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venerdì 3 luglio 2020

Luoghi del cuore 23: Le case di Ouarzazate

Verso Sud - Marocco - agosto 1984

Capre sugli alberi di argan
Già, quel viaggio nel sud del Marocco fu davvero entusiasmante, sia per il fatto che ci stavamo spingendo in terre così lontane, che mai avrei immaginato quando avevo investito i miei pochi risparmi in quel camper malandato e ultraventennale, che per un uomo non sarà molto, ma per un mezzo meccanico vuol dire pure qualcosa e poi tutti giù a criticare la Fiat, sia perché quel luogo è davvero uno dei più belli che si abbiano occasioni di vedere. Una terra selvatica ed aspra, che presenta gemme naturali di grande bellezza, dalle gole del Todra e del Dades, con le loro pareti a strapiombo, ai passi montani ad oltre 2000 metri come il Tizi'n test, oltre il quale domini valli infinite di pietra e di roccia che si stendono verso quel sud misterioso e pieno di inviti, verso il quale vieni attirato come dalle sirene di Ulisse. Facevamo chilometri in lande desolate incontrando solo capre selvatiche che si arrampicavano non so come sugli alberi di argan che crescevano disordinatamente ai lati della pista, a mangiarne i gustosi frutti a quattro, cinque metri di altezza, mantenendosi in un precario ed innaturale equilibrio. Ma la città simbolo di questo grande sud marocchino è Ouarzazate, dove si respira veramente la miscela antica che c'è tra il deserto alle spalle, di qui comincia il Sahara, nel suo estremo punto ad ovest, e le montagne dell'Atlante. La mistura tra l'Africa nera di un sud quasi sempre con una storia di sfruttamento sulle spalle ed il nord berbero, che al contrario ha sempre campato sul commercio, di merci, di oro, di sale, di uomini e di carne umana. 

Case di Ouarzazate
La città che conserva ancora le sue spettacolari costruzioni, che paiono incredibilmente raffinate per avere alla base solamente un materiale come la terra battuta, si estende su larghi spazio, ma più ancora coinvolgenti sono i piccoli paesi all'intorno, nei quali il rosso vivo delle costruzioni si fonde con il paesaggio circostante del medesimo colore e che da lontano, fatichi a distinguere. La gente in giro non è molta, sempre avvolta da immensi scialli fino ai piedi che avvolgono completamente le figure per difenderle da un clima pesante. Gente che parla poco e che non ha l'invadenza delle grandi città del nord del paese, quello della capitali imperiali, bellissime, ma gonfie di turisti, vacche da mungere, assediati da torme di procacciatori di ogni cosa per i quali rappresentano una irrinunciabile fonte di reddito e pertanto li assediano a torme, come tafani assetati di sangue. Qui invece anche nei mercati, i venditori aspettano, seduti senza parlare né tanto meno aggredire il possibile cliente che si aggira curioso. Poi, al limite, si lascia andare ad una lenta trattativa in attesa che arrivi misericordiosa, l'ombra della sera, nella quale richiudersi. Luoghi da favola vera, mentre i passi si sovrappongono nella terra sabbiosa, lasciando impronte lievi che il vento cancella in fretta. 

Valle del Draa
La sera il cielo diventa rosso come le case, cubi vermigli come cristalli di geodi giganti, come quelle che trovi su queste montagne. In cima ad un passo ci fermammo per le foto di rito. Un ragazzino aveva steso a terra uno straccio tutto coperto di geodi spezzate di ametiste rosse e viola, come il tramonto che stava esplodendo oltre le creste sulla piana lontana. Alcune di dimensioni davvero notevoli. Ne osservai una bellissima di proporzioni accettabili per essere caricata e trasportata a casa, ma dopo averla valutata a lungo, il prezzo era davvero invitante, l'europeo furbastro che alberga dentro di me e che non si fida neanche dei bimbi, fatto anche acuto da esperienze vissute da viaggiatori precedenti, presi la mia borraccia e feci per gettare un bel fiotto d'acqua sui quei meravigliosi cristalli, sapendo, malfidato, che spesso, geodi di semplici cristalli di quarzo trasparente e di infimo valore, vengono appositamente colorati, per ingannare il povero turista. Il ragazzino terrorizzato mi fermò immediatamente e io scoperta la truffa, lo rimproverai con bonomia, queste cose non si fanno, ma lui, che ne sapeva evidentemente una più del diavolo, mi disse con un occhio ingenuo e mellifluo al tempo stesso, allargandole braccia: - Guarda che se tu compri e metti nella tua casa, rimane di questo colore per un milione di anni...- . Che vuoi dirgli. Lo salutammo ridendo e proseguimmo lungo i tourniquet della discesa verso Tiznit.

Il castello di Ouarzazate



Paese del sud del Marocco
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Gole del Todra














domenica 10 maggio 2020

Oasi perdute 8: Zagora e la valle del Draa


Zagora - Marocco - agosto 1984


L'inizio della valle del Draa
Ce l'avevo in testa da anni. Non ricordo neppure dove l'avevo visto per la prima volta o dove ne avevo sentito parlare, però l'immagine di quel cartello mi ronzava nel cranio come un richiamo irresistibile, un'esca dai profumi fascinosi ai quali nessun cavedano riesce a resistere. Così dopo aver testato la resistenza del camper sulle strada di Capo Nord, quell'anno volli tentare quel giro strampalato fino all'estremo sud a cui si potesse arrivare senza particolari visti. Il traghetto da Genova a Tunisi, poi tutta la costa di Tunisia e Algeria e poi fino in fondo al Marocco, almeno fino a dove non ci fosse una sbarra che mi impedisse di proseguire più in giù. Poi saremmo ritornati dalla Spagna per completare il giro. Però proprio in Marocco c'era quel cartello ad aspettarmi, un appuntamento che non volevo assolutamente mancare. Quindi dopo Ourzazate, lasciato il meraviglioso palazzo della Kasbah di Taourirt, imboccammo senza dubbi di sorta la stradina asfaltata N9 che percorre tutta la valle del Dra per arrivare in quasi 200 chilometri, fino all'inizio del grande erg di dune rosse da cui ha inizio l'estremità occidentale del Sahara. Questa valle  è uno dei paesaggi più straordinari del mondo ed a distanza di 36 anni ce l'ho ancora piantata in testa quasi metro per metro. Subito dopo la città, la strada si inerpica un poco e poi scavalla in un territorio di roccia nuda e piena di spaccature, valli, calanchi ed erosioni che le acque in altri tempi e poi il calore potente ed il vento che, carico di sabbia, smeriglia queste balze come carta abrasiva, hanno plasmato durante intere ere geologiche. 

Il Draa
La valle che si apre contorta nelle falde più a sud dell'Atlante, prosegue dapprima stretta e solitaria, con ripide pareti, allargandosi poi sempre segnata al fondo dal rigagnolo estivo del Draa che a tratti in estate scompare del tutto. Questo tracciato, che a tratti si allarga un poco, è segnato in continuo da una sottile fascia di palmeti che godono della relativa umidità del wadi sottostante. Nei rari tratti più favorevoli, qualche agglomerato di case rosse di argilla cruda dalle pareti inclinate. La strada che scende a poco a poco dalla montagna, contorta e tutta curve, prende poi un andamento più rettilineo quando la discesa si calma e la furia primigenia che ha creato in epoche passate quei rilievi, si distende e cerca riposo. Ad un certo punto, più o meno a metà strada, compare dall'altra riva del wadi uno spettacolo che sembra preso di peso da un film, l'abitato di Tamnougalt, con la sua Kasbah di terra rossa dalle mura alte a strapiombo sul fiume. Non a caso, mi risulta sia spesso utilizzata proprio come naturale set cinematografico. Questa è davvero una visione onirica, un castello sotto il quale immagini battaglie di cavalieri vestiti di bianco, di principesse prigioniere, di califfi che tornano dalla caccia col falcone. Ma la strada segue implacabile verso est e scende ancora di poco fino ad arrivare a Zagora, allora punto estremo prima che comincino le piste che si lanciano attraverso il deserto. La cittadina, specialmente ad agosto aveva tutte le classiche caratteristiche di questi luoghi sahariani, le strade polverose e sempre in lotta con la sabbia che arriva col vento e soprattutto un silenzio assoluto, perché durante il giorno nessuno ha voglia di sbattersi troppo col caldo che fa.

Vita di villaggio
In ogni caso le attività sono sempre piuttosto ridotte in questi luoghi, dove ha sempre trionfato la pastorizia, lavoro fatto di soste e di silenzi davanti al nulla ed una lenta agricoltura che sfrutta i piccoli quadrati di terra attorno alle palme da dattero, dove i tracciati dei minuscoli canali, tracciati da secoli, conducono la poca acqua a nutrire pianticelle di ortaggi sempre in lotta per sopravvivere. In verità la stradina proseguiva ancora per quattro o cinque chilometri infilandosi nel mare di colossali dune rosse, dove potersi godere il tramonto che le insanguina ancora di più e rappresentava di certo il gran finale della giornata, ma lo scopo fondamentale, quello che aveva maggiormente contribuito a farmi arrivare fino a qui era la ricerca del famoso cartello. Con l'aiuto di un ragazzino che caricammo a bordo all'inizio dell'oasi, arrivammo in una piazzetta, uno slargo dove in effetti partiva poi la strada verso est. Ed eccolo lì in fondo, sul bordo ad est dello spiazzo, con alle spalle un'orticello di piantini stentati, dipinto su un muretto di malta imbiancata, che occhieggiava ruffiano ed invitante, con la sua scritta onirica: Tombouctou 52 giorni, in francese ed in arabo. Sotto, un disegno naif con una carovana di dromedari e di uomini blu che si allontana verso il deserto. Il luogo e quella scritta ha un così grande carico di attrazione che non puoi, percorso infine l'ultimo tratto fuori dell'oasi, seduto sull'alto della duna più alta, mentre il sole muore lontano, non ricominciare a sognare, come facevo io quel giorno, nuovi itinerari per penetrare quel deserto infinito e raggiungere finalmente la regina delle sabbie, alla quale però non sono mai potuto arrivare.

Paesi della valle del Draa


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sabato 9 maggio 2020

Oasi Perdute 7: Il mercato dei dromedari di Goulimine

Mercato dei dromedari di Goulimine - Sud Marocco - agosto 1984


Tramonto all'oasi
Goulimine era l'ultimo avamposto del sud marocchino dove sia consentito arrivare con i propri mezzi senza sconfinare in territorio Saharoui. Un'altra delle tante oasi perdute dell'Africa che vive galleggiando sulle sabbie. Qui si svolgeva ogni domenica il più importante mercato di cammelli del continente, che poi naturalmente son dromedari, ma si dice così. Vi convergevano a migliaia, touareg con i mantelli blu, Saharoui con grandi turbanti bianchi avvolti attorno al capo, commercianti marocchini con camioncini malandati e qualche turista di lungo corso che amava perdersi tra le mandrie e i sensali. Sembrava, è vero, di stare al mercato di Alba o di Moncalieri vestiti da carnevale. Stessi gesti, stesse pacche sulle spalle, stesse strette di mano, solo i cammelli avevano un'aria distaccata, superiore, ma loro sono gli unici esseri viventi a conoscere il centesimo nome di Hallah e quindi se la possono permettere. Giudiziosamente eravamo arrivati il giorno prima col nostro camper scassato e ultradecennale, un 238 Fiat del quale non finirò mai di cantare le lodi, dopo aver traversato tutto il magreb a partire da Tunisi, rimanendo però subito preda di un ragazzino che ci aveva convinti ad andare a parcheggiare nell'oasi della sua famiglia a qualche chilometro dal paese. Ne valeva assolutamente la pena; sotto un gruppo di palme ci si poteva godere uno spettacolare tramonto sulle dune, prima dorate e poi rosse, infine nere, del grande erg occidentale.

Touareg
Tra le palme di quella che pareva proprio l'oasidelle barzellette con qualche ciuffo di palme sparso tra le sabbie, c'erano anche altri sbandati, tra i quali due ragazzi di Cuneo, entusiasti ed affascinati come noi del luogo. Calato il sole, il ragazzetto viene a chiamarci con aria complice e ci comunica che proprio fuori dall'oasi si è accampato da due giorni un cosiddetto uomo blu del deserto, un'ottima occasione per una serata un po' particolare. Facciamo comprare carne di cammello per gli spiedini e con i due cuneesi al seguito, veniamo ricevuti dal predone del deserto che ci accoglie, dopo aver controllato la carne, con la proverbiale ospitalità touareg. Era un uomo non giovane, ma di aspetto severo avvolto in larghe vesti indigo di un blu accecante, la testa completamente avvolta in un gigantesco cheche che copriva anche parte del volto, la cui pelle scura era cotta dal sole e dalla sabbia del deserto. Se ne stava accoccolato nella sua grande tenda, su spessi tappeti, appoggiato a sacchi di mercanzia disposti in disordine dietro di lui. Veniva al mercato due volte all'anno per barattare sale con orzo, thé e altre cose preziose per chi come lui passava tanto tempo lontano dal mondo civile. Così tanto tempo e così lontano da rimanere stupito e sorpreso quando non spaventato da certa tecnologia, evidentemente a lui poco nota. 

La luna nell'oasi
Come non ricordare, tra un thé alla menta ed i dolci datteri freschi, il suo sbattere gli occhi, meravigliato, quando il nostro cuneese usò il suo accendino per fare il fuoco sotto gli spiedini; come se lo rigirava tra le mani continuando a fare scattare la fiamma, come un bimbo con un gioco appena scoperto, lasciandolo poi da parte, strumento diabolico in cui è male, forse, riporre fiducia. Che dire poi, quando si ritrasse terrorizzato, perché improvvidamente, incurante delle prescrizioni preventive della nostra piccola guida, estrassi la macchina fotografica, subito riposta; un evidente oggetto demoniaco. Dispensava inoltre frasi sagge, tradotteci in simultanea, come osservazioni sui meloni, dono di Hallah, dolci dentro ma ruvidi e brutti di fuori o sui datteri, dita di luce divina. Mentre la nostra cuneese guardava con espressione rapita il principe delle dune, il cui fascino selvaticodi certo smuoveva l'ormone, salutammo la compagnia, e ce ne filammo a letto. L'alba sulle dune è veramente un dono imperdibile; le sfumature infinite che iniziano col rosa leggero, per passare poi rapidamente tutti i toni dell'ocra, ti riscaldano dentro e ti rassicurano. Ed ecco arrivare i nostri cuneesi, lei, entusiasta, ci mostra un pugnale antico col manico d'argentone cesellato, che l'uomo blu ha loro ceduto dopo molte insistenze. Era di suo nonno, ma la necessità di nutrire le sue bestie lo avevano convinto a cederlo. 

Al mercato
Il poveretto, è chiaro, non conosceva il valore reale del danaro, ma era disposto solo al baratto ed il piccolo Mahmud li aveva aiutati, facendosi carico di cambiare i loro cento dollari con i dieci sacchi d'orzo di cui il pastore abbisognava. Gli occhi le brillavano ancora per l'emozione e li lasciammo per andare al mercato, ragione per cui eravamo venuti fin lì. Un luogo straordinario che ci riempì gli occhi dall'alba per lunghe ore fino a mezzodì quando, quasi terminate le contrattazioni, lo lasciammo ai pullman di turisti che arrivavano da Agadir per perderci tra alcune bancarelle di souvenir. Una di queste era completamente ricoperta di pugnali identici a quello del nostro ospite, disponibili a un dollaro e cinquanta (ancora da trattare però). Ridacchiando, improvvidi scettici relativisti, ci dirigemmo verso un piccolo ristorante dove, per quegli strani casi del destino, trovammo i nostri due amici, con un diavolo per capello. Avevano certamente visto la bancarella e truffati ma non domi, erano subito corsi alla locale stazione di polizia, dove avevano raccontato il fatto. Pare che i gendarmi un po' assonnati abbiano esclamato: - Ma 'sto Hussein non vuol proprio capirla, ne ha bidonati altri due!- e caricatili sulla jeep, li abbiano riportati all'accampamento dove, dopo una ramanzina e con promessa di non farlo più, il nostro magnifico guitto, restituì il maltolto. Un sogno distrutto da una improvvida bancarella, sciolto nell'acido del buon senso e dello scetticismo. Cento dollari in più in tasca ma una emozione in polvere. Eppure l'anima si nutre di sogni; che pugnalata, è davvero il caso di dirlo, che occasione perduta, che peccato!

Trattativa

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venerdì 13 maggio 2016

Timbuctu 52 giorni

Marocco - Valle del Dra - agosto 1984

Scommetto che anche le mie fan più appassionate faticheranno a riconoscermi in questo bel pivello di 32 anni fa (ed altrettanti chili fa). Beh il cappellino è rimasto lo stesso anche adesso, assieme allo sguardo perso nel vuoto e un po' assente, segno di intelligenza scarna anche se essenziale. Insomma un ometto del deserto che sognava Timbuctù e la sua famosa biblioteca in cui scoprire la poetica di Aristotele tradotta da qualche sufi arabo dell'X secolo, insomma un sogno per mettere in crisi il mio concittadino che solo 4 anni prima aveva pubblicato Il nome della rosa. Il deserto mi aveva sempre attratto morbosamente ed in seguito avrei avuto modo di calcarne altri, ma questo, il più grande e smisurato del mondo, divenne presto terreno via via più difficile e impervio fino a diventare impossibile. Chissà se mai potrò avere un'altra opportunità? Quelle dune immense, a volte rosse o gialle o grigie o ancora di altri mille colori e sfumature, un Pantone che il muoversi del sole rende così ricco e infinito da apparire ingannevole. 

Quelle tende nere vicino ad un palmizio rado e spelacchiato, con uomini schivi seduti attorno ad un fuoco a bere thè alla menta. Come si muove in fretta il mondo. Timbuctù regina delle sabbie, regno irraggiungibile con quei 52 giorni trasformati in un mai esistenziale, fatto di violenze e di soprusi in nome di Dio, come mi sei mancata in questi anni. Un ragazzino di forse dieci anni, Jussuf, spuntato dal palmeto alle mie spalle, con in mano una manciata di datteri freschi enormi, zucchero fatto frutto per il ristoro del passeggere, mi indicava la strada, lì dove lo strettissimo pezzo di asfalto era finito, che si inoltrava sinuosa tra le dune ancora basse in fondo alla periferia del paese per perdersi dietro una duna immensa giallo ocra, dalla cresta ondulata e gentile, invitante come una sirena che ti chiama a perderti dentro di lei. Chissà cosa è diventato oggi che avrà più di quaranta anni, una vittima, un carnefice, un uomo in fuga alla ricerca di una vita migliore o un grasso spettatore della ruota che gira, seduto all'ombra corta della casa di terra bianca, tenendo tra le mani datteri ancora uguali a quelli che teneva suo nonno e il nonno di lui, di certo meno saporiti di quelli della sua infanzia. Qualcuno mi sa dire se c'è ancora questo cartello a Zagora, lo spartiacque tra case e deserto, limine estremo dell'avamposto della vita?


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mercoledì 28 gennaio 2009

Una pugnalata emotiva


Goulimine è l'ultimo avamposto del sud marocchino dove sia consentito arrivare con i propri mezzi senza sconfinare in territorio Saharoui. Qui si svolge ogni domenica il più importante mercato di cammelli dell'Africa. Vi convergono a migliaia, touareg con i mantelli blu, Saharoui con grandi turbanti bianchi avvolti attorno al capo, commercianti marocchini con camioncini malandati e qualche turista di lungo corso che ama perdersi tra le mandrie e i sensali. Sembra di stare al mercato di Alba vestiti da carnevale. Stessi gesti, stesse pacche sulle spalle, stesse strette di mano, solo i cammelli hanno un'aria distaccata, superiore, ma loro sono gli unici esseri viventi a conoscere il centesimo nome di Hallah e quindi se la possono permettere. Giudiziosamente eravamo arrivati il giorno prima, rimanendo subito preda di un ragazzino che ci aveva convinti ad andare a parcheggiare il nostro camper nell'oasi della sua famiglia a qualche kilometro dal paese. Ne valeva la pena; sotto un gruppo di palme ci si poteva godere uno spettacolare tramonto sulle dune, prima dorate e poi rosse, infine nere, del grande erg occidentale. Tra le palme c'erano anche altri sbandati, tra i quali due ragazzi di Cuneo, entusiasti ed affascinati come noi del luogo. Calato il sole, il ragazzetto viene a chiamarci con aria complice e ci comunica che proprio fuori dall'oasi si è accampato da due giorni un cosiddetto uomo blu del deserto, un'ottima occasione per una serata un po' particolare. Facciamo comprare carne di cammello per gli spiedini e con i due cuneesi al seguito, veniamo ricevuti dal predone del deserto che ci accoglie, dopo aver controllato la carne, con la proverbiale ospitalità touareg. Era un uomo non giovane, ma di aspetto severo avvolto in larghe vesti indigo di un blu accecante, la testa completamente avvolta in un gigantesco cheche che copriva anche parte del volto la cui pelle scura era cotta dal sole e dalla sabbia del deserto. Se ne stava accoccolato nella sua grande tenda, su spessi tappeti, appoggiato a sacchi di mercanzia disposti in disordine dietro di lui. Veniva al mercato due volte all'anno per barattare sale con orzo, thé e altre cose preziose per chi come lui passava tanto tempo lontano dal mondo civile. Così tanto tempo e così lontano da rimanere stupito e sorpreso quando non spaventato da certa tecnologia, evidentemente a lui poco nota. Come non ricordare, tra un thé alla menta e i dolci datteri freschi, il suo sbattere gli occhi, meravigliato, quando il nostro cuneese usò il suo accendino per fare il fuoco sotto gli spiedini; come se lo rigirava tra le mani continuando a fare scattare la fiamma, come un bimbo con un gioco appena scoperto, lasciandolo poi da parte, strumento diabolico in cui è male, forse, riporre fiducia. Che dire poi, quando si ritrasse terrorizzato, perchè improvvidamente, incurante delle prescrizioni preventive della nostra piccola guida, estrassi la macchina fotografica, subito riposta; un evidente oggetto demoniaco. Dispensava inoltre frasi sagge, tradotteci in simultanea, come osservazioni sui meloni, dono di Hallah, dolci dentro ma ruvidi e brutti di fuori o sui datteri, dita di luce divina. Mentre la nostra cuneese guardava con espressione rapita il principe delle dune, salutammo la compagnia, e ce ne filammo a letto. L'alba sulle dune è veramente un dono imperdibile; le sfumature infinite che iniziano col rosa leggero, per passare poi rapidamete tutti i toni dell'ocra, ti riscaldano dentro e ti rassicurano. Ed ecco arrivare i nostri cuneesi, lei, entusiasta, ci mostra un pugnale antico col manico d'argentone cesellato, che l'uomo blu ha loro ceduto dopo molte insistenze. Era di suo nonno, ma la necessità di nutrire le sue bestie lo avevano convinto a cederlo. Il poveretto non conosceva il valore del danaro, ma era disposto solo al baratto ed il piccolo Mahmud li aveva aiutati, facedosi carico di cambiare i loro cento dollari con i dieci sacchi d'orzo di cui il pastore abbisognava. Gli occhi le brillavano ancora per l'emozione e li lasciammo per andare al mercato, ragione per cui eravamo venuti fin lì. Un luogo straordinario che ci riempì gli occhi dall'alba per lunghe ore fino a mezzodì quando, quasi terminate le contrattazioni, lo lasciammo ai pulmann di turisti che arrivavano da Agadir per perderci tra alcune bancarelle di souvenir. Una di queste era completamente ricoperta di pugnali identici a quello del nostro ospite, disponibili a un dollaro e cinquanta (da trattare). Ridacchiando, improvvidi scettici relativisti, ci dirigemmo verso un piccolo ristorante dove trovammo i nostri due amici, con un diavolo per capello. Avevano certamente visto la bancarella e truffati ma non domi, erano subito corsi alla locale stazione di polizia, dove avevano raccontato il fatto. Pare che i gendarmi un po' assonnati abbiano esclamato: - Ma 'sto Hussein non vuol proprio capirla, ne ha bidonati altri due!- e caricatili sulla jeep, li riportarono all'accampamento dove, dopo una ramanzina e con promessa di non farlo più, il nostro magnifico guitto, restituì il maltolto. Un sogno distrutto da una improvvida bancarella, sciolto nell'acido del buon senso e dello scetticismo. Cento dollari in più in tasca ed una emozione in polvere. Eppure l'anima si nutre di sogni; che pugnalata, che occasione perduta, che peccato!

sabato 25 ottobre 2008

L'occasione

Il nostro camper piuttosto datato sbuffava lungo le rampe dell'Atlante per la strada tortuosa che portava ai 2.168 metri del passo di Tizi n'test. Avevamo lasciato da tre giorni la valle del Dra e l'avamposto di Zagora nel deserto, non prima di aver scattato la foto di rito sotto al cartello "Timbouctou 55 jours". Dopo tre ore di calore insopportabile, verso mezzogiorno (l'ora classica del turista maledetto), arrivammo in cima. Ci fermammo nella piazzola per far riposare il mezzo e per godere della vista spettacolare dei contrafforti aridi della montagna che scendevano rapidi verso Taroudant. Fummo subito circondati da un nugolo di ragazzini vocianti, il giusto pedaggio da pagare al privilegio di stare in quel posto magico. Uno in particolare ci trascinò alla sua bancarella, uno straccio steso per terra ricoperto di fossili di tutte le dimensioni e di geodi di ametista viola aperte. Ce n'erano di bellissime, enormi e Joussouf (così si chiamava) cominciò a magnificarne i pregi e soprattutto il prezzo particolarmente conveniente. Ne ero attratto, ma fatto acuto dai consigli che mi aveva dato il mio amico Tiziano, grande esperto di mineralogia, presi la bottiglia di acqua tiepidina con cui tentavo di calmare la sete (su quel camper non abbiamo mai avuto il piacere di avere acqua fresca da quel malefico frigo) e gli chiesi il permesso di lavare i cristalli della grande geode che mi interessava. Infatti, pare sia costume di questi birbi il colorare in viola dei quarzi di poco valore e spacciarli per ametiste. Il ragazzo preoccupatissimo, mi fermò immediatamente cercando di stornare la mia decisione in altre direzioni, poi vistomi deciso, se ne uscì con un impagabile: - Monsieur, je vous garantie que si vous la mettrez dans votre salon elle ne perdra pas sa couleur dans un million d'annéees.- Ridemmo a lungo poi gli comperai una trilobite e qualche piccola e lucida belemnite prima di lasciarci andare nella lunga discesa. Sono passati solo 25 anni e me ne sarebbero rimasti ancora più di 900.000 se avessi voluto mettere sulla mia scrivania quella geode per mantenere viva nella mia memoria il volto di quel ragazzo. Che occasione perduta.

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