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domenica 31 ottobre 2021

Culti di morte

Vermont - Preparando Halloween


Vedo che oggi è halloween e quindi mi tocca come ogni anno sentire la tiritera consunta e insensata, di quelli che non è una festa della nostra tradizione, che chissà perché dobbiamo copiare gli americani, che io sono cristiano, con tutto il contorno del chiamarsi fuori, condito da orgogli senza costrutto, magari frettolosamente anche di un voler rimarcare appartenenze politiche che di questi tempi non guasta mai. Come chiunque sa, se ha voglia di informarsi, questo richiamo all'esorcizzare la morte è invece proprio di tutte le culture e proprio questa in particolare è proprio tradizionalmente nostra, subentrata a riti celtici e fatta propria dal cattolicesimo irlandese dove ha assunto questa forma passando poi all'America e traslata anche nel cattolicesimo latino con le feste gioiose e sguaiate de los muertos coi vari richiami a scheletrume vario che imperversa in tutta l'America latina. Da noi è dilagata anche nella cucina con i vari dolci dei morti, ossi di morto e altre prelibatezze e quando io ero bimbo, avrò avuto 5 o 6 anni, ricordo benissimo che mio zio, che portava il mio nome, mi regalava, oltre alla cassetta di cachi anche una zucca da intagliare coi denti aguzzi a cui mettere dentro la candela da esporre sulla finestra e stiamo parlando di 70anni fa, in barba alle zucche vuote odierne che con la bocca a cul di gallina proclamano a gran voce che io sono cristiano e non festeggio un bel niente. E suvvia, fate girare l'economia senza rompere le balle che ne abbiamo bisogno, dell'economia che giri intendo! 

Riconosciamo però che l'uomo è così, ha paura della morte e vuole esorcizzarla, il modo varia ma il senso è sempre lo stesso in tutte le culture. Vai un po' in giro per il mondo e lo capisci bene. Dipenderà dal fatto che siamo forse l'unica specie che si prende cura dei suoi morti e che ha compreso cosa sia la morte in se stessa, l'abbandono della vita. Infatti la cosa che più concreta che ci è rimasta del passato è proprio l'epitomia della morte. Immense necropoli ci sono rimaste, tombe monumentali, scavi ipogei meravigliosamente affrescati, piramidi e mausolei, proprio nell'ansia di non farci dimenticare, di far sì che dopo, qualcuno si ricordi ancora di noi ed il più a lungo possibile. I Toraja, una popolazione del centro di Sulawesi di cui vi ho già parlato, vivono tutta la vita nell'ansia di prepararsi un funerale fastoso che dimostri a tutti che nella vita sei stato un grande, per quanti bufali e belli, per quanti maiali e grassi, tu potrai permetterti di sacrificare, invitando anche migliaia di persone a questa festa, che di festa si tratta, di cui si dovrà parlare per anni. Magari si aspetta un anno a farlo, fino a quando non si è pronti, col cadavere semimummificato in una stanza del retro, che si definisce ancora malato grave, anzi gravissimo che non può guarire più, ma morto no, c'è infatti una parola apposta per definirlo, fino a quando non si è fatta la festa. Poi davanti alle caverne dove verrà messa a marcire la bara colorata, si metterà una statua delle fattezze del defunto, da andare a trovare, cambiandogli i vestiti man mano che diventano consunti per le intemperie. Perché coi morti bisogna stare allegri. 

