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domenica 10 maggio 2020

Oasi perdute 8: Zagora e la valle del Draa


Zagora - Marocco - agosto 1984


L'inizio della valle del Draa
Ce l'avevo in testa da anni. Non ricordo neppure dove l'avevo visto per la prima volta o dove ne avevo sentito parlare, però l'immagine di quel cartello mi ronzava nel cranio come un richiamo irresistibile, un'esca dai profumi fascinosi ai quali nessun cavedano riesce a resistere. Così dopo aver testato la resistenza del camper sulle strada di Capo Nord, quell'anno volli tentare quel giro strampalato fino all'estremo sud a cui si potesse arrivare senza particolari visti. Il traghetto da Genova a Tunisi, poi tutta la costa di Tunisia e Algeria e poi fino in fondo al Marocco, almeno fino a dove non ci fosse una sbarra che mi impedisse di proseguire più in giù. Poi saremmo ritornati dalla Spagna per completare il giro. Però proprio in Marocco c'era quel cartello ad aspettarmi, un appuntamento che non volevo assolutamente mancare. Quindi dopo Ourzazate, lasciato il meraviglioso palazzo della Kasbah di Taourirt, imboccammo senza dubbi di sorta la stradina asfaltata N9 che percorre tutta la valle del Dra per arrivare in quasi 200 chilometri, fino all'inizio del grande erg di dune rosse da cui ha inizio l'estremità occidentale del Sahara. Questa valle  è uno dei paesaggi più straordinari del mondo ed a distanza di 36 anni ce l'ho ancora piantata in testa quasi metro per metro. Subito dopo la città, la strada si inerpica un poco e poi scavalla in un territorio di roccia nuda e piena di spaccature, valli, calanchi ed erosioni che le acque in altri tempi e poi il calore potente ed il vento che, carico di sabbia, smeriglia queste balze come carta abrasiva, hanno plasmato durante intere ere geologiche. 

Il Draa
La valle che si apre contorta nelle falde più a sud dell'Atlante, prosegue dapprima stretta e solitaria, con ripide pareti, allargandosi poi sempre segnata al fondo dal rigagnolo estivo del Draa che a tratti in estate scompare del tutto. Questo tracciato, che a tratti si allarga un poco, è segnato in continuo da una sottile fascia di palmeti che godono della relativa umidità del wadi sottostante. Nei rari tratti più favorevoli, qualche agglomerato di case rosse di argilla cruda dalle pareti inclinate. La strada che scende a poco a poco dalla montagna, contorta e tutta curve, prende poi un andamento più rettilineo quando la discesa si calma e la furia primigenia che ha creato in epoche passate quei rilievi, si distende e cerca riposo. Ad un certo punto, più o meno a metà strada, compare dall'altra riva del wadi uno spettacolo che sembra preso di peso da un film, l'abitato di Tamnougalt, con la sua Kasbah di terra rossa dalle mura alte a strapiombo sul fiume. Non a caso, mi risulta sia spesso utilizzata proprio come naturale set cinematografico. Questa è davvero una visione onirica, un castello sotto il quale immagini battaglie di cavalieri vestiti di bianco, di principesse prigioniere, di califfi che tornano dalla caccia col falcone. Ma la strada segue implacabile verso est e scende ancora di poco fino ad arrivare a Zagora, allora punto estremo prima che comincino le piste che si lanciano attraverso il deserto. La cittadina, specialmente ad agosto aveva tutte le classiche caratteristiche di questi luoghi sahariani, le strade polverose e sempre in lotta con la sabbia che arriva col vento e soprattutto un silenzio assoluto, perché durante il giorno nessuno ha voglia di sbattersi troppo col caldo che fa.

