mercoledì 20 febbraio 2013

Serengeti: gnu e zebre.




 
Hai sognato sui libri dei grandi cacciatori bianchi? Hai visto centinaia di documentari sulle savane sconfinate? Hai sfogliato fotografie di animali selvaggi, sterminate mandrie al pascolo, come forse potevano essere solo quelle dei bisonti nordamericani all'epoca di Buffalo Bill? Serengeti è lo stereotipo del tuo sogno e della tua immaginazione. Non c'è zona africana che racchiuda meglio la vastità sconfinata, il senso di orizzonte infinito brulicante di vita di questo, che è uno dei più vasti e conosciuti parchi del mondo. La strada sterrata che taglia diritta l'altrettanto grande area di conservazione che lo circonda, ti prepara a questo ambiente naturale tra i più tipici dell'East Africa. E' un taglio preciso nella terra rossa su cui corri sollevando dietro di te una nuvola polverosa; intorno, la pianura infinita con una riga netta a separare terra e cielo. Ci arrivi dopo una lenta discesa dalla zona dei crateri, in vasti spazi punteggiati dalle mandrie dei pastori Masai, tracce bianconere lontane guardate da piccole macchie rosse accoccolate al loro fianco. Ogni tanto, lontano dalla pista ma ben visibile, la sagoma rotonda di un boma circondato dalla fitta siepe spinosa di rami di acacia. 

All'interno, seminascoste, le capanne di fango, ormai molte coperte da un bel telo di plastica blu, moderna risposta al problema della pioggia che, quando cade copiosa, le scioglie. A poco a poco questa presenza diminuisce, rimane solo, di tanto in tanto ai margini della strada, qualche gruppetto di moran, i ragazzi da iniziare, avvolti in coperte nere da cui emergono solo i visi dipinti di bianco, fantasmi muti appoggiati a lunghi bastoni, ultimi epigoni di una cultura che sta per essere anch'essa cancellata da un mondo troppo veloce per non travolgere tutto sulla sua corsa. Poi più nulla, solo il mare verde di erba della savana mosso dal vento. Le piccole piogge sono armai finite; il terreno è ancora umido e gli steli verde pallido sono spuntati rigogliosi da settimane fino a raggiungere quasi l'altezza del ginocchio. Solo rarissimi cespugli punteggiano la piana, ma dappertutto, a centinaia di migliaia, con una reiterazione senza fine, le mandrie di gnu ricoprono quasi ogni spazio libero, alternate ad altrettanti gruppi di zebre grassocce, in una simbiosi indivisibile che li accomuna da sempre. Brucano, brucano tutti senza sosta, ti sembra di sentire, il crunk dell'erba che si strappa e il ruminar di mascelle continuo, un rumore di fondo mescolato a muggiti acuti, scalpitar di zoccoli, nitriti nervosi. 

Lo gnu è un animale elegantissimo nella sua goffa forma di gobbo contorto dal muso ingrugnito e troppo stretto. Ha zampe sottilissime, esili ed apparentemente troppo deboli per la sua dimensione corporea, eppur lo vedi trottare con una leggerezza lieve, dare scarti così rapidi e improvvisi da mostrare il guizzo dei muscoli forti e ben segnati sotto il pelo grigio dalle tante sfumature. Corrono, ruzzano, fanno prove di lotta incrociando le corna, i giovani maschi della stagione precedente. Le femmine, palesemente grosse, mangiano in continuazione; tra poco comincia la stagione dei parti; entro febbraio quasi 8000 nuovi nati al giorno arricchiscono il Serengeti, nuove vite da allattare, nutrire, far crescere in fretta, molto in fretta, da rendere autonomi entro luglio al massimo, quando l'erba grassa e dolcissima, a poco a poco ingiallirà, diventerà secca fino a scomparire completamente assieme alle pozze d'acqua che diverranno sempre più rare, piccole e fangose ed allora comincerà la grande migrazione che porterà più di un milione di capi fino in Kenya, al di là del fiume dove i coccodrilli aspettano immobili il loro tributo di vite più deboli. 

Anche le zebre stanno per affrontare la stagione delle nascite e appaiono tonde e pasciute nei loro pigiami naturali, lucidi e tesi. Sono sempre attente a ciò che avviene attorno, brucare sì, ma con occhio vigile, sempre pronte a scappar via, a mantenere la distanza, quella che ti garantisce la vita. Dove rimane un po' di spazio gruppi di impala o di gazzelle di Thompson, rigorosamente divise. Ecco là una ventina di maschi giovani che si spostano attraversando la pista, laggiù un harem di una trentina di femmine con i piccoli che brucano tranquille; il maschio da un lato spicca con le corna alte a guardia del gregge, le gambe posteriori tese come corde, muove il capo in ogni direzione attento a dare un segnale di fuga al minimo sospetto di pericolo. Vedi solo la sagoma col buffo cespuglio di pelo bianchissimo del posteriore segnato dalle due bande nere, le grandi corna ritorte, ritte al vento, le froge che annusano l'aria a sentire un odor di selvatico ben conosciuto. 

L'erba è già troppo alta, dappertutto potrebbe nascondersi l'insidia. Serengeti è il parco dei grandi felini, anche loro devono pur vivere. Per te invece una grande terrazza in legno a dominare lo spazio senza confini che circonda il lodge, con una birra in mano mentre il sole scende definitivamente dietro l'orizzonte intanto che  il cielo si colora di viola scuro. La grande pozza d'acqua brilla come uno specchio infranto dagli sguazzi e dai brontolii prepotenti degli ippopotami, poi il buio scende in un attimo. Dappertutto, sotto di te qualcosa continua a muoversi; comincia un'altra notte, la parte della giornata più carica di ansia, ognuno cercando di sopravvivere mangiando qualcun altro o evitando di essere mangiato. Per te invece, un ricco buffet, davanti alla immensa vetrata che spazia sulla savana, che ti porrà di fronte a scelte meno impegnative.



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2 commenti:

il monticiano ha detto...

Complimenti sinceri per questo tuo post così interessante e coinvolgente. Una descrizione perfetta tanto che sembra stare lì ad osservare.

Enrico Bo ha detto...

@Monty - Il fatto è che sono rimasto davvero emozionato dal posto.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!