lunedì 11 febbraio 2013

Alla ricerca di Hemingway.

Al terminal di Ubungo.


Bisogna lasciare Dar, soprattutto perché l'Africa non è solo megalopoli sovraffollata e baracche, ma è spazio aperto dove ancora l'occhio riesce a perdersi spaurito. E' ancora la terra di Stanley e Ligvinstone, per lo meno, suppongo. Il punto di partenza per conoscere questa mondo è come sempre una stazione degli autobus. Quella di Ubungo è vicina all'albergo e ci si arriva in pochi minuti (certo vi sarete chiesti come mai ho scelto un albergo in una lontana periferia di Dar, tutto ha una ragione dunque nella consequenzialità logica del viaggiatore). E' il classico girone infernale di folla convulsa in cerca di un mezzo su cui salire, montagne di bagagli e pacchi che ingombrano il cammino, ceste di galline, caschi di banane e centinaia di corriere di mille colori che affumicano i passeggeri in attesa, senza una indicazione utile a riconoscere la propria. Uomini in canottiere unte e donne completamente velate o in minigonna, senza distinzioni confuse. Una folla di facchini cerca di appropriarsi della tua valigia, da difendere con le unghie e con i denti, una mano sul portafoglio, una sulle borse, una sui documenti e la quarta per chiedere, come si conviene ad un mzungu paranoico tendente a vedere dappertutto pericoli inesistenti. Alla fine ecco il mezzo, tra i meno peggio in verità, essendo a lunga percorrenza, che incede sferragliando verso una banchina. Tutti gli corrono dietro, ma poi ci si sale tranquilli, anzi alla fine salgono anche i venditori, di biscotti, arachidi, uova, panini, bibite, frutta, giornali, biglietti della lotteria, schede telefoniche e roba varia. 600 chilometri per risalire a nord verso Arusha, da 9 a 13 ore, capisco già che è buona la seconda. 

Un paio d'ore se ne vanno per lasciare l'abbraccio soffocante di Dar es-Salaam che sembra non voler lasciarti andare, come un'amante esigente che ti avvince nel caldo umidore del suo talamo pieno di promesse. In effetti ci saranno 35°C e le ombre sono così corte vicino all'equatore, almeno così sostiene Ruesch. Però appena riesci a lasciare alle spalle gli ultimi scampoli di baracche e di stradine laterali, appare l'altra Africa, quella fatta di terra rossa e di colline verdi all'infinito. Le ore passano lentissime, ma dal finestrino non riesci più a staccare l'occhio, come ad uno spettacolo nuovo ed avvincente. Questa è una stagione bellissima per vedere l'East Africa. Le piccole piogge sono terminate da poco e di tanto in tanto, il cielo, popolato delle ultime nubi, regala ancora qualche poco di acqua, come una giunta preziosa per una terra che poco riesce a trattenere e di cui già indovini la sete futura. Però questo è il momento del terreno coperto di erba verde, di campi seminati, di alberi rigogliosi e di boscaglia tornata alla vita. Qua e là, ciuffi violenti di colore. Tutto si esprime con la violenza di una gioventù antica in Africa. In mezzo allo smeraldo, i ciuffi di topazi delle acacie, i rubini vivi delle buganvillee, le ametiste sfumate delle jacarande. Anche il baobab, l'albero dell'Africa per eccellenza, che sei abituato a vedere coi contorti rami nudi abbarbicati al cielo come radici capovolte, è ricoperto di foglie scure e ricche, quasi a volerlo rendere irriconoscibile. 
Ma non c'è niente da fare, lo tradisce il suo tronco ciccione che deborda da ogni lato come un fiasco deforme appoggiato su una tovaglia rossa. I grassi non possono davvero nascondere la loro natura, anche se cercano di sfinarsi con vesti adatte alla bisogna, ma forse è proprio per questo che sono più simpatici, no? Ne incontri boschi interi, se pur distanziati come si conviene ai loro tronchi ipertrofici; anche quelli giovani e apparentemente più piccoli, occupano già spazio come bambini obesi in un banco troppo stretto per due, in un asilo di piccini occidentali, frutti corpulenti di diete ipercaloriche. Ma lo spettacolo che corre ai tuoi fianchi è grandioso. Al superare di ogni avvallamento, un nuovo digradare di quelle verdi colline d'Africa, marchio di fabbrica assoluto e ineguagliabile che affascinò il cacciatore americano, che pure non amava questa terra, se non per i frutti che poteva dare. Nelle parti più selvatiche i dossi ricoperti di alberi fitti si ripetono all'infinito e non appena arrivi a un sommo, la vista abbraccia uno spazio sterminato di sfumature continue e apparentemente impenetrabili. Poi nelle radure compaiono le capanne di fango e paglia dell'Africa rurale, povera e apparentemente priva di bisogni, al limitare di piccoli appezzamenti irregolari appena seminati. 