Vita di villaggio
In ogni caso le attività sono sempre piuttosto ridotte in questi luoghi, dove ha sempre trionfato la pastorizia, lavoro fatto di soste e di silenzi davanti al nulla ed una lenta agricoltura che sfrutta i piccoli quadrati di terra attorno alle palme da dattero, dove i tracciati dei minuscoli canali, tracciati da secoli, conducono la poca acqua a nutrire pianticelle di ortaggi sempre in lotta per sopravvivere. In verità la stradina proseguiva ancora per quattro o cinque chilometri infilandosi nel mare di colossali dune rosse, dove potersi godere il tramonto che le insanguina ancora di più e rappresentava di certo il gran finale della giornata, ma lo scopo fondamentale, quello che aveva maggiormente contribuito a farmi arrivare fino a qui era la ricerca del famoso cartello. Con l'aiuto di un ragazzino che caricammo a bordo all'inizio dell'oasi, arrivammo in una piazzetta, uno slargo dove in effetti partiva poi la strada verso est. Ed eccolo lì in fondo, sul bordo ad est dello spiazzo, con alle spalle un'orticello di piantini stentati, dipinto su un muretto di malta imbiancata, che occhieggiava ruffiano ed invitante, con la sua scritta onirica: Tombouctou 52 giorni, in francese ed in arabo. Sotto, un disegno naif con una carovana di dromedari e di uomini blu che si allontana verso il deserto. Il luogo e quella scritta ha un così grande carico di attrazione che non puoi, percorso infine l'ultimo tratto fuori dell'oasi, seduto sull'alto della duna più alta, mentre il sole muore lontano, non ricominciare a sognare, come facevo io quel giorno, nuovi itinerari per penetrare quel deserto infinito e raggiungere finalmente la regina delle sabbie, alla quale però non sono mai potuto arrivare.

Paesi della valle del Draa


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sabato 25 ottobre 2008

L'occasione

Il nostro camper piuttosto datato sbuffava lungo le rampe dell'Atlante per la strada tortuosa che portava ai 2.168 metri del passo di Tizi n'test. Avevamo lasciato da tre giorni la valle del Dra e l'avamposto di Zagora nel deserto, non prima di aver scattato la foto di rito sotto al cartello "Timbouctou 55 jours". Dopo tre ore di calore insopportabile, verso mezzogiorno (l'ora classica del turista maledetto), arrivammo in cima. Ci fermammo nella piazzola per far riposare il mezzo e per godere della vista spettacolare dei contrafforti aridi della montagna che scendevano rapidi verso Taroudant. Fummo subito circondati da un nugolo di ragazzini vocianti, il giusto pedaggio da pagare al privilegio di stare in quel posto magico. Uno in particolare ci trascinò alla sua bancarella, uno straccio steso per terra ricoperto di fossili di tutte le dimensioni e di geodi di ametista viola aperte. Ce n'erano di bellissime, enormi e Joussouf (così si chiamava) cominciò a magnificarne i pregi e soprattutto il prezzo particolarmente conveniente. Ne ero attratto, ma fatto acuto dai consigli che mi aveva dato il mio amico Tiziano, grande esperto di mineralogia, presi la bottiglia di acqua tiepidina con cui tentavo di calmare la sete (su quel camper non abbiamo mai avuto il piacere di avere acqua fresca da quel malefico frigo) e gli chiesi il permesso di lavare i cristalli della grande geode che mi interessava. Infatti, pare sia costume di questi birbi il colorare in viola dei quarzi di poco valore e spacciarli per ametiste. Il ragazzo preoccupatissimo, mi fermò immediatamente cercando di stornare la mia decisione in altre direzioni, poi vistomi deciso, se ne uscì con un impagabile: - Monsieur, je vous garantie que si vous la mettrez dans votre salon elle ne perdra pas sa couleur dans un million d'annéees.- Ridemmo a lungo poi gli comperai una trilobite e qualche piccola e lucida belemnite prima di lasciarci andare nella lunga discesa. Sono passati solo 25 anni e me ne sarebbero rimasti ancora più di 900.000 se avessi voluto mettere sulla mia scrivania quella geode per mantenere viva nella mia memoria il volto di quel ragazzo. Che occasione perduta.

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