mercoledì 30 settembre 2009
Proposta indecente.
martedì 29 settembre 2009
Cronache di Surakhis 20: discopatia.
lunedì 28 settembre 2009
Bianco gesso.
domenica 27 settembre 2009
Jūn shì
venerdì 25 settembre 2009
Per chi suona la campana.
giovedì 24 settembre 2009
I gradini di Palitana.
mercoledì 23 settembre 2009
Rosso betel.
martedì 22 settembre 2009
Yak e tori.
Se meditate un viaggio che abbia molti punti di interesse e magari anche diversi spunti di riflessione, vi consiglierei di progettare un paio di settimane (almeno) in Tibet. Non è difficile, con internet a disposizione, e se ci andate con mente aperta e senza preconcetti, cosa inusuale, ma almeno tentare è già positivo, si possono portare a casa riflessioni interessanti. Magari uno crede o è convinto di certe cose, poi, guardando con i propri occhi, ascoltando campane diverse, comincia a far lavorare il santo germe del dubbio che dovrebbe stare nella testa delle persone pensanti. Dare più spazio al relativismo e cercare di restringere quello delle certezze assolute. Magari partendo da osservazioni marginali, teoricamente di poca importanza. Ad esempio, uno degli animali più conosciuti ed ammirati della zona è lo yak (Bos grunniens mutus), tutti i turisti sono bramosi di toccare con mano questo magnifico animale che, puro tra le vette, sa vivere nella rarefazione dell'alta quota permettendo che la vità si svolga anche lassù. Come sempre, però le cose vanno interpretate e capite. Sì, popolava un tempo solitario gli altipiani dall'aria fine, ma era (ed è) animale stizzoso, per nulla docile all'aiuto dell'uomo con le sue bizze fastidiose e le sue bizzarrie continue. Ma verso il suo territorio, col tempo ci fu una continua infiltrazione di bovini (bos taurus), possiamo dire uno stillicidio di migrazione clandestina di animalacci dediti a faticare senza lamentarsi che, pur molto malvisti dai duri e puri, hanno cominciato a mescolarsi con gli aristocratici yak, dando luogo a sempre più frequenti incroci. Questi ultimi chiamati Dzo o Dzopkio, assai più resistenti e validi (probabilmente anche più intelligenti) che assommano i pregi di entrambe le razze, sono ormai la maggioranza assoluta sul territorio. E' un po' la storia del mulo, insomma. Forse qualche gruppo di yak ha cercato di contrastare questo andazzo, non gli andava certo di spartire il territorio con i nuovi venuti, sporchi di letame e incolti al massimo, che, tra l'altro, si sdraiavano dappertutto senza rispettare le tradizioni e le convenienze, se potevano si acchiappavano le femmine e muggivano anche in un modo del tutto incomprