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sabato 7 gennaio 2017

Mороз

Mosca oggi - Foto E. Komaricev


Questa volta non posso più dire: eh, non ci sono più quei bei freddi di una volta. E va bene che ad Alessandria abbiamo scavallato solo attorno ai -5°C e in campagna ai -10°C, mentre quando nei gennai anche solo di una trentina di anni fa, anni 80, per non andar troppo indietro, quando mi arrivavano i vagoni delle patate da seme dall'Olanda alla stazione di Castelnuovo Scrivia, calava sempre a -20°C, però come dicono a Torino, fa sempre un bel ginicco. Quindi insomma, lamentarsi è delitto se pensiamo a quello che succede in Abruzzo e alto Lazio. Certo ricordo con tenerezza mia mamma che usciva per strada mettendo le calze di lana sopra le scarpe per non scivolare sul ghiaccio, ma allora, nel tempo del fungo cinese (chi se lo ricorda), la gente dava la colpa alle bombe atomiche. Intanto mi,scrive il caro amico Evgheni da Mosca che da lui si è scesi a -33°C e che oggi proprio non si sente di andare fino al parco, al massimo fino alla farmacia!!!! 

Accidenti che nostalgia per quel mondo fatato della Mosca invernale, tra fumi di vapore che invadevano i marciapiedi e puzzo di cattiva benzina che ammorbava l'aria uscendo dagli scappamenti delle poche Zigulì in circolazione o il fumo nero degli avtòbus, che scodinzolavano scoppiettando sul Kalzò. Le ragazze uscivano dalla porta della metro della Majakovskaja quasi correndo, tirandosi su il bavero della pelliccia lisa e calcavano ancor di più la shapka pelosa sulla testa nascondendo la massa bionda e vaporosa, gli zigomi alti da gatte siberiane rossi di freddo e gli occhi azzurro grigi che ti trapassavano come lame gelate, cercando di evitare il ghiaccio sui marciapiedi ingombri di ghiaccio caduto dai tetti. Però tutti sparivano subito dentro i portoni cercando di tenere il respiro perché ad ogni inalazione una fitta dolorosa ti si piantava in mezzo al petto e resistevi pochi minuti all'esterno. Rimaneva solo la tristissima figura del soldato di guardia, all'ingresso dei parcheggi degli edifici pubblici. Sembrava l'omino della pubblicità Michelin, gonfio come un pallone nei doppi o tripli giacconi imbottiti, il cappello foderato di coniglio con le patte calate che coprivano tutte le guance, sotto il quale vedevi solo gli occhi orientali socchiusi come fessure. Batteva i piedi ciondolando da una gamba all'altra anche se credo che ogni mezz'ora gli dessero il cambio per non farlo morire. 

I rumori erano attutiti, come tutto fosse avvolto dall'ovatta spessa e il crok crok dei piedi nella neve ti arrivava alle orecchie senza spigoli, mentre l'aria ti lasciava come un sentore di ferro nelle narici. Che piacere entrare in una casa qualunque, che fosse un ufficio, un locale o quella di un amico! Un senso di calore intenso, c'erano sempre più di 30°C, che assaporavi a lungo come se fosse una riparazione alla sofferenza del mondo esterno, senza far caso all'odore umido e sudaticcio che l'impossibilità di aprire le finestre, lasciava in ogni ambiente. Doppi, tripli vetri su cui il gelo disegnava le trine dei mondi delle favole d'inverno; in alto, i finestrotti che si potevano aprire in senso orizzontale, ma che nessuno poi apriva mai, sei matto? Seduto vicino agli amici a mangiare un borsch caldo o un bel piatto di pelmeni e poi kolbazà a fette spesse o il parmigiano portato dall'Italia, ridendo per qualche barzelletta scollacciata. Quante barzellette raccontano i russi! Più di Berlusconi in forma. Intanto spuntava sempre una bottiglia di vodka Na traich, vuol dire Per tre, nel senso che basta ogni volta giusto per tre persone, poi ce ne vuole un'altra e finirla tutta la bottiglia mi raccomando, se no il padrone di casa si offende. Che nostalgia! La saudaji è una gran brutta cosa, un sentimento dolce e amaro allo stesso tempo, in cui crogiolarsi in solitudine, che prende non solo i brasiliani lontani dal carnevale. Forse però, non è il dispiacere di non poter più rivedere un luogo lontano, ma soltanto il rimpianto per gli anni che non tornano indietro, assieme alla nostra gioventù.


P.S. Una cara amica che ha condiviso molto di questo mio sentire mi suggerisce questo pensiero di Majakovski: Ma la terra con cui hai diviso il freddo, mai più potrai fare a meno di amarla.


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lunedì 25 novembre 2013

Il vestito a pois.

1948
La mia mamma aveva un vestitino leggero, blu scuro con una balza in basso e il collettino quadrato a pois bianchi piccolissimi, la vita stretta in una cintura di stoffa uguale, che prima di uscire tendeva con cura e due deliziosi sandali che si chiudevano legando un nastrino. Credo che fosse la voglia di primavera a farglielo mettere, quel bel vestito con la gonna sotto il ginocchio, che si era cucito con cura alla sera, pedalando sulla piccola pedana di ferro della Necchi, regalo di matrimonio. Le cose sembravano andare sempre meglio e la guerra, con le ferite e gli strascichi che si era portata dietro, era sempre più lontana. Non doveva più andare a fare la coda al negozio per avere due etti di olio una volta al mese con la tessera e il paese cominciava a produrre a pieno ritmo. Teneva i capelli alla moda fine anni 40, lunghi dietro con i boccoli pieni che si giravano verso l'alto e quella specie di due riccioloni alti che lasciavano scoperta la fronte, un po' come le ragazze del trio Lescano. Prima di uscire per portarmi ai giardinetti di piazza Genova, si metteva un filo di rossetto, vezzo che ha conservato per tutta la vita. Poi magari, facevamo un salto fino in via Dante, se era di pomeriggio a portare a riparare uno dei due paia di calze di naylon che possedeva. L'altro lo aveva indossato, aggiustandosi con cura la riga nera che doveva essere ben diritta lungo tutto il polpaccio. Dovevano essere una cosa preziosa le calze di nylon. Ogni tanto, però, capitava qualche piccolo imprevisto e si formava una smagliatura. 

Allora venivano tolte con cura, messe in un pacchettino di carta e si andava in quel negozietto dopo il cinema, il ben noto Giasòn, che si era guadagnato quel nome dal fatto che, probabilmente, d'inverno non veniva riscaldato. Dentro il negozio a vista sulla strada c'erano un paio di banconi con delle grandi lampade che puntavano verso il basso e dietro, appollaiate su trespoli, delle ragazze chine sulle calze rotte, infilate su appositi sostegni che con uno strumento che terminava con un ago particolare, riprendevano le maglie e ricostruivano la smagliatura. Te la consegnavano qualche giorno dopo, segno inequivocabile che c'era un gran lavoro da fare. L'usa e getta era ancora lontano dall'essere immaginato. Poi facevamo ancora un pezzo di strada. Io mi fermavo a sognare un po' davanti al negozio di giocattoli La fata dei bambini e magari, prima di tornare a casa, allungavamo fino a prendere due fette di farinata che mi sbocconcellavo, tenendo il cartoccio nella mano mentre con l'altra mi ungevo ben bene dappertutto. A casa, alla sera ci aspettava il caffelatte con i cruciòn, che la gente che aveva studiato chiamava i biscotti della salute o dopo qualche anno, visto che le cose sembravano andare sempre meglio, con i finocchini rotti della Maggiora. C'era la primavera nell'aria e la gonna leggera blu a pois bianchi della mia mamma svolazzava, quando i timidi colpi di vento della sera lo sollevavano un po', mentre lei cercava di trattenerlo con la mano. 


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giovedì 27 dicembre 2012

Quei bei freddi di una volta!

Gelo russo. - (f. Komaricev)

Il tempo è cambiato, le temperature si sono alzate, in montagna invece di nevicare piove, sembra quasi primavera, Monti è salito in politica. Avevano ragione i Maya, deve essere cominciata una nuova era. A testimonianza degli ultimi giorni del tempo passato, l'amico E. mi manda dalla lontana Russia questa bella foto nostalgica che illustra bene la situazione dei - 50°C, ragionevolmente comuni da quelle parti fino a pochi giorni fa. E' un grido di dolore, un amarcord dei bei tempi andati di come si stava bene quando si stava peggio. Un   momento di caduta nostalgica a ricordare una quindicina di anni fa, una fine inverno trascorsa in un vecchio palazzetto malandato e cadente a Chimkent, terra di Khazakistan. Pareva uno di quei palazzi di Beiruth dopo i bombardamenti e invece era appena finito e la mancanza di riscaldamento (era uno dei momenti più cupi della ex-URSS in default) faceva fiorire i muri interni delle case di questi cristalli malevoli, bellissimi nel racconto, ma come dita di una strega maligna che avesse lanciato il suo incantesimo mortale su una landa sfortunata. Tornano alla mente amici ormai lontani. Il gigantesco Khazako dalla faccia da Gengis Khan che cercava sempre di baciarti in bocca, generoso e semplice nel suo desiderio di creare nuove fortune, una volta a cercar di convincere la mia collega a sposare il suo protetto Almaz, un'altra a tentare di ingozzarci di latte di cammella, panacea di tutti i mali. Poi l'amico emiliano, così somigliante a Pavarotti che questo era ormai diventato il suo nome, troppo presto perduto e tanti altri ormai dispersi nella steppa ghiacciata del ricordo. Il tempo scorre in fretta e ti fa parer piacevole anche i momenti in cui ad ogni respiro sentivi una lama arrivar dritta in fondo alla gola, segno che si era ormai sotto i 25°C e lanciavi maledizioni, sognando solo di tornare a casa, mentre cercavi di rientrare al più presto in un locale riscaldato. Da allora non ho quasi mai freddo, che strano, eppure ero sempre stato un freddoloso piagnone che si ricopriva come un gatto da camino. Sarà la situazione generale che, se appena ci pensi, fa sudare.

sabato 12 maggio 2012

Plast 2012.


A volte basta un sentore, un profumo, un odore. Il cervello dell'uomo è davvero uno macchina strana. Entri in un luogo, senti rumori, movimenti e subito si accende qualcosa; avverti una fragranza particolare e immediatamente scatta la sensazione e la catena dei ricordi si mette in moto come quando schiacci lo start del computer e la macchina comincia a girare, a scavare nei meandri delle connessioni per ritrovare momenti dimenticati, ma che non erano perduti, solo accantonati, catalogati, archiviati e tutto questo mette a sua volta in moto l'onda del sentimento, che non è razionale e meccanica, ma che si nutre di dati per creare sensazioni, afflati, desideri, onde di nostalgia assolutamente irrazionali e non meccanicistiche. Così l'altro ieri, entrato negli alti padiglioni della fiera a Milano, mentre l'occhio correva a decrittare in automatico marchi vecchi e nuovi e lo sguardo vagava inutile sulle rotondità esibite delle standiste fasciate e strizzate dei classici tubini da fiera, alle spalle mi aggrediva un aroma silenzioso, malandrino e ammiccante, quel particolare ed inconfondibile e grato odore di plastica estrusa che aleggia nell'aria delle fiere del settore, e che accompagna inequivocabilmente i tonfi cadenzati delle presse, tamburo sacro di questa religione, battito zen imperturbabile del moderno demiurgo. Eccomi subito entrato in questo mondo come una Alice in una Wonderland  piena di giocattoli grandi e luccicanti, macchine creatrici dalle cui bocche escono implacabili, tubi, fogli, fili; animali metallici giganti che aprono magicamente le loro fauci per fare apparire oggetti cavi, stampati, soffiati, riempiti, plasticamente modellati dalla fantasia del Creatore che ne ha plasmato le linee, curve e filanti, ripetibili all'infinito. Arte pura. 

