più grosse all'apparenza e salì sul vagone numero 5, quello dove un amico gli aveva trovato un intero scompartimento libero. La capavagone glielo indicò con gesto stanco prima di scomparire nel suo bugigattolo e lui vi si accomodò alla meglio sistemando la valigiona e la borsa nera dei contratti di fronte a lui. Il treno partì alle 13:oo in perfetto orario, come sempre, senza scosse, con una progressione lenta ed implacabile fino a lasciare la città ormai solo un pallido tremolio nella nebbia immobile. Tredici lunghe ore prima di arrivare a Chimkient. Il treno filava veloce e senza scosse, quasi senza rumore come scivolando su un sottile tappeto bianco. Il biancore accecante al di là del vetro ricoperto dalle rose di ghiaccio, aveva una valenza quasi ipnotica nella sua monotonia senza fine, tanto da confondere i sensi, fino a far apparire il convoglio quasi fermo, come se, stanco di quel non-paesaggio avesse deciso di lasciarsi andare, di fermarsi dolcemente e senza scosse nella steppa infinita fino a lasciarsi morire, preda di ferro nella mascella avida del gelo.


Nebbia e neve, bianco assoluto che ottundeva anche i poveri colori all'interno dello scompartimento fino ad annullarli, rendendo nullo anche lo scorrere del tempo, una variabile che forse non esiste nella steppa, non trascorre, forse muta secondo canoni diversi, rimanendo immobile a lungo per poi d'improvviso rivelarsi già passato. Niente linea dell'orizzonte, niente punti di riferimento o montagne lontane a fare da quinte ad uno spettacolo senza parole. Solo una lieve mutazione nel tono di luce annunciò che forse erano già passate molte ore e che un'altra oscurità ancor più caliginosa avrebbe sostituito entro breve tempo il grigiore pallido del giorno. G. si trascinò fino al Vagon Restaurant, senza grandi speranze. Era quasi deserto e sulle tovaglie sporche vicino ad un vasetto con fiori di plastica striminziti e tristi, un cameriere assonnato gli servì una salijanka, la scipita minestra siberiana, dove tra i grandi occhi di grasso galleggiava qualche pezzetto di materia biancastra e un trancio di pesce senza nome, forse un pangasio cinese che gli parve stoppa cenciosa. Rinunciò alla seconda mescita di acqua scura spacciata come thé e ritornò mestamente nel proprio scompartimento per cercare di dormire almeno qualche ora.


La steppa khazaka era ormai scomparsa dalla vista, se mai c'era stata. La notte era scesa di colpo ad assassinare un altro giorno inutile. G. cercò il grande tasto di bachelite sovietica marrone per spegnere la luce, quando, inattesi e sconosciuti, due colpi leggeri, come di nocche gentili batterono la porta. L'anta si aprì piano, scivolando quasi senza rumore. Davanto a lui si ergeva, gigantesca una figura inquietante. Un donnone enorme, quasi due metri di una Khazaka che il parka cinese con inserti di pelliccia di cane rendeva ancor più immensa, fino a farle occupare per intero la luce dell'apertura. Le guancione rosse comprimevano gli occhi quasi chiudendoli mentre i radi capelli neri e untuosi scomparivano in un cappellaccio di lana spessa di colore indefinito. Aveva tra le mani e attorno al collo diversi serti di specie di peperoni rossi e lunghi come corna sataniche che allungò verso di lui ammiccando. Mostrò la merce che quasi si confondeva con dei ditoni grassi e coperti dalle offese del gelo. Sembrò ridacchiare davanti al diniego di G. innervosito per aver aperto la porta, poi con una voce inaspettatamente sottile ed acuta, gli chiese: -Italianiez?- Chissà come è, ma tutti si accorgono subito della nostra nazionalità, o forse più semplicemente era stata informata dalla capavagone. G . pronunciò un Da smozzicato.


A quel punto la Khazaka spalancò la bocca in quello che voleva essere un largo sorriso, mostrando due file di zanne completamente ricoperte di lamina d'oro su cui la scarsa luce della lampada centrale provocò uno scintillio sinistro, un bagliore quasi minaccioso. I 150 kili si spostarono sulla gamba sinistra, per assumere una posizione più vezzosa poi, in tono che parve più che mai ammiccante esalò: - Strip tease? sex massage y khazak bunga bunga, iesli xatitie? (se volete?)- Gli occhi sbarrati di G. fornirono già una risposta esaustiva, bofonchiò comunque uno strascicato -Spassiba- e riuscì a chiudere la porta lasciando ad altri l'offerta tentatrice. Spossato si coricò sul sedile. Poco dopo, ma chi può dire quanto tempo trascorse, il treno entrava fischiando nella stazione di Chimkient. Erano le due e quattro minuti. In perfetto orario come sempre. Prima di scendere, G. addentò una delle due mele, quella più grande, dalla parte dove il verde cambiava in rosso acceso. Era davvero dolcissima.




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