venerdì 15 febbraio 2013

I parchi della Tanzania: Lake Manyara.




L'ingresso dei parchi in Africa è segnalato da una casetta in legno, spesso malandata, per i meno frequentati, dove una guardia assonnata se è mattina, affaticata se è quasi sera, alza con una certa fatica la sbarra che permette alla macchina di passare. Un ufficetto dove sbrigare le formalità di ingresso e pagare, poi prendi la stradina rossa che si inoltra nel bush e ti perdi nella natura. Bastano pochi metri e sei nell'Africa dei racconti di caccia e capisci che questo, forse, è il vero motivo che ti ha portato fin qui; perché hai accettato di vaccinarti e impasticcarti all'inverosimile, perché hai respirato tanta polvere e hai sopportato tanto caldo soffocante. Questi sono gli unici posti rimasti al mondo dove puoi stare fermo per ore, guardarti intorno e rimanere a guardare. Una quantità di animali diversi si accalca intorno a te, mangia, si sposta, vive come se tu non ci fossi; pare un luogo della fantasia popolato da un regista in vena di esagerazione che voglia ricreare mondi fantastici, pianeti primordiali dove l'uomo non è ancora arrivato. E' davvero l'Africa dei sogni e del selvatico che immaginiamo nei nostri desideri di impiegati delusi, di cittadini costretti tra le mura di case che a volte sentiamo come prigioni. Dappertutto senti brucare, muggire, bramire; odi rumor di zoccoli, fruscii di corpi che si spostano nel verde, fremito di ali e schianti di piante abbattute da pachidermi affamati. Non sai quasi se chiudere gli occhi per aumentare il sentir dei suoni ed interpretarli o spalancarli meglio per non perdere quel film incredibile che ti scorre davanti sempre diverso. 

Il parco del lago Manyara, non è molto grande, ma il suo interesse sta proprio nella grande varietà di ambienti naturali diversi che racchiude. I suoi sentieri contorti attraversano dapprima una spessa foresta pluviale dove senti barrire elefanti, odi piante che si spezzano al loro passaggio, che lascia solo brandelli di corteccia sfilacciata, mentre le piccole gazzelle, i bushbuck o le antilopi d'acqua si ritraggono timide tra i rami più bassi. Solo nelle radure scorgi tra l'erba alta famiglie di babbuini o folti gruppi di impala, controllate da un maschio che, corna al vento, osserva la situazione, attento a segnalare la minima possibilità di presenza di qualche felino in caccia. Un poco più in basso della scarpata, quando il terreno si fa più pianeggiante la fa da padrone il bush, seguito infinito di bassi cespugli di acacia spinosa dai rami duri e pericolosi e dalle lunghissime spine, dove l'averla infilza le sue prede e su cui poggiano uccellini colorati di specie così diverse e numerose da rendere impossibile la catalogazione se non ad uno specialista. Qui si aggirano eleganti e timide le giraffe, di cui dapprima intravedi solo il lungo collo curioso che fa capolino al disopra degli ombrelli spinati che poi, più tranquille strappano con le lunghe e raspose lingue nere, insensibili alle loro punte. Poi i cespugli si diradano e si apre la savana piatta e senza confini in cui perdi l'occhio, segnata dalla linea perfettamente rettilinea dell'orizzonte lontano e e dal fremito dell'erba che il vento muove ad onde, come un mare verde pallido. 