L'onda dei ricordi corre nella macchina del tempo e tra gli spazi incontri subito facce conosciute, solo un poco più invecchiate, pacche sulle spalle, amici, gente che cercava di soffiarti i  clienti e con cui ora prendi un caffè caldo e ricco di rimembranze, vecchi clienti invece, con cui hai lottato per ottenere una firma e che ti salutano con piacere. Sdradsvuitije, kak diejlà? Le lingue si rincorro. E' davvero un ripiombare indietro nel tempo, un ripercorrere strade lontane valutando la tua fortuna di non aver lasciato dietro le spalle acredini o conti sospesi, ma solo un pizzico di nostalgia. Non siate irridenti valutandomi con l'aria di sufficienza con cui si guardano i vecchi al ricovero; è stato il mio mondo per una ventina di anni, mi avrà pur lasciato un solco nel cuore e io pure avrò lasciato un piccolo segno del mio passaggio, non vi pare? Allora lasciatemi crogiuolare in questo sentimento dolciastro, così piacevole per gli amici rivisti, i conoscenti incontrati, reso un po' triste solo dal vedere situazioni che la durezza del mondo economico e la rapacità di  qualcuno ha reso particolarmente difficili, sempre per gli stessi, naturalmente, la parte debole della macchina produttiva, quei dipendenti  di una antica azienda torinese che sta chiudendo vinta dalla lotta spietata e dalle astuzie furbesche delle pieghe del mercato, ventre molle dove affondare il bisturi che non conosce le persone ma solo i numeri. Me ne sono tornato a casa dal Plast 2012 con ancora le orecchie carezzate dai tonfi delle ginocchiere, dal frusciare del film di polietilene che si arrotola, dal ticchettare dei tappi che cadono come cioccolatini colorati dallo stampo. Questa mattina me ne sono ritrovato uno in tasca; deformazione professionale, la mano in automatico raccoglie ancora i campioni, per esaminarli più tardi, con occhio critico e curioso. Arrivederci ragazzi, buona fiera. 


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giovedì 26 aprile 2012

ностальгия.

La variabilità della primavera sembra girare al bello. Il tepore comincia a farsi sentire ed il mese di maggio alle porte ne darà conto, per lo meno nei paesi come il nostro dove gli eccessi sono sempre stati mitigati dalla latitudine. La centralità e la moderazione è sempre più gradevole dell'estremismo, ma che languore e che nostalgia se penso alla primavera di Mosca. Eppure, tra le altre, è forse la stagione russa più sgradevole. Il bianco nitore invernale si muta adagio adagio in fanghiglia sporca e fastidiosa. Il freddo di nonno inverno, così secco che quasi non lo avvertivi, ben coperto sotto l'esangue disco lontano del sole velato dalle brume non è così sgradevole, anzi, ben conosciuto e preparate le opportune difese, è quasi piacevole. Vesti calde e scarpe imbottite, ti puoi godere la passeggiata anche se, quando fai un respiro lungo, non protetto da una bella sciarpa, senti un dolore al centro del petto, segno inequivocabile che sei sotto i -25°C. La primavera invece quando arriva è pioggerella umida, piedi bagnati, sudore perché sei troppo vestito o brivido di freddo se ti sei scoperto troppo in fretta. Le temperature passano in un attimo da 0 a 20 gradi. Pochi giorni fa l'amico Ferox, sguazzava nella fanghiglia semighiacciata, ieri Zhenija mi parlava di 25°C e maniche di camicia. 

Che sensazione eccitante, quando uscivo al mattino dal Pekin di buon ora e le strade erano ormai asciutte, il sole già alto nel cielo ed ogni giorno potevi constatare di come le ore di luce si allungassero a dismisura e i primi chiarori ti coglievano così presto dai finestroni non velati dell'albergone sovietico, svegliandoti, privo di paraventi a proteggere il sonno, come se i moscoviti non volessero perdersi neppure un attimo di quel bagliore meraviglioso dopo tanti mesi di pallida oscurità. I lampioni gialli ormai spenti, le porte della metro lasciavano uscire frotte di giovani ragazze che la stagione incipiente aveva già convinto a lasciare le calde dublionke e le shapke di volpe per dare spazio a gonne svolazzanti che i soffi di vento forte muovevano così maleducatamente, facendosi beffe dei loro tentativi di coprire le lunghe gambe affusolate, scompigliando ad un tempo anche i loro capelli biondi. Nelle poche centinaia di metri di largo marciapiede del kalzò, l'anello che circonda il centro, che percorrevo per arrivare all'ufficio era tutto un ticchettio di passi veloci, mentre le poche macchine passavano finalmente senza sollevare gli sgradevoli spruzzi di acqua sporca. 

Avevi una sensazione di gradevole speranza, non turbata dal miserevole squallore delle vetrine spente e grigie, il negozio misero di orologi usati Ciasì dati in conto vendita, la sartoria che pomposamente si chiamava Atelier, con due manichini storti e un fondale staccato da anni che nessuno raddrizzava,  il magazzino Producti con gli scaffali desolantemente vuoti e le sue commesse ingrugnite che speravano solo che tu non entrassi ad infastidirle. Bastava fare due passi in uno dei tanti parchi della città e lo spuntare dei germogli, le prime verdi foglioline sui rami allargavano i sorrisi delle mamme coi bambini per mano, qualche vecchio cominciava a sedersi qua e là a giocare a scacchi, anche l'aria non sembrava più puzzare di carburante mal combusto. Avevi voglia di stare fuori, di passeggiare per le strade del centro tra i palazzi antichi decaduti, nel giardino sotto al Cremlino a vedere se anche quella fine di aprile era così ricco di spose che portavano il bouquet alla tomba dei caduti, a traversare la Piazza Rossa in diagonale per goderti i colori delle cupole di San Basilio. Zhenija si stringeva nel cappotto leggero, sembrava avere ancora freddo, stringendosi il foulard attorno alla gola, piuttosto delicata e guardava di sbieco la torre Spaskaija con la stella rosso rubino che continuava a brillare anche se ormai sventolava la bandiera bianca, rossa e blu del rinnovamento. Che nostalgia!