Anche in Moldova, si va a fare il pastele, il pranzo coi morti su un tavolino appositamente preparato accanto alla tomba, così come in Giappone o in certe zone della Cina e nella vicina Romania a Sapinta c'è un cimitero dove sopra ogni tomba, la croce ha una targa dove il morto è preso in giro e raccontato in tutti i suoi difetti. In Madagascar,  la bara viene portata in un anfratto segreto tra i monti, facendo una strada contorta e tutta curve, tornando avanti e indietro più volte perché così il morto perda la strada per tornare a casa a disturbare tutti e solo quando è morto davvero, dopo 7 anni, si va a prendere la bara per metterla, con una festa, in un cimitero di famiglia. Nel Chapas in Messico, le tombe nella terra sono verticali e le bare vengono messe tutte una sopra l'altra, un po' perché tengano meno posto e poi perché rimangano tra loro, si tengano compagnia e si va a festeggiarli appunto in questo giorno. Gli hinduisti invece bruciano le salme con legni odorosi se hanno i soldi, se no, nei crematori comuni, poi i resti vengono abbandonati alle acque dei fiumi sacri che li portino lontano, pasto per i pesci. Tibetani e parsi lasciano i corpi agli elementi naturali affinché gli uccelli o gli animali selvatici cibandosene, rimettano in circolo la natura, i primi dopo aver smembrato i cadaveri, i secondi esponendoli agli avvoltoi nelle alte torri del silenzio. I mussulmani mettono i corpi nella terra nuda perché più velocemente la terra stessa si  riprenda ciò che è suo. Ma sia in India che in Egitto ci sono immensi cimiteri dove i vivi coabitano con i morti, vivendo tranquillamente nelle tombe, tenendosi compagnia. Gli uomini del mare li lasciano alle onde, quelli della montagna li mettono in piccoli cimiteri, presto coperti di neve a guardare quelle vette che sono state la loro vita. Ai simulacri, chi porta fiori, chi offerte, chi lascia messaggi d'amore, chi prega i suoi dei, chi si culla nei ricordi. Siamo esseri strani che sono certi di essere nel giusto, mentre tutti gli altri che non la pensano come noi sono solo nemici da sterminare.


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martedì 1 novembre 2016

Haiku dei morti



Cimiteri di monte
Le foglie gialle e rosse 
Fan da corona




sabato 1 novembre 2014

Al cimitero



Un crisantemo
poggiato sopra il piano
di marmo bianco,

per farmi sovrastare
dall'onda del ricordo.

martedì 6 novembre 2012

La bagna cauda.


Direi che è ora di lasciare da parte le suggestioni foscoliane degli ultimi giorni che, pur essendo di stagione, inducono ad uno stato d'animo melanconico e poco incline alla compagnia. Nunc est bibendum dicevano i latini, cosa da non disprezzare e da praticare quando possibile. Infatti è pur vero che le brume novembrine sono tutt'uno con sensazioni legate alla morte, tanto che in molti paesi si tenta in ogni modo di esorcizzarla estremizzando alcuni comportamenti, che la globalizzazione ci ha ribaltato pari pari, anche se estranei alla nostra cultura e subito accolti a braccia aperte dalla macchina del consumo, ma lo stesso clima grigio impone altre e ben più gradevoli incombenze e pensieri. Novembre infatti è il mese più idoneo per diversi piatti tradizionali della nostra terra che si impongono per la loro straordinaria unicità e per il loro spessore culinario. Tra tutti eligerei a regina assoluta la bagna cauda (secondo alcune trascrizioni con la o circonflessa al posto della u, che ritengo però pronuncia torinese), la più piemontese delle salse di accompagnamento che si trasforma in piatto unico e completo da tutto pasto. Io vi parlo qui della versione a me gradita, una variante pur tradizionale, ma gentile e non aggressiva, consona anche a stomaci più delicati. Il piatto nasce dal tradizionale consumo delle acciughe salate che è comune a tutto l'habitat che sta alle spalle della Liguria, dove sono arrivate col contrabbando del sale. Infatti per evitare la pesante tassa sul medesimo, si importavano le acciughe conservate sotto enormi quantità di sale. Non volendole poi buttare via, sono diventate parte integrante della cucina piemontese. Veniamo agli ingredienti.

Acciughe salate   1 hg a persona.
Una testa d'aglio ogni 4 persone
Un pacchettino di panna da cucina.
Olio d'oliva extravergine q.b.
Verdure di stagione.
Pane da tagliare a fette.

Piatto dunque di una semplicità francescana, ma che se scevro da errori riesce a dare sensazioni ineguagliabili. Dunque metterete in una terrina sul fuoco le acciughe ben mondate e lavate, ricoprendole di buon olio extravergine. A queste aggiungete gli spicchi di aglio puliti e, a fuoco lentissimo continuate a girare, senza mai raggiungere il bollore, finché l'acciuga si scioglie completamente emulsionandosi appieno con l'olio. Aggiungete la panna mescolando fino a che si sia formata una crema perfetta vellutata e densa. Mettete la terrina in tavola sull'apposito fornellino avendo cura che la fiamma non faccia bollire mai il contenuto della terrina.

