martedì 12 febbraio 2013

Le nevi del Kilimanjaro.





La pesa dei portatori.
Marangu, paese dei Chagga, è una cittadina ai piedi della grande montagna. Grazie al relativo benessere che deriva dal suo interesse turistico, non ha un'aria molto africana, ma, affacciata com'è al confine del parco, diventa il punto di passaggio obbligato per chi arriva qui spinto dalla fama della vetta dell'Africa. E' domenica e lungo le strade, fiancheggiate dalle piantagioni di banane e caffè (di montagna che il gusto ci guadagna), vedi gruppi di persone con il loro migliore vestito che si dirigono alla funzione in una delle numerosissime chiese che costellano i paesi circostanti. Qui piove molto, la natura è rigogliosa e le piante fitte anche ai bordi della strada sono di un verde carico e grasso. Il clima è fresco e ricco di acque, cascatelle, torrenti. Il gigante addormentato sta lì, immenso anche a 100 chilometri di distanza, solo con sé stesso non appartenendo ad alcuna catena, con l'asindoto perfetto dei fianchi che salgono uniformi verso il bordo superiore del cratere, grigioazzurri per la distanza a perdersi nelle nubi che nascondono sempre la cima. Pare quasi un ritrosia snob, questo volersi continuamente celare, un fare il misterioso per invitarti alla scoperta, alla salita. Un richiamo che affascina molti, che accorrono si può dire in massa per conquistare i quasi 6000 metri della punta, il tetto del continente, comunque una bella bandierina da mettere nel palmarés per chi ama queste cose, oltretutto pare di nessuna difficoltà alpinistica, in pratica un comodo sentiero che ti accompagna fino alla punta. 

Per andare e tornare ci vogliono cinque giorni di cammino e visto che, pare un trekking di tutto riposo, eccomi qui alla porta di ingresso del parco per poter vantare almeno la prima giornata di questa esperienza. Già all'ingresso a quasi 2000 metri capisci che le cose non devono essere così semplici. Gruppi di escursionisti di ogni paese arrivano attrezzati di tutto punto e muniti di almeno un paio di portatori a testa, i quali si affollano vicino alla casetta dove viene pesato il materiale di ciascuno, dato che per contratto non deve superare i 15 kg. Che sia davvero dura? Intanto, subito dopo il cancello la foresta pluviale ti avvolge col suo abbraccio umido. Sei circondato da alberi alti ed enormi dalle cortecce spesse e ricoperte di muschio, liane poderose scendono dall'alto e si incrociano sul sentiero, largo, è vero, ma che sale con costanza preoccupante. Dappertutto un muro spesso di verde, di foglie grasse, di felci enormi, di tronchi marci caduti al suolo da superare. Qua e là impronte di animali che forse stanno lì a pochi passi dalla quinta verde scuro, di certo impauriti o forse ormai abituati a tanto passaggio. Parti con passo baldanzoso, che saranno mai otto chilometri andare ed altrettanti a tornare per un baldo giovinotto di belle speranze, anche se non magrissimo ed atletico, con zainetto e macchine fotografiche (siano maledette, praticamente quasi i chili che si sobbarca il portatore di mestiere). 

Non farebbe caldo, in teoria, ma come mai allora rivoli di sudore convinto cominciano a scorrere lungo la schiena, goccioloni si aggrumano ed iniziano a piovere dalla fronte, il dorso delle mani si fa umido e scivoloso? Sarà questa umidità spessa ed il silenzio della foresta che attutisce il tuo passo che a poco a poco si fa subito lento e pesante. Per forza, è la quota, ti consoli, pensando che superati i 2000 bisogna procedere con più calma, mentre la guida invece fila davanti con decisione, gettando di tanto in tanto uno sguardo all'indietro per vedere di non perderti. Le ore passano lentissime e il respiro diventa affannoso. La breve sosta per mettere sotto i denti la coscia di pollo rinsecchita e il muffin di segatura contenuti nel lunch box, non ti ristora affatto attorno ai 2500, solo la consolazione che si tratta di peso in meno da portare è di linimento. Riprende la marcia, sempre più faticosa, sempre più lenta ed affannata. La foresta complice del tormento, diventa una selva oscura in cui non ti puoi perdere, ma devi subire per scontare i tuoi peccati, che devono essere gravi assai se ti sei voluto volontariamente sottoporre a tutto ciò, pagando per giunta. Ogni passo in più, quando ti avvicini ai 3000 è semplice soffrire, autolesionismo puro su una via crucis umida e beffarda, in cui ti vedi sfilare da gruppi di coreani o tedeschi che a passo spedito, prendono questo primo step come una sgambata per sciogliere il muscolo in attesa dei giorni successivi, quelli sì impegnativi. 

Che volete, non sono adatto al trekking violento in quota, eppure ogni volta ci ricasco, preso dalla bramosia di non perdermi nessuna sensazione, di non negarmi la possibilità di conoscere un luogo, una realtà e questa della salita al Kilimanjaro nella foresta rimane comunque una situazione che ha il suo fascino, non fosse per le unghie nere degli alluci che ti ritrovi il giorno dopo, quando tenti di incerottare bolle e acciacchi vari subiti da estremità use solo alla ciabatta da divano.  Arrivi al gate di uscita che è ormai sera, distrutto, sfiancato, esausto, le ginocchia dolenti che tremano nello sforzo di opporsi al disequilibrio della discesa, le dita delle mani diventate gonfie salcicce rosse come i wurstel della colazione a causa del mancato deflusso sanguigno bloccato dagli spallacci di uno zaino della domenica; sei desideroso solo di gettarti su qualche cosa di orizzontale, felice della bella giornata trascorsa.

Almeno, i giorni successivi, quel diradarsi della foresta in bosco basso, poi in cespuglio e infine deserto di alta quota, fino ad arrivare all'ultima erta che porta ai 5896 metri dell'Uhuru pick certo non fanno per me; mi contento dunque di sentirli raccontare da un gruppetto di ragazzi italiani, contenti per aver piantato la simbolica bandierina, anche se la fatica davvero tremenda dell'ultimo tratto, quello in cui l'ossigeno manca e hai voglia solo di sederti e di dormire e forse lo faresti per sempre se la guida non ti riscuotesse, dicendoti, dai dobbiamo andare, un passo dietro l'altro fino alla vetta, non è stata compensata dalla fortuna. La nebbia e le nubi spesse avvolgevano la cima impedendo anche di godere almeno per un attimo del meritato panorama. Ma questa è la vita dell'alpinista, ahimè. Io mi contento di meno e la discesa a valle rimane un po' come una liberazione, un perdono definitivo per i peccati commessi. Ti senti più leggero, penitente volontario, ma in fondo è stato bello e mentre te ne vai la cima del Kili si libera un poco, quasi a volerti mandare un saluto per non aver cercato di violarlo fino in fondo. Ma si chissenefrega se le gambe domani saranno tutto un fremito di dolore, se i piedi coperti di bolle non vorranno più stare nelle scarpe, se anche le spalle grideranno il loro rifiuto agli spallacci dello zaino, in fondo si starà comodamente seduti su una macchina per un po'. Ma sarà davvero così?  

Uhuru pick.

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