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mercoledì 11 aprile 2012

Scarpe rotte eppur bisogna andar.

Non siamo mai contenti. Sono quattro mesi che non piove ed ecco che vengono due gocce e tutti a lamentarsi del diluvio universale. Manca il senso di sopportazione (forse se lo sono mangiato tutto col finanziamento pubblico), però, accidenti sono uscito stamattina ed ecco qua, sono già con tutti i piedi bagnati. Dice, ma mettiti delle scarpe che non facciano passare l'acqua. Parli bene. Io, che una volta sono sempre stato all'asciutto. Altri tempi. C'era ancora il mio papà e lui, da giovane, aveva fatto il ciabattino. Più che ciabattino aveva lavorato in una fabbrica di scarpe (ad Alessandria ce n'erano tre, con quasi 2000 operai, così come altre 17 tipologie di industrie, quinta città d'Italia come industrializzazione, mica come adesso che siamo attorno all'ottantottesimo posto) e le scarpe le sapeva fare a mano, mica scherzi. Un artigiano coi baffi, calzato e vestito. Diventato ferroviere, aveva comunque conservato, oltre alla manualità, un apposito deschetto poi scomparso con gli scompartimenti dove stavano le diverse misure di chiodi e vari strumenti  e una cassetta, che deve essere ancora in cantina da qualche parte, con tutti gli arnesi del mestiere, un attrezzo di ferro che mi pareva pesantissimo con tre sagome diverse per infilarci la scarpa da aggiustare, lesine, trincetti, aghi, martello, tenaglie, spatole e raspe. Carta vetrata di diverse gradazioni fino al triplo 0 e chiodi di tutte le misure, comprese le cosiddette semenzine di cui si metteva sempre una manciata in bocca, tenendo la scarpa da una mano e il martello dall'altra. 

Io lo stavo a guardare, quando ero piccolo, stregato da quella attività di abilità manuale, un complesso gioco di maestria che partiva da una continua valutazione fatta con occhio critico e perplesso, man mano che il lavoro procedeva e poi la scelta delle strumento, la chirurgica applicazione dello stesso, il taglio, lo smusso, la rifinitura attenta. E quel rigirare la scarpa tra le mani a lavoro finito, già passato il ferro scaldato sulla stufa per lisciare il cuoio trinciato e lucidato, rimirando l'opera compiuta con un leggero sorriso di soddisfazione. Suole di cuoio spesso, poi colla e doppia cucitura con lo spago forte, altro che piedi bagnati e quando arrivavo da lui, per prima cosa mi buttava subito un occhio alle scarpe. "Fa 'n po' vighi 's scarpi che so no t'at bagni i pé". Toccava lasciargliele qualche giorno, lui andava a comprare un bel foglio di cuoio, la colla tedesca, quella micidiale che se ti rimaneva sulle dita, non le staccavi più e dopo qualche giorno, quando passavo, ecco lì il paio di scarpe lucidissime che parevano nuove. A quella operazione era addetta mia mamma con uno straccio morbido e una speciale crema che stava in una scatola di latta e mio padre:"mettine poca che si corrode la tomaia". Adesso invece non le ho mai più avute lucide 'ste benedette scarpe e appena si consuma un po' la suola, bisogna buttarle, se no non fai girare l'economia e intanto appena vengono due gocce ho sempre i piedi bagnati.


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martedì 27 marzo 2012

Mutande di lana.

Beh, dai ragazzi, ormai è scoppiata la primavera, alberi in fiore dappertutto e, cosa rimarchevole sotto ogni aspetto, non fa più freddo. Stamattina, mentre di buon ora, verso le 9 e mezzo, me ne andavo a zonzo a tentare inutilmente di fare qualche commissione, c'era un alito tiepido nell'aria che ti levava anche la voglia di litigare con quel disgraziato che deve stare tutto il giorno allo sportello a prendersi contumelie a causa di una burocrazia di cui non è responsabile, ma come si dice, utilizzatore finale. Si sta proprio bene, col sole ancora lieve e non aggressivo che scalda senza bruciare e il profumo dei fiori nell'aria. In Giappone è il tempo della fioritura dei ciliegi, che ci frega dello spread. Dice, ma che fai, parli del tempo come gli inglesi, tanto per allungare il brodo quando non si sa che cosa dire? Anche, ma il fatto è che mi è venuto in mette che quando cominciava questa stagione e si cominciava a sentire il calore della primavera inoltrata, mio papà si levava le mutante lunghe di lana. Ma sì, io appartengo ad una generazione che, anche se si è sempre rifiutata di usarle, per lo meno lo ha visto, questo fantomatico indumento del passato. 

Facente coppia con l'altra famigerata compagna, la maglia di lana, quella che rappresentava un vero e proprio cilicio medioevale, ruvida ed insopportabile sulla mia pelle tenerella di bimbo, era un indumento dello stesso materiale, ruvido, grezzo e caldissimo che arrivava fino alle caviglie e le cui estremità inferiori venivano infilate direttamente nelle calze per evitare eventuali pericolosi spifferi. Ragazzi, allora faceva un freddo cane d'inverno, altro che questo fine gennaio, quando per pochi gradi sotto zero, la gente sembrava che morisse surgelata (io comunque ho pensato bene di starmene al calduccio in Laos, come ben sapete). Il mio papà le calzava con aria furba verso l'inizio di novembre e per la verità se le teneva anche fino alla fine di aprile, fedele al proverbio:"aprile non ti scoprire" e si faceva beffe di me che preferivo patire il freddo.  Per la verità lui giustificava questo stile di vita col fatto che facendo i turni di notte su una cabina della ferrovia, esposta al gelo notturno e riscaldata solo da una stufetta a carbone, arroventata, su cui mi scottai pure un dito quando fui portato a "vedere i treni", aveva necessità di essere ben coperto durante il gelido inverno che a quei tempi imperversava nella tundra alessandrina. 