I punti fondamentali dell'operazione sono dati dalla necessità che il calore non sia così elevato da dare il senso di troppo cotto o addirittura di bruciato all'acciuga o all'aglio, cosa che renderebbe davvero sgradevole il piatto oltre che indigeribile, essendo già di per sé impegnativo sotto questo punto di vista. La scelta di lasciare gli spicchi interi permette di utilizzarne tutto il profumo senza l'obbligo di mangiarli, cosa che alcuni puristi contestano, volendo imporre questa dura prova al commensale indipendentemente dalle sue preferenze. Anche la panna è aborrita da alcuni, mentre io la trovo invece deliziosamente indispensabile ad ammorbidire il piatto, rendendolo ancor più vellutato e goloso. A questo punto entra in gioco il trionfo delle verdure che devono contemplare tutte le possibili varietà disponibili sul mercato, tagliate in fette o frammenti idonei ad essere immersi di volta in volta nella bagna da cui emergeranno riscaldati e ricoperti dalla grigia e succulenta salsa. Ecco dunque il cavolo bianchissimo e croccante, il finocchio le cui spesse valve crocchieranno sotto i denti come il primo ghiaccio dei torrenti alpini, il cardo gobbo lievemente amarognolo, le spesse valve di peperone Quadrato d'Asti o Corno di bue dai commoventi gialli e rossi così in linea con la stagione. Anche le più tenere gambe di sedano interne, con la loro scanalatura che par studiata apposta raccoglieranno il denso nettare al meglio. Ecco poi le fettine di topinambour dal gusto così caratteristico e venendo alle verdure cotte si apre quindi la strada alle cipolle, alle fettine di patate bollite (preferire quelle a pasta gialla e soda come la Bintje o la Desirée) e agli stessi peperoni al forno. Alcuni prediligono le rape bianche o le biete rosse. 


Tutto deve essere un trionfo di colore per confermare la supremazia della cultura sul grigio che ci circonda. Diciamo che solo il mercato limiterà la vostra scelta. Infine il pane, componente non secondaria della festa, in quanto fornirà almeno il 40% dell'ingurgitato. Deve essere in forme grosse da tagliare a fette e fornito di una certa sua propria croccantezza  per non ammosciare il boccone. La tecnica manducatoria è conosciuta, ma la riassumo ugualmente. Scelto il pezzo di verdura e infilzatolo nella forchetta si rimesta nella terrina centrale comune facendolo emergere ricoperto di sugo, poi, tenendogli sotto la fetta di pane con l'altra mano al fine di non sgocciolare l'olio, lo si porta alla bocca. Ah sapido furore caldo che la riempie di una sinfonia ricca di sapori e gusti forti, anche estremi, ma così ben fusi e amalgamati! Scomparso quasi è il salato, moderato e confuso tra il profumo dell'aglio e la carezza della panna, mentre sotto domina, ma senza prepotenza il gusto dell'acciuga, forse antico ricordo del garum romano, ormai inciso nel nostro antico DNA, mentre il pane fresco scrocchia e unisce, letto fatale ai pronubi ansiosi di consumare questa orgia felice di sapori. Sei pieno zeppo, ma ancora non sai resistere a quella piccola fisca di finocchio che ti guarda ammiccante, a quel gambetto tenero di sedano che par ti dica mangiami, al rosso e ritorto peperone che insiste, non lasciarmi qui soletto. E mangi e mangi ancora, anche se il buon senso ti dice basta, fino a che devi cedere e abbandonarti gonfio e satollo ma felice di tanta povera ricchezza. Ma non dimenticate il vino rosso, obbligatorio anche per l'astemio, per questo piatto supremo. Deve essere, a mio parere,  di buona gradazione, ben strutturato e di corpo consistente, senza troppi spigoli per un piatto già di per sé aggressivo. Io mi sono concesso un Cote de Luberon 2007 di 14,5 gradi, di un domaine di notevole qualità. Una tantum alla faccia di chi mi vuol male.


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domenica 4 novembre 2012

Cimitero di montagna.



