giovedì 9 aprile 2020

Scalo a Jeddah


The road to Petra - agosto 1977


Il sif
Biglietti alla mano, soldi nascosti nel rullino, partimmo secondo il piano preparato, non sto a raccontarvi dello stop giordano, che, oltre alla sindrome sthandaliana di attonita meraviglia davanti allo spettacolo del tesoro di Petra, mi lasciò anche il ricordo delle terga piagate, disonorevole ferita inferta al mio corpo giovane e tenerello, provocata dalla mia prima esperienza a cavallo, nel sif traversato per raggiungerla. Davvero la mancanza di esperienza della gioventù, ti mette di fronte a questi problemi. Poi proseguimmo il volo verso Sana'a, che prevedeva però uno scalo, dove di nuovo la gioventù ci avrebbe messo di fronte ad un'ulteriore prova. La sua morale finale potrebbe raccontare di come l'appartenere ad una chiara connotazione religiosa, crea una complicità di gruppo decisamente intensa e a volte risolutiva e salvifica. Ne avemmo una decisa prova, all'aeroporto di Jeddah. Provenendo dalla Giordania dovevamo aspettare nove ore in transito, prima che partisse un aereo per Sana'a, la mitica capitale dello Yemen, allora del Nord. Non era ancora neppure in progetto la nuova aerostazione che oggi accoglie i milioni di pellegrini per la Mecca e quella vecchia in cui sostavamo sembrava più uno sgangherato terminal per autobus terzomondisti. Una stanza con un bancone per i check-in ed un grande salone pieno di poltroncine in similpelle strappata qua e là, su cui si accampavano famiglie con bambini vocianti e gruppi carichi di borse extrapeso. 

I famigerati cavalli di Petra
Un bailamme di gente dalle classiche connotazioni mediorientali, che alternavano donne velate, nelle diverse varianti della penisola araba e uomini in lunghi camicioni bianchi. In fondo al salone delle partenze, dove ci eravamo sistemati per trascorrere la lunga attesa, si aprivano quattro porte numerate che davano alle piste. Un vecchio televisore, in alto, su cui mal si leggeva l'elenco dei voli, completava la scena. Il nostro volo veniva dopo un aereo per Beirut, in fondo alla schermata che andava e veniva e noi ci apprestammo alla lunga attesa, nell'incredibile confusione dell'andirivieni continuo, tra ritardi e cancellazioni. Ogni tanto, inservienti paludati nelle lunghe galabeye bianche passavano con cartelli in arabo a cercare passeggeri dispersi, un altoparlante gracchiava in inglese, indistinguibile dalla riproposizione araba. Dopo molte ore di disattento sonnecchiare, il volo per Beirut occhieggiava sempre sul monitor, ma mi accorsi con orrore che il nostro per Sana'a, non era più in lista. Mi recai al bancone coni boarding pass in mano, cercando di capire e mi mancò la terra sotto i piedi al sentire che il nostro volo se ne era già partito da dieci minuti, naturalmente con le nostre valigie. L'addetto, costernato ci disse che ci avevano disperatamente cercato per tutta la sala, ma il nostro nome, orribilmente storpiato non era stato evidentemente da noi sentito. 

Case yemenite
La questione era piuttosto grave, in quanto l'unico altro volo, in partenza dopo quattro ore era completo. Noi non avevamo ovviamente il visto saudita ed essendo vietato sostare in transito per più di 12 ore, eravamo in posizione assolutamente illegale. Parafrasando De André, subito arrivarono quattro gendarmi con i pennacchi e con le armi, più precisamente kalashnikov, ci sequestrarono  i passaporti e fummo portati in una stanzetta con relativo poliziotto armato alla porta, paventando forse una nostra eventuale fuga (dove?), in attesa di decidere della nostra posizione. Mentre la preoccupazione cominciava a farsi strada, fummo lasciati soli a soffrire, senza sapere che fine avremmo fatto, ma dopo poco, comparve un grasso arabo, che i 40° C dell'ambiente facevano sudare copiosamente. Si avvicinò a noi con aria complice e dopo essersi guardato intorno, furtivo, ci mostrò una catena d'oro sotto la palandrana, con una croce appesa. - I'm a christian - sussurrò e ci fece segno di seguirlo. Come pecorelle smarrite ci incanalammo dietro al buon pastore. Ci disse che c'era un aereo, riferendosi a quello della Kuwait Airlines che era in partenza per Sana'a, ma ci confermò che purtroppo non c'era posto. 

Deserto roccioso
Il maronita sembrava autorevole e superati diversi varchi successivi, ci condusse ai banchi dell'accettazione dove convinse il riottoso incaricato, raccontando che la signora, nominandola col rispetto dovuto, era incinta e anche in riferimento alle particolari condizioni si potevano emettere comunque, in via assolutamente eccezionale, anche se era aperta solo la waiting list, due carte di imbarco provvisorie, ma necessarie ad avere indietro i passaporti, quindi ci portò davanti alla porta numero 3 e anche se mancava ancora un'ora all'imbarco ci consigliò di non muoverci di lì, infatti poco dopo cominciò a formarsi la fila di cui noi rimanemmo a capo, coi passaporti restituitici di mala grazia, in mano. Quando il gate finalmente si aprì e fummo i primi a consegnare il boarding pass, lanciammo un'occhiata di ringraziamento verso Jussuf, così si chiamava l'amico correligionario, il Signore lo benedica, che in fondo al salone ci fece un ultimo cenno tranquillizzante col capo, e corremmo verso la scaletta. Non credo che nessuno sia rimasto a terra comunque, qualche posto alla fine c'è sempre e quando fummo in volo, il nodo nello stomaco si sciolse a poco a poco, nella visione delle dune di sabbia rosa dell'immenso deserto del Rub al-Khali che ci apprestavamo a sorvolare, seguendo la via dell'incenso verso sud. Dopo meno di un'ora, mentre scendevamo di quota, la luce dorata del tramonto illuminava le alte torri della capitale yemenita. Sana'a val bene una Messa e così la sfangammo.

Campagna vicino a Sana'a



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2 commenti:

Anonimo ha detto...

una bella botta di sedere il posto sul volo...

Enrico Bo ha detto...

Direi di sì, ma alla fine a quei tempi qualche posto libero c'era sempre, poi hanno cominciato con l'overbooking

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