Tuttavia mi sembra che quando arrivava la stagione buona, mia mamma continuasse a dirgli, ma quando è che ti togli le mutande di lana, e lui rimandava col fare di chi pensa, ma perché devo patire il freddo inutilmente. Questa abitudine però se la portò dietro anche fino alla tarda età, quando la cabina da deviatore di treni (anzi Capo-deviatore, lui ci teneva molto), l'aveva lasciata da un pezzo. Ma si sa gli anziani hanno sempre freddo. Questo un po' mi consola, perché io, ancora non lo patisco molto. Certo era una stile di vita che riguardava solo gli uomini, in quanto le donne, che evidentemente hanno una pellaccia assai più resistente (appartengono ad una specie diversa in effetti), non hanno mai usato questo indumento; anzi allora non portavano neppure i pantaloni e la mia mamma se ne andava per tutto l'inverno con le sue gonnelline svolazzanti  e le calze di naylon leggere con la riga dietro, grande conquista del dopoguerra da esibire con orgoglio. Com'era bella la mia mamma quando mi portava all'asilo tenendo me per una mano e il panierino di vimini della colazione su cui aveva ricamato due ciliegie nell'altra. Era davvero la più bella di tutte. Poi, saranno stati gli inverni più miti, ma le mutande lunghe di lana se ne sono andate nel dimenticatoio assieme a tante altre cose. 

Non me le ricordavo quasi più quando d'improvviso le ho ritrovate nei miei primi anni di lavoro a Pechino. Inverni gelidi e riscaldamenti approssimativi laggiù, come sulla cabina dei deviatori. Così ecco il mio amico Ping che, nelle camerucce di alberghi di provincia, togliendosi i pantaloni, esibiva magnifiche mutande di lana, fino alle caviglie. Quando venivamo ricevuti in qualche fabbrichetta di paese poi, ecco il direttore della brigata che arrivava trafelato, attraverso il cortile pieno di neve, si sedeva, nel salone gelido e non riscaldato, sulle poltrone sbocconcellate, con la plastica sdrucita sugli spigoli, stringendo tra le mani coperte dai mezzi guanti, una tazza di thé bollente per scaldarsi almeno un po'. Buttavo l'occhio smaliziato e da sotto i pantalonacci pesanti, sporchi di fango o di letame, spuntavano sempre, civettuoli i bordi di lana spessa, a volte a coste larghe, delle mutandone lunghe fatte a mano da mogli amorevoli o forse dalle addette della comune. Mi sa che i tempi cono cambiati anche da quelle parti adesso che il tizio che ti veniva a prendere alla stazione in bicicletta adesso viaggia in Audi 6. Però devo chiedere a Ping che fine avranno fatto tutte quelle mutande di lana. Forse adesso comincia a far caldo anche là.


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lunedì 5 dicembre 2011

Il Milione 58: Ritorno a casa.


Marco Polo - Immagine dal web


Eccoci qua, dopo più di un'anno che abbiamo cominciato questo viaggio, siamo tornati a casa. E' sempre allo stesso modo, quando un viaggio finisce, si è sempre un po' tristi, mentre si cerca di metabolizzare l'esperienza. Così immagino anche voi, che l'avete seguita, spero con interesse, avendo capito quanto mi ha appassionato. Credo che gli stessi sentimenti li covasse nel profondo anche il nostro amico Marco Polo, che è diventato ormai anche un po' vostro, anche se per lui il viaggio è durato più di 23 anni. Così ce lo immaginiamo, mentre la galea si avvicina a Venezia, partito ragazzo e di ritorno uomo maturo e con quale esperienza dentro di sé, sul ponte di legno, mentre gli unici rumori sono lo sciabordio dell'acqua ferma, smossa dai remi e le grida dei vogatori, ad osservare le prime isole della laguna che si avvicinano, a indovinare le prime case lontane di quella città già allora straordinaria, come le tante che ha visto nel suo peregrinare. 

Basilica di San Marco
Una bella tempesta di sensazioni, di certo; l'appagamento orgoglioso del ritorno a casa di chi ha ottenuto successo, il lenirsi di una nostalgia che pure lo avrà smosso nei decenni di lontananza, la curiosità di vedere i tanti cambiamenti, la voglia di emettere a frutto, di far conoscere e di monetizzare le sue incredibili esperienze e di certo anche quel sottile filo di rammarico per tutto quello che si è lasciato alle spalle, esperienze non completate, occasioni rinunciate, cose ancora da vedere e ormai perdute per sempre. Chissà se avrà messo piede a terra proprio all'approdo di piazza San Marco, entrando orgoglioso e bardato di tutto punto, come si conviene al mercante di successo che sbarca al mattino, con le sue vesti migliori, per mostrare la riuscita dei suoi affari. Avrà guardato con stupore l'avanzamento dei lavori della basilica, ormai ricca e avviata a mostrare tutto il suo splendore con le tante ricchezze arrivate coi commerci e con le razzie avvenute in Oriente e seguite alla IV crociata e alla caduta di Costantinopoli; avrà osservato il campanile ormai grande dalla cupola di legno, faro che guidava i mercanti che arrivavano a questa città dei commerci da tutto il mondo; si sarà predisposto a raccontare con orgoglio la sua grande avventura, forse già supponendo che le sue storie sarebbero state troppo grandi e fantastiche per essere completamente credute e maturando il progetto di dare a tutta la storia una forma scritta che rimanesse nel tempo a ricordo della sua impresa e ad utilità di chi ne avesse bisogno, riconoscendone comunque l'importanza e l'unicità. 

