lunedì 10 maggio 2010

Lettere dalla Kampuchea 8: La barca dei dannati.

Non fidatevi degli amici (prov. cambogiano). L'amico in questione, ma adesso che lo so lo curo, era tornato da poco dalla Cambogia e mi aveva detto: una cosa da non perdere è il viaggio in barca da Siem Reap a Battambang. Assolutamente indimenticabile. Aveva ragione. A contribuire a renderlo tale, sarà stato senz'altro il culmine della stagione secca, mai a sufficienza segnalata come da evitare come la peste, fatto sta che alle 7 del mattino aspettavo, fedele alla consegna il mezzo che, incluso nel prezzo del biglietto mi avrebbe portato all'imbarcadero a una decina di kilometri dalla guesthouse. Chi fa questo tragitto solo per spostarsi, prende un comodo autobus che, usufruendo della nuova strada da Sisophon, ti porta a destinazione in quattro ore soltanto, ma il fascino dell'attraversamento del lago e dei villaggi galleggianti che si attraversano con la barca valgon bene qualche soldo e qualche ora in più, direste anche voi. Infatti il tragitto completo non lo fanno i locali, ma solo i turisti fricchettoni bramosi di colore locale. Eccoci quindi caricati in una quindicina, sul pulmino da nove, inclusi bagagli e chitarre. Certo, perchè i giovani saccopelisti vanno ancora in giro con le chitarre come 40 anni fa, che vi credete. Tutta gente dura, giramondo di lungo percorso, dall'occhio attento e scafati al disagio. Tutti grandi e grossi, donne comprese, purtroppo. Arrivati in vicinanza dell'imbarcadero, i due più esperti si accorgono di aver dimenticato il passaporto così si torna indietro, per fortuna anche un terzo, giovane preda di Alzhaimer, si accorge di averlo a sua volta dimenticato in prossimità dell'albergo. Il fatto che i giramondo si siano dimenticati la combinazione della cassetta provoca ulteriori ritardi, ma alfin si parte. Il battello, in realtà è una lancia strettissima, disegnata a misura di locali, per cui se devo tenere le ginocchia in bocca, non so dove mettere la pancia e così via, in cui veniamo stipati in una trentina. La lancia fila via lenta, perchè di acqua ce n'è ormai pochissima e il fiume è ormai ridotto ad un fondo di cloaca fangosa in cui farsi strada lentamente, sterzando le secche con il remo. Intorno, la vita della gente del fiume, di cui però vi parlerò un'altra volta. Scivoliamo tra le palafitte e raggiungiamo il Tonle Sap, l'immenso lago, cuore della Cambogia, polmone idrico alla base della stessa vita del paese e del suo sostentamento. In questo momento il livello delle acque è al minimo, non più di un paio di metri e le baracche sulle palafitte sembrano case aliene appese ai lunghi pali di bambù. Le case barche invece, galleggiano vicine le une alle altre, con il loro brulicare di vita. Il lago è immenso, non se vede la sponda lontana e la barca finalmente prende velocità, dopo aver caricato un po' di locali da qualche zattera di passaggio, i quali, date le dimensioni minute, non hanno difficoltà a sistemarsi accoccolati tra i giganti caucasici. Il sole brucia sulla pelle, ma dopo un paio d'ore raggiungiamo la sponda opposta e cominciamo a risalire un fiume dagli stretti meandri, tra le rive di terra rossa coperte di scarsa vegetazione. Solo l'acqua è quasi completamente ricoperta da giacinti di fiume e loti in fiore, di grande bellezza, ma che rendono ancor più faticosa la navigazione. Sulle rive ormai sempre più strette, uno dopo l'altro, si susseguono villaggi di capanne di legno o di semplici frasche su alte palafitte, che fanno intendere bene fin dove arrivino le acque quando è il momento. Le ginocchia dolenti e la quasi impossibilità di muoversi, rendono il viaggio sempre più duro. Dopo cinque ore il fiume è un rivolo melmoso e la vita che si dipana sulle sue rive lascia stupito chi ha poca dimestichezza con l'oriente. Le pozze marroni, sono piene di bambini che sguazzano, di gente che si lava o lava i propri oggetti, stoviglie, panni, cibi, tra bufali grassi e tranquilli. Qui ci finisce tutto, ogni tipo di