giovedì 24 ottobre 2013

La colpa è sempre degli altri.

Colline - Ukraina - Novembre 1993

Le betulle dei boschi che coprivano tutte le colline attorno alla città avevano una corteccia bianchissima. Se la toccavi, sfiorandola con leggerezza, si sfogliava subito in un velo sottilissimo che pareva carta, quasi trasparente, lieve e leggera che il vento da nord si portava subito via lontano. La fabbrica era giù nella valle, oltre la periferia grigia della città grigio sporco, che quasi non si vedeva nella neve di novembre, quella subito sporca che non riesce a coprire completamente il fango delle piogge autunnali. Enorme, lunghissima lungo la strada diritta che andava verso Ivanofrankovsk. I capannoni si susseguivano gli uni agli altri con le pareti esterne più o meno rovinate, le profilature metalliche, alcune non finite, rivolte verso l'alto e già rugginose, i mucchi di macerie che davano un senso di abbandono. Più lontano dalla strada, un gruppo di ciminiere, solo due delle quali emettevano un fumo bianco a sprazzi, quasi un singhiozzo di attività. Poca gente in giro, che si muoveva qua e là come se cercasse di far vedere agli altri che aveva qualche cosa da fare, i più senza neanche quella voglia. Tutti cercavano di mettersi al riparo da qualche parte, imbucati in qualche ufficio degradato e polveroso a fumare sigarette di basso costo. I magazzini in fondo avevano le grandi porte aperte e vi intravedevi un vuoto devastante. 

La palazzina degli uffici, troneggiava su un piccolo piazzale, sbarrato a sinistra dal grande tabellone con le fotografie degli impiegati e degli operai del mese, premiati per la loro efficienza sul lavoro, ma nessuno la aggiornava più da tempo e anche la grande scritta orgogliosa, uno slogan sulla produttività proverbiale del gruppo, era scolorita e un paio di parole non erano ormai più leggibili, anche se il senso pomposo si capiva ancora. Davanti, non sostava alcuna macchina e la porta a vetri, che era anche l'unico accesso alla costruzione, era aperta con un'anta bloccata a causa di un cardine che aveva ceduto e che nessuno pensava di riparare. Per fortuna la doppia porta dell'atrio si riusciva a chiudere alla meglio, evitando che il freddo esterno che annunciava l'inverno imminente invadesse l'ampio ingresso, congelando la grassa ragazza che stava seduta davanti al bancone mentre si limava con attenzione le unghie. L'ufficio del direttore era un grande salone al primo piano, preceduto da una stanza ricolma di segretarie bellocce con camicette di pizzo o maglioncini di angora cinese bianchi, tutte intente a telefonare a casa o a stirarsi pigramente. Una stava ritta sulla sedia dallo schienale sbrecciato, con gli occhi persi  nel vuoto, forse in attesa di essere chiamata. Nel suo grande ufficio con una lunga scrivania a T e due divani in similpelle dai braccioli che presentavano larghi tagli da cui fuoriuscivano gnocchi di spugna giallastra, Valentin Ivanovic Kolienko, se ne stava appollaiato sulla vecchia poltrona come un orso sornione appena uscito dal letargo, in attesa di qualche cosa che cascasse dal cielo. 

Il testone ricoperto da una spessa e disordinata zazzera sale e pepe, che quasi gli copriva gli occhietti porcini semichiusi, dondolava lentamente quando parlava con il suo interlocutore. Finiva sempre le frasi con un sospeso, come se avesse voluto dire di più, ma si sa... La storia era sempre la stessa, più o meno, il grande passato della fabbrica, un tempo vanto di tutta l'Unione Sovietica, le produzioni sofisticatissime, roba di interesse militare, tutto segretissimo e qui abbassava un po' la testa e la voce, come se temesse la presenza di qualche spia nelle vicinanze e poi uno sguardo sfuggente verso l'alto, eh, non è che si potesse dire tutto... Le grandi potenzialità del territorio che conteneva sotto i piedi tutta la tavola di Mendelejev (frase ormai sentita mille volte in mille altre fabbriche in rovina) e poi l'elenco delle recriminazioni, tutta quella gente al centro nelle posizioni decisionali, che avevano mandato tutto alla malora, il complotto internazionale che voleva indebolire l'URSS, gli speculatori che una volta sarebbero stati fucilati sul posto e come si stava bene un tempo quando le cose erano chiare e ognuno aveva il suo compito, c'era il rublo forte con cui ti davano quasi due dollari mentre adesso, a causa dell'incapacità di chi governava e dei nemici avvoltoi, ce ne volevano 35.000 per un solo dollaro. Ma sarebbe venuto il giorno in cui le cose si sarebbero rivoltate e gli Americanzy avrebbero dovuto dare 10 dollari per avere un rublo, perché questo era il giusto cambio. Poi si veniva ad illustrare le straordinarie opportunità di investimento che l'ospite poteva avere a disposizione, cose da fare e da produrre, un mercato praticamente vergine da conquistare. 

Naturalmente lui, attraverso un suo socio, che stava al suo fianco ammiccando, attraverso un ufficio esterno avrebbe potuto essere di grande aiuto spianando la gran massa di intoppi burocratici che qualunque straniero avrebbe inevitabilmente incontrato nell'impresa. Al termine della chiacchierata che generalmente coincideva con la fine della o delle bottiglie di vodka  che erano state esposte sul tavolino davanti ai divani, arrivava puntuale la confessione che lì di soldi non c'era neanche l'ombra e che tutto l'impegno finanziario doveva essere esterno. Così gli ospiti salutavano e se ne andavano con grandi promesse di esaminare il progetto che tutti sapevano già morto prima di nascere. Anja, quella bionda con i capelli tirati su, li accompagnava alla porta con viso inespressivo, poi tornava a sbarazzare il tavolo dalle bottiglie vuote e dai bicchieri sporchi. Che vita! Niente che girasse per il giusto verso e quei farabutti che se ne andavano via sulle loro Merzedès e BeEmVé e lui non aveva neanche più la dotazione della Zigulì scassata della fabbrica e intanto gli operai reclamavano aumenti. Valentin stava per un po'sprofondato nella poltrona centrale del salotto con lo sguardo cupo e la piega della bocca un po' storta verso il basso, con la sigaretta che gli pendeva come per cadere da un momento all'altro. Guardava Anja che chinata in avanti con la gonna stretta finiva di pulire il tavolo, poi valutava con compiacimento le due chiappe morbide che si allontanavano ancheggiando verso la stanza delle segretarie. Ma sì, avrebbe convocato lei tra un'oretta, nella stanza dietro l'ufficio, dove  aveva fatto sistemare un grande letto con i cuscini nuovi e il copriletto rosa coi bordi di tulle.


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2 commenti:

Unknown ha detto...

Leggera pare, nella sua leggera squallidità — quale il castigo mai, quale il delitto — questa cosa Преступление и наказание, un Dostoevskij
Come somiglian gli uomini
Ahi al tuo dolore che ti fa conoscere questo deserto pieno di deserto

Enrico Bo ha detto...

@tentar - Delitto sempre, castigo a volte mai o poco appare.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!