Cap. 209

Venezia - L'approdo di piazza S. Marco
Ma credo che fosse piacere di Dio nostra tornata, acciò che si potessoro sapere le cose che sono per lo mondo, ché, secondo ch'avemo contato in capo del libro nel titolo primaio, e non fu mai uomo, né cristiano, né saracino, né tartero né pagano, che mai cercasse tanto nel mondo quanto fece messer Marco, figliuolo di messer Niccolò Polo. nobile e grande cittadino della città di Vinegia.

Chissà se sarà stato accolto dalla famiglia con un grande banchetto, come quello che ci aveva preparato Acquaviva e a cui vi rimando per non ripetermi (e se volete tutte le ricette qui) e chissà se già in quella occasione avrà cominciato  a raccontare agli astanti, un po' increduli, un po' interessati, quanto la sua esperienza di mercante viaggiatore poteva dargli credito e assicurargli una vecchiaia onorata e dignitosa. Forse già preparava l'incipit delle sue memorie, ma gli ci vorrà ancora qualche anno e una nuova avventura  per dare loro una forma concreta, grazie a quel Rustichello conosciute in altre circostanza difficili, preoccupandosi di essere convincente e inattaccabile.

Cap. 1
Signori imperadori, re e duci e tutte l'altre genti che volete sapere le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverete tutte le grandissime maraviglie  e gran diversitadi delle genti d'Erminia, di Persia e di Tarteria, d'India e di molte altre province. E questo vi conterà ordinatamente Messere Marco Polo, savio e nobile cittadino di Vinegia come egli medesimo le vide. Ma ancora v'à di quelle cose le quali elli non vide, ma udille da persone degne di fede, e però le cose vedute dirà per veduta e l'altre per udita, acciò che il nostro libro sia veritiero e sanza niuna menzogna.

Così nel racconto, ricomincia l'avventura, che coinvolge lettore e narratore, l'uno ansioso di conoscere e affascinato dalla capacità affabulatoria di chi spiega, l'altro in un misto di piacere provocato dal ricordo e dall'orgoglio di render pubblica la sua vicenda affinché serva ad altri l'esperienza. E' nato così un nuovo filone, il libro di viaggi, ma anche la guida turistica, ma ancora il manuale di commercio. Puoi essere contento Marco, dopo 800 anni, ti ricordano ancora tutti e molto bene, ad oriente e ad occidente, con ammirazione e sicuramente con invidia, per quanto hai provato e per quanto hai saputo insegnare a chi ha dentro quella voglia di conoscenza, quel desiderio di vedere, di imparare ma soprattutto quella bramosia di capire, che forse è il segreto di una convivenza civile tra le genti.



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I gradini di Palitana.
Un indovino
Tibet misterioso.L'IVA della porcellana.

martedì 13 luglio 2010

Sono un tipo da chinotto.

Sarà il caldo o lo spunto che mi ha dato oggi l'ottimo Bressanini, ma la chiacchiera di oggi la voglio fare su quello che bevevo da ragazzino. Intanto fin verso i tredici anni bisogna considerare che non avevamo il frigorifero e così son sempre stato perseguitato dalla voglia di bere un bicchiere di acqua fresca. Certe cose forse ti entrano dentro e diventano parte del Dna. Oggi, se l'acqua non è bella gelida non mi disseta, ma la maledizione deve avermi sempre accompagnato, quando viaggiavo in camper, il frigo non ha mai funzionato bene, negandomi sempre il piacere della frescura che il liquido gelato ti procura scendendo nella gola riarsa. Mah. A casa mia si beveva l'acqua "viscì" ovverossia l'idrolitina del Cavalier Gazzoni che mio padre confezionava due volte al giorno sciogliendo le bustine di polvere misteriosa dentro le bottiglie con la macchinetta che ancora conservo. Ha continuato ad essere l'unica bevanda della sua vita, fino a due anni fa quando se ne è andato a 96 anni, l'acqua minerale liscia che gli comperavo ogni tanto, non la beveva, sapeva di niente. Bisogna dire che era assolutamente imbevibile quell'acqua divenuta frizzantissima e il suo gusto di lisciva l'ho ritrovato solo anni dopo nelle acque minerali gasatissime dell' Unione Sovietica, una specie di Barjomi occidentale ante litteram dunque. Non c'erano i succhi di frutta allora, ma non crediate che non si bevesse come dice il marketing, con gusto. La faceva da padrone il tamarindo Erba, spesso sciroppo viola dal gusto particolarissimo e piacevole; la goccia spessa scendeva, versata con attenzione e si spandeva come una nuvola scura nel liquido trasformando l'acqua fiacca, in una bevanda deliziosa e dissetante. Anni dopo, non si trovava più, soppiantato da infami sciroppi di bassa qualità e minore prezzo, di certo cinesi o similari, direbbe il TG1. Mio padre, tanto insistette col direttore del suo vicino supermercato che ripresero le forniture ed ancora oggi lo ritrovo e lo serbo come un presidio slow food. A Torino invece andava per la maggiore la menta Sacco specifica di Pancalieri, noblesse obblige. Le bibite, a quel tempo in cui non esisteva la cocacola, erano pochissime e quasi tutte di produzione locale, tranne forse l'aranciata San Pellegrino, ma solo per gente di alto rango. Io, invece ero gente da chinotto, non da spuma però, considerata robaccia da bar, dove veniva spillata da bottiglioni doppio litro. Invece l'unica bibita accessibile per i ragazzi, era la gazzosa, archetipo di tutte le bibite future. La facevano in bottigliette di un vetro spessisimo e di seconda scelta, quasi granuloso e con diverse gradazioni di verde. Ad Alessandria, chissà perchè, era chiamata la Bicicletta. La bottiglia era tappata da una pallina interna di vetro lattiginoso verde pallido che la pressione del gas tratteneva contro il collo e che si premeva col pollice verso il basso per aver accesso al prezioso liquido. Poi si rompeva la bottiglia (alla faccia del recupero) e si prendeva la biglia che faceva premio su quelle di coccio. Chi ne aveva di più era più ricco o un grande bevitore, oppure era più bravo a giocare a spannacetta. Poi vennero le biglie multicolori, arrivammo sulla luna e anche quella perse la sua aura di status simbol. Che sete, adesso vado a farmi un bel bicchierone di tamarindo gelato. Salute papà.
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domenica 13 settembre 2009

Ricami rossi.