deiezione umana ed animale assieme agli scarti ed alle immondizie (poche) prodotte da queste comunità. Il fiume dovrebbe lavare tutto, ripulire, portare via verso il lago, naturalmente ricchissimo di vita e di pesce e poi al mare, ma vedere queste torme di ragazzini a mollo in questa fogna a cielo aperto, ti fa dimenticare per un pò il formicolio alle gambe. Dopo un altra ora, comunque la sopportazione comincia a diventare un problema serio e la barca si ferma ad una palafitta un po' più grande. In pratica l'Autogrill. Speriamo ci sia un bagno. L'australiana biondina di fianco a me a cui esterno i miei desiderata, alza gli occhi al cielo come una mater dolorosa e mi fa:- I hope so!-. La sosta è di una mezz'oretta. I locali si abbuffano subito di zuppa di noodles e pesce del lago, un gruppetto di nerboruti italiani addenta spiedini di carne ignota, qualcuno pesca nella ghiacciaia qualche lattina. Il caldo è insopportabile. Dietro la palafitta, sospeso a cinque metri sull'acqua, uno stanzino consente l'espletamento delle principali necessità, mentre piccoli topini corrono sulle assi di legni cercando di evitare di cadere nel grande buco quadrato, cosa che cerco di fare anch'io, pur osservando il colore del liquido sottostante e compatendo quanti, poco lontano, continuano a bagnarsi per cercare refrigerio e a lavare le stoviglie in cui vengono serviti i noodles di cui sopra. Ma bisogna ripartire. Ancora più ingrugniti e aggressivi, si riprendono i posti, cercando di guadagnare spazio a danno del vicino e la barca va, sempre più lentamente. Ogni incrocio con chi discende il fiume diventa un problema. Il remo affonda nella melma, l'elica sempre di più sfrega sul fondale basso. I passeggeri sono ormai irritati, ma alla settima ora di sofferenza, la barca non ce la fa più a proseguire, praticamente incagliata nella melma. Scatta l'ordine. Tutti giù, forzatamente in mezzo alla orrida fanghiglia melmosa, la cui collosità organica che ti risucchia i piedi e le caviglie non è certo data solo dall'alta percentuale di argilla. Lo schifo viene attenuato dalla necessità di guadagnare la riva, su cui, tra gli arbusti, vengono gettati frettolosamente i bagagli, poi la barca se ne va, lasciandoci con i polpacci infettati di una vischiosità sospetta, che però, grazie al caldo insopportabile, si secca rapidamente. In mezzo al campo, due pick up malandati aspettano le loro vittime. Saliamo all'arrembaggio, dopo averci buttato sacchie e valigie. I più veloci riescono ad assicurarsi un posto un po' più morbido tra le masserizie, i grassi e vecchi (che è meglio che se ne stiano a casa), già con fatica riescono ad issarsi sul bordo del cassone. Due ore terrificanti di pista, piena di buche fangose, fustigati dai rami spinosi ai bordi della strada, ad ogni curva appesi alle bacchette per evitare di essere sbalzati fuori. Poi a poco a poco, la pista diventa sterrato più liscio, poi una parvenza di asfalto, infine si arriva ad uno spiazzo polveroso alla perifria della città, pronti all'assedio dei tuk tuk in cerca di clienti. La prima cosa da fare è prenotare il biglietto per il pulmann di dopodomani.

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Mattina presto.

Il ritorno.
Invece di giocare a bocce.

4 commenti:

acquaviva ha detto...

non sarò proprio carina... ma mi viene un po' da ridere! Scusa, non riesco a trattenermi...
(PS, interessante cemunque, come anche i post precedenti, che mi son letta ora tutti insieme. Quello del matrimonio è quasi mitico!)

Enrico Bo ha detto...

comodo eh pappare sushi mentre io mi smazzo nella melma cambogiana! A proposito, la cucina da queste parti è molto interessante, magari si fa un post sull'argomento.

acquaviva ha detto...

Ti apettavo al varco ed un po' ci speravo pure, infatti...

Anonimo ha detto...

Te lo meriti.
Così impari ad "esi semp' an gir 'me 'l ratarouli", tanto ci sono quelli come me che ci pensano, alla tua pensione...
Dottordivago

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