Gennaio è la stagione dell'abbondanza, le piccole piogge di dicembre hanno generato uno spesso tappeto di nuove pianticelle grasse e fitte, dove la migrazione annuale porta centinaia di migliaia di gnu e zebre, che vivono mescolati, indispensabili gli uni alle altre, nutrendosi della parte alta dell'erba una specie e di quella più vicina alla radice, l'altra, in una simbiosi che crea un'affascinante mescolanza di snelli corpi scuri, alternati ai grassocci pigiami bianchi e bruni dalle orecchie mobilissime. I mesi dell'abbondanza in cui mettere su peso in attesa dei parti di febbraio, prima delle grandi piogge a cui seguirà la siccità estiva che tutto farà giallo e secco costringendo milioni di individui ad un  esodo annuale che selezionerà solo i più forti e robusti. Erba alta, che però proprio in virtù del suo rigoglio, nasconde anche l'insidia, acquattata nel folto e pronta a balzar fuori a pretendere la sua quota di cibo e di proteine, vita e morte accoppiate sempre. Poi, oltre la savana, una riga brillante, uno specchio che riflette l'ultima luce prima della sera, una fata morgana che non sai se miraggio o realtà. E' la piatta superficie del lago lontano, enorme e profondo poche spanne, che comincia a ritirarsi sotto la morsa dei raggi del sole. Ancora più lontana, al centro, la riga rosa infinita dei flamingos, anche qui centinaia di migliaia, che ricoprono il lago di un mantello di piume rosate senza soluzione di continuità. Praticamente non sai dove fermarti per rimanere a guardare tutto quel brulicare di vita, se vicino alle pozze da cui emergono le groppe degli ippopotami che senti grugnire e sbuffare sott'acqua o tra i branchi di gazzelle che popolano gli spazi lasciati liberi dagli animali più grandi. Sui rami alti degli alberi si dondolano le scimmie cappuccine con le lunghe code prensili. 

E' chiaro che è questa l'Africa che cercavi e solo l'ombra della notte che cala di colpo ti strappa da questa posizione di guardone incantato che non riesce a staccarsi da questo spettacolo di natura perduta e selvatica. Quando a sera arrivi al campo tendato, anche se è apparentemente basico e senza troppi fronzoli, hai ancora gli occhi pieni di immagini, fotogrammi di un film a cui ancora incredulo hai assistito e sei disposto a tollerare qualsiasi scomodità senza lamentosità di sorta. Cammini per i vialetti del campo con l'occhio ancora imbambolato e sognatore, ti sei liberato finalmente delle scarpe pesanti e guardi tra le cime degli alberi per scorgere ancora qualche movimento di vita lassù, adesso che ormai credi di esserti fatto l'occhio acuto del cacciatore bianco, così ti puoi tranquillamente piantare nei piedi qualche grossa spina di acacia, sono fatte apposta per penetrare a fondo nella morbidezza dell'alluce e poi spezzarsi per farne rimanere parte della punta nella carne viva, in modo che possa marcire a suo bell'agio nei giorni successivi riportandoti alla giusta dose di sofferenza, che la vita non è solo piacere. Ma che importa tutto ciò dopo quello che hai visto prima, che importa se il Lilac Camp è situato in un  bosco al limite di una cittadina che si chiama Mto wa Mbu? Significa Fiume delle zanzare in swahili. Credo di cominciare a capire perché.



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4 commenti:

Blogaventura ha detto...

Bellissimo e poi meravigliose quelle foto che ci portano così lontano. Un caro saluto, Fabio

Unknown ha detto...

Qualche anno fa mio marito mi fece la sorpresa del Kenia.
Indimenticabili i parchi e l'attesa silenziosa, la sera, aspettando che gli animali venissero a dissetarsi ad una pozza d'acqua.
Cristiana

Scrivi sempre da dio, ma è ormai assodato e inutile che lo ripeta.

Adriano Maini ha detto...

Proprio l'Africa che ho ripreso a sognare da persona più che adulta, molto dopo, cioeé, le esaltazioni infantili per tante storie di avventure. Un Africa raccontata da te in modo magistrale e illustrata da superbe fotografie.

Enrico Bo ha detto...

@Bloga - Grazie e auguri!

@Cri - Anche io in Kenya tanti anni fa, ma la magia è la stessa.

@Adri - E' la che ti aspetta, come un'amante ammiccante, non farla aspettare troppo...

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!