Sono molti anni che non vedo più Zhenjia. Quando l'ho conosciuto cominciava l'inverno russo, con le sue poche ore di luce, il colore giallo delle lampadine e dei lampioni sovietici così fiochi, l'odore di benzina scadente per le strade quasi deserte di auto, con la neve sporca che si accumulava prima di ghiacciare fino a primavera. Mi guardava con sospetto malcelato all'inizio, timoroso come sempre delle cose nuove. Glielo aveva insegnato una vecchia zia nata a San Peterburg prima della rivoluzione, che era stata allo Smolnji da ragazza, che ogni cambiamento porta disgrazie e dolori. E ne aveva viste parecchie la vecchietta prima di morire, ma per lo meno le era stata risparmiato lo sfacelo dell'URSS con tutto quel che stava capitando alla maggioranza debole della gente. Zhenjia temeva sempre che ci fosse sotto qualcosa e quindi cercava di mettersi di lato, diremmo contro il muro, avendo imparato a lasciar passare la furia della corrente per non farsi portare via. Mi divenne amico affettuoso o forse fedele, temendo chissà cosa come sempre, cercando di mostrarsi servizievole, apprezzando che fossi interessato ai suoi racconti del passato. Di quando lo zio che raccontava barzellette sul regime, non era più tornato a casa, una komunalka nelle vie della vecchia Mosca; di quando poco più che adolescente visse con sgomento la morte di Stalin, delle sirene che per quindici minuti lacerarono l'aria per annunciarla in un silenzio tombale, di come si sentì orfano in quel momento; di come si sentiva felice e padrone del mondo, quando ebbe il primo stipendio di trecento rubli come traduttore. Parlava un italiano forbito, con lentezza, scegliendo con cura le espressioni e usando parole ricercate come "corpulento", che gli piaceva molto, anche se non ruscì mai a correggere il forte accento, per cui lo prendevamo un po' in giro. Non corresse mai la sua espressione proverbiale con cui cominciava tutti i discorsi. "Prego la scusa" iniziava sottovoce ed in tono dimesso, sempre timoroso di disturbare e quindi di subire chissà quali punizioni. E dire che la sua famiglia aveva visto grandi fasti un tempo; si favoleggiava delle sette gioiellerie che il nonno possedeva a San Peterburg prima della rivoluzione. Grande giocatore di scacchi, anche nella vita, cercava sempre di avere una seconda ed una terza soluzione ai problemi, una via di fuga, se andava male la prima scelta; questo aveva insegnato la vita a lui, ebreo, in un paese che gli ebrei non ha mai amato, nel migliore dei casi ha disprezzato, come qualche trombone di cliente che ci apostrofava: "Ma com'è che vi tenete quel giudeo?" mentre lui si ritirava nell'ombra. Una vita a prepararsi vie d'uscita, a declinare responsabilità, a scegliere il profilo più basso per non farsi notare, per tenersi nella penombra, eventualmente, se c'era bisogno per dare la pugnalata fatale. Non voleva il thé, ma si accontentava di un po' di "calda acqua" e a all'Hotel Kimik di Cerkiesk aveva rifiutato la camera Liux che per i cittadini sovietici costava un dollaro in cambio di quella Standàrd che costava mezzo dollaro a notte, per non fare spendere troppo alla ditta. Aveva voluto per sé un ufficetto misero, un vero bugigattolo, però situato strategicamente in fondo al corridoio, in modo che si avvertissero nitidamente i passi di chi arrivava e che lo sorprendeva sempre alacremente al lavoro. Quando era venuto a Roma ad accompagnare dei clienti era stato derubato dei pochi soldi che aveva da alcuni zingarelli davanti al Colosseo e non si dava pace. - Devo essere punito, assolutamente per la mia sbadataggine, nonostante tu mi avessi avvertito.- dichiarava come un mantra in una continua flagellazione, in perfetto stile da autodenuncia alla Lubjianka. Eppure era felice della sua vita, felice di lavorare per una azienda italiana, mai per i tedeschi che odiava senza fraintendimenti. La relativa agiatezza che questo gli dava, lo rendeva sereno anche se continuamente timoroso che tutto avesse fine prima o poi. Era felice a modo suo, pago delle piccole cose che amava. - Sai Enrico - mi diceva, quando ormai si era maturata una certa confidenza - non c'è piacere più grande di quando arrivo a casa, mi metto le pantofole d'orso che ho preso ad Irkutsk e mi sdraio nella mia vecchia poltrona con un bicchiere da 50 grammi di vodka (la vodka va a grammi in Russia) a pensare ai tempi felici. - Non so cosa intedesse per tempi felici; è un'espressione che dipinge bene la melanconia russa che leggevo spesso nei suoi occhi acquosi e gentili. Chissà come se la passa adesso, ma lo spero con quel bicchierino appoggiato sul vecchio bracciolo ed il bicchiere di thé fumante col manico di alpacca, sul vecchio tavolino di Kiev con la tovaglietta dai ricami ukraini rossi. Na sdarovjie Zenjia!

giovedì 13 agosto 2009

Stella cadente.