Il giorno dopo le abbondanti piogge, c'è un senso di pulito nell'aria, una chiarezza vivida che scansiona i pixel dell'orizzonte moltiplicandoli sempre di più. Mentre la strada sale verso la montagna, anche il verde spento del tardo autunno sembra accendersi, ormai quasi coperto dalle macchie di rosso e di giallo. Appena al di sopra, il sole forte come nelle giornate di pieno inverno, accende la neve di una chiarore abbacinante. Devi abbassare lo sguardo tanto è violenta la luce che quasi confonde i tratti spigolosi delle cime più chiare con l'azzurro cupo e smagliante del cielo. Sulle creste di queste Alpi cupe e arcigne soffia lontana una tormenta di polvere bianca. Il piccolo cimitero del paese digrada verso valle volto a sud per lasciarsi rischiarare completamente in ogni suo anfratto. Pochi sono gli angoli nascosti dove la prima neve è rimasta a coprire le pietre antiche. L'ombra l'ha risparmiata, quasi dimenticata, mentre i raggi violenti hanno già sciolto l'altra, che forse perché prima ed inesperta è risultata così tenera da non riuscire a resistere a lungo. Così i marmi sono lucidi e brillanti, inebriati per essere così quasi coperti dai tanti fiori portati da tutta questa gente, inusuale per il luogo sempre deserto, oggi invece così affollato. Poi a gruppetti se ne vanno e il luogo riprende la sua essenza fatta di silenzio e di bellezza triste.  Come sono belli i cimiteri di montagna quando il sole li riscalda.




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Tarda primavera.

mercoledì 31 ottobre 2012

Cimiteri.

Piccole strade di campagna che corrono incerte tra colline basse. Verdi rilievi che la bruma densa dell'incipiente novembre, ingrigisce un poco, attutendo i colori, che pur vorrebbero essere più vivi e carichi. Il giallo e rosso delle foglie si sfuma in questo preludio di tardo autunno, confondendosi in una pacatezza attutita priva di rumore ed eccesso. Le prime brine già piegano il grano appena spuntato, nelle semine ottobrine. Chissà come, sono sempre queste le strade che portano ai cimiteri di campagna, tutte uguali nella loro variabilità casuale. E' il tempo ormai; un appuntamento che affronti contrastato, triste ma allo stesso tempo carico del calore del ricordo che cancella l'affanno delle perdite più recenti, quello che ti fa sereno se pur malinconico, come la terra che ti circonda e ti accompagna. Ad ogni curva, che ripercorri ben poche volte ogni anno, ecco qualcosa che ti porta ad un frammento lontano. Qui forse c'era un quadratino di vigna del nonno dove si arrivava solo col carretto che un vecchio cavallo tirava affannato lungo la salita terrosa e piena di pietre, l'unico rimasto dall'attività di cavallante trasportatore del prozio. Forse ero stato portato anch'io quaggiù, ma tanto piccolo da non poterlo ricordare. Forse ero stato messo vicino al tronco di quel grande olmo, mentre i miei aiutavano la vendemmia di quei pochi grappoli. 

Poco più in là, una leggera erta che ti porta a scollinare dall'altra parte della valle, solo un piccolo valico che pareva così duro e impossibile da percorrere con la bicicletta da ragazzino, anche se facevo forza sui pedali senza la speranza di poter percorrere in sella quegli ultimi metri. E tutte quelle vecchie lapidi in fila, antiche, quella dei nonni così in alto che appena appena le vedi; forse costavano meno quei posti scomodi, ma erano così vicini al cielo. Nei paesini di collina i cimiteri sono in discesa e quando giri tra le tombe vedi tutta la valle di fronte. Un senso di aria e di libertà incongruo, perché se vieni qui, non te ne puoi più andare. La strada continua rapida. Eccone un altro. Ma questo in una cittadina, più grande e ricca. Qui vedi più conclamato lo status sociale anche nell'ultima dimora. I fiori più grandi e più esibiti, un senso di maggiore fretta. Non c'è molto tempo per fermarsi ad osservare. Guarda quella ragazza, così giovane, che bella fotografia, uno sguardo sognate ma già triste e consapevole. Lì in basso il mio zio, con l'antica lapide consumata dove forse mia nonna aveva imposto che fosse scritto "reduce dalla Germania e mancato dopo pochi mesi a venti anni". Ci leggi tutto lo strazio di quella perdita insanabile che la piegò precocemente e poco più in là il nonno che pagò questo dolore l'anno successivo. Fuori, quel piccolo banco che vende come allora i torroni, bianchi e dolcissimi ma con la mandorla amara.



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