Campetti di mais rado e stentato, arachidi appena nate e già rinsecchite, patate, ignami, piccoli orti che già gridano il loro bisogno d'acqua inevaso. Dietro le casupole di cui indovini lo scheletro di rami contorti a mala pena coperti da poco fango secco, un albero di mango con le sue fronde ombrose, un po' di banani gialli, papaye sfogliate che paiono allampanate anoressiche con un ciuffo punk dipinto di verde pallido. Si sale verso l'altopiano ed a tratti, la strada diventa rettilineo infinito, unghiata secca nell'acrocoro rosso punteggiato dai ciuffi ordinati delle piantagioni di sisal, interrotto solo dall'emergere di piccole montagnole rocciose ma anch'esse ricoperte di vegetazione. Sulla destra la catena dell'Usambari accompagna la strada, sì proprio quelle della violetta che indebitamente da noi è spacciata per sudafricana e invece e nata qui, endemica di queste montagne corrose, come l'umanità tutta del resto. Ancora ore che passano lente mentre una telenovela locale barbotta sullo schermo in fondo alla corriera tra le risate dei passeggeri, a cui, inconsci di un paesaggio proprio, rimane solo il bagno di sudore usuale che neppure le ombre della sera incombente è capace di affievolire. 

La meta si fa vicina, siamo ad una decina di chilometri dal confine keniota e il traffico di camion fumosi è intenso. Sullo sfondo una massa indistinta avvolta da nubi scure. Ci immagini subito qualcosa di importante e maestoso. Poi d'improvviso, mentre la strada diritta ci si dirige contro come attirata da una forza magnetica, ecco che la grande nube scende a poco a poco, si allarga e si dilata, lascia spazio e compare su in alto, illuminata dall'ultimo sole della giornata, la neve dorata del Kilimanjaro. Il picco del bordo del cratere sembra scintillare di bianco ambrato. Rimani a bocca aperta per questo regalo inatteso; il re dell'Africa che aspetta i viaggiatori sempre incappucciato e scontroso, che si rivela infine per invitarti a conoscerlo. Se è un invito buono o maligno lo scoprirai domani, intanto rimani qui ai suoi piedi, alle sue falde direbbe qualcuno, dove però non ci sono Watussi e di certo nessuno balla l'hullygully.    

Le nevi del Kilimanjaro.

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4 commenti:

Unknown ha detto...

Evvvai, incantatore!
Cristiana

Anonimo ha detto...

Hai veramente superato te stesso nelle descrizioni calligrafiche e quasi pittografiche.

Per non parlare delle foto che accompagnano piacevolmente il testo. Bravo!

Paola

P.S. E' proprio vero che le persone pacioccone sono più simpatiche delle altre.

Enrico Bo ha detto...

@Cri - Con questo giro ho in serbo parecchie cartucce.

@Paola - Guardatevi dai magri, sono tristi

il monticiano ha detto...

E vai, sei un viaggiatore, esploratore, narratore senza pari.
Fai una descrizione dei tuoi viaggi che sembra quasi essere lì, insieme a te.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!