I meccanismi della mente umana sono strani ed insondabili. Ma cosa può condurre un gruppetto di ultrasessantenni bisognosi di riposo dopo una giornata di dura camminata a riprendere le auto e salire in montagna a guardare le stelle cadenti? Ricerca del tempo perduto? Nostalgie un po’ fané di un passato lontano? Voglia di passare una serata all’aria aperta? Chissà. Il fatto è che ieri sera, memori del fatto che, come da cronache estive (non ci sono molte notizie in agosto oltre le vacanze del Certosino e un po’ di mogli ammazzate da coniugi nervosi), tra qualche decennio non ce ne sarà più traccia (abbiamo finito anche queste assieme al petrolio), saliamo in macchina attrezzati di tutto punto e via fino al Colle delle Finestre, punto d’eccellenza per avere una bella visione notturna. A nulla vale l’osservazione dei più concreti, che tutto il cielo era completamente coperto da una spessa nuvolaglia nera, ma come ci viene consigliato ogni giorno, prevale l’ottimismo e si va con qualunque tempo, alla faccia di Italia-Svizzera che comunque è un’amichevole estiva. Si sale pian piano e miracolo, le nubi si squarciano e quando arriviamo a Pian dell’Alpe, una stellata imperiale occupa tutto il cielo visibile tra le montagne. Alla luce incerta delle pile cerchiamo spazio in un prato evitando, se possibile di calpestare quanto il suono di allegri campanacci bovini che ci circonda, promette essere sparso qua e là per intrappolare gli incauti che si affidino alla scarsa luce del plein air. Si stendono i teli a terra, poi, imbacuccati per resistere al gelo che sale, tutti stesi a terra a pancia in su con lo sguardo a nord-est. Il grande carro tramonta a poco a poco dietro la montagna, mentre la grande doppia W di Cassiopea sorge dal varco del colle, la lunga striscia della Via Lattea attraversa tutto il nero del cielo. Sono quasi le 23, l’ora più propizia, infatti mentre gli occhi si abituano all’oscurità, ecco che lo sciame delle Perseidi comincia a fare il suo lavoro, solcando l’oscurità con strisce diritte e leggere. Sarà pure che la Hack non ci trova più niente di interessante, ma quell’attesa silenziosa dell’attimo fuggente, quel ohh di meraviglia trattenuta quando la riga luminosa attraversa tutto il cielo e subito scompare senza lasciarti il tempo di respirare, di completare il pensiero, di formulare il desiderio represso, quell’abbraccio in cui la tua ragazza si stringe a te per ripararsi dal freddo pungente, io, questi scampoli di emozioni, pur piccoli, non li butterei via così facilmente come la pelle del salame. C’è rimasto anche il tempo per stappare una bottiglia di champagne per festeggiare degnamente un compleanno in quota. Semplici sì, ma noblesse oblige. Poi quando il quarto di luna ha cominciato a far capolino dietro la grande massa scura del Pelvo, ci siamo alzati, intirizziti e contenti, per tornare a valle, domani sveglia alle 6:30, ci aspetta una lunga marcia al Sommellier. Sereni i più, qualcuno forse deluso perché le Perseidi sono così rapide, attraversano il cielo, il pensiero ed il desiderio in un attimo, non ti lasciano neanche il tempo di pronunciare per intero la parola Superenalotto, pazienza.

sabato 7 febbraio 2009

Tagliare o potare?




Oggi ho nostalgia di amici lontani e quindi anche di terre lontane. Forse è come quando, al contrario si è lontani e si ha nostalgia della terra natia o forse no, ma mi sento comunque vicino a Li Yu un altro grande poeta della dinastia Tang, quando diceva:





Solo ed in silenzio sull’alta torre ovest.

La luna è come un gancio appeso nel cielo.
In fondo al cortile il fresco autunno
Incatena il platano solitario.
Non è giusto spezzarne i rami, ma bisogna potarlo
Riordinando ciò che è ancora confuso
Senza preoccuparsi di tagliare.
Ma che tristezza essere lontano dal paese natio.
Che sapore indicibile in fondo al cuore.



sabato 25 ottobre 2008

L'occasione

Il nostro camper piuttosto datato sbuffava lungo le rampe dell'Atlante per la strada tortuosa che portava ai 2.168 metri del passo di Tizi n'test. Avevamo lasciato da tre giorni la valle del Dra e l'avamposto di Zagora nel deserto, non prima di aver scattato la foto di rito sotto al cartello "Timbouctou 55 jours". Dopo tre ore di calore insopportabile, verso mezzogiorno (l'ora classica del turista maledetto), arrivammo in cima. Ci fermammo nella piazzola per far riposare il mezzo e per godere della vista spettacolare dei contrafforti aridi della montagna che scendevano rapidi verso Taroudant. Fummo subito circondati da un nugolo di ragazzini vocianti, il giusto pedaggio da pagare al privilegio di stare in quel posto magico. Uno in particolare ci trascinò alla sua bancarella, uno straccio steso per terra ricoperto di fossili di tutte le dimensioni e di geodi di ametista viola aperte. Ce n'erano di bellissime, enormi e Joussouf (così si chiamava) cominciò a magnificarne i pregi e soprattutto il prezzo particolarmente conveniente. Ne ero attratto, ma fatto acuto dai consigli che mi aveva dato il mio amico Tiziano, grande esperto di mineralogia, presi la bottiglia di acqua tiepidina con cui tentavo di calmare la sete (su quel camper non abbiamo mai avuto il piacere di avere acqua fresca da quel malefico frigo) e gli chiesi il permesso di lavare i cristalli della grande geode che mi interessava. Infatti, pare sia costume di questi birbi il colorare in viola dei quarzi di poco valore e spacciarli per ametiste. Il ragazzo preoccupatissimo, mi fermò immediatamente cercando di stornare la mia decisione in altre direzioni, poi vistomi deciso, se ne uscì con un impagabile: - Monsieur, je vous garantie que si vous la mettrez dans votre salon elle ne perdra pas sa couleur dans un million d'annéees.- Ridemmo a lungo poi gli comperai una trilobite e qualche piccola e lucida belemnite prima di lasciarci andare nella lunga discesa. Sono passati solo 25 anni e me ne sarebbero rimasti ancora più di 900.000 se avessi voluto mettere sulla mia scrivania quella geode per mantenere viva nella mia memoria il volto di quel ragazzo. Che occasione perduta.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 121 (a seconda dei calcoli) su 250!