lunedì 4 febbraio 2013

Sulla barriera corallina.


Rude marinaio zanzibarino mentre issa la vela  scrutando l'orizzonte.
La marea sta scendendo; le ngalawa beccheggiano al largo dove l'acqua è ancora alta, appoggiando il bilanciere allo specchio di smeraldo che brilla al sole come gli specchietti colorati che ornano i veli delle donne entrate nell'acqua bassa in cerca di molluschi. Sono puntuale all'appuntamento, ma non mi innervosisco certo per il ritardo del mio capitano. No hurry in Africa, lasciati andare e non contare il tempo.  E' come per il denaro, chi ne ha tanto non lo reputa così importante come chi ne ha poco. Basta stare a guardare il colore del mare. Dopo un poco ecco il mio capitano che arriva ciondolando sulle gambe grassocce, mamma mia come è grasso, forse addirittura più di me. Ce la farà la sua ngalawa a reggerci tutti, compreso il suo aiutante alla vela? Vedremo. Intanto dopo un lungo cammino nelle strisce di sabbia che circondano gli scogli di madrepora, cercando di evitare le centinaia di ricci, arriviamo alla barca, nella parte inferiore scavata in un solo grande albero di kapok, i due bilancieri ai lati fissati con ruvide corde di sisal, il corto albero piegato in avanti per reggere la vela al vento. Isso a bordo il mio corpaccio latteo (anche se acconciamente oleato per limitare l'offesa del ruvido Febo equatoriale) mentre lui sale con agilità sorprendente, vista la stazza. 

Dapprima spinta a mano lungo i canali bassi che la marea ha scavato nel tempo, poi con lunghe pertiche, il nocchiero e il suo aiuto, portano il legno in acque più profonde, quindi mano alle funi, la grande vela triangolare alza il pennone e si gonfia come una gota di Zefiro, tutta la barca di colpo vibra e comincia a scivolare sull'onda con un sibilo leggero. Tutto sembra perdere peso, la barca, prima pesantissima da spingere, l'equipaggio e i trasportati di cui non dico. Ecco il mio capitano salire su un braccio del bilanciere, appeso a una cima per fare contrappeso, sembra librarsi nell'aria come un grosso calabrone cisposo. Capitan Panza Nera, una silouhette contro il cielo, si sa il nero sfina, mentre la barca va di bolina un po' inclinata sul fianco. Orza, poggia, issa, cazza (ma se non c'è la randa!), fingo di aiutare (vedi foto), la terminologia ormai mi è amica, come del resto a tutti gli italiani, grandi navigatori televisivi dopo i fasti di Luna Rossa. Che gran fascino questa vela rappezzata, strappicchiata qua e là, fissata al pennone alla meglio, ma viva e gonfia che spinge rapida verso la barriera, dove lontano vedi l'onda frangersi in mille spruzzi bianchi. Poi basta mollare una cima e tutto si ferma, immobile in una larga chiazza di verde costellato di madrepore colorate. Basta mettere la testa dentro l'acqua e, attraverso la maschera, vedi un film in 3D. Passa un pescatore di polpi, ne ha un paio attaccati a una corda come schiavi legati alla catena da portare al mercato di Zanzibar.


Pescatore di polpi - Jambiani, Zanzibar.
Centinaia di gigantesche stelle rosse dalle asperità gialle e blu, pavimentano il fondo, tra le rocce, tra una foresta di alghe di ogni tipo e ammassi di ricci neri enormi, schiere di pesci dalle forme curiose si fanno largo. Prendi tra le mani una stella e appena fuori dall'acqua, ecco i suoi colori appassire, il suo splendore perdere forza come di un fiore che avvizzisce in un vaso; ti stringe il cuore vederla e devi subito restituirla al suo mondo dove, come per magia, riprende vita. Rimarresti qui per ore, non fosse che il legno del bordo della barca è durissimo e segna il gluteo implacabilmente, inoltre Panza Nera mostra segni di inquietudine, perché se è vero che in Africa il tempo non conta, però le ore passano e un gruppo di turisti lo sta aspettando per andare a nuotare con i delfini. Si rialzi dunque la vela che in un lungo lasco ci riporta verso riva. Panza nera conta i suoi dollari felice, il mozzo àncora la barca e lo segue come un cane fedele. La vela è una esperienza unica, specialmente per un uomo di terra come me che non ne aveva contezza; tensione di sartiame, cigolio di legni sotto la pressione combinata di acqua e vento, sbattere di tela all'aria, nessun altro rumore oltre a quello delle onde che scivolano sotto lo scafo. Davvero bello; direi che due ore sono più che sufficienti. Come farà Soldini, rimane per me un grande mistero.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Je sais exactement où tu es , ce que tu vois , ce que tu sens , ce que tu manges .Tout ce bonheur , ENJOY !!!
Jac.

Unknown ha detto...

Ehi, ma quanto la fai lunga?
Cristiana

PS. E' sempre l'invidia che parla

Diego ha detto...

Che fine hanno fatto i polpi?

Enrico Bo ha detto...

@jackie - Malheuresement c'est fini! On va raconter maintenant...

@Cri - l'ho fatta lunga perché cerco di prolungare il momento il più possibile...

@Diego - mangiati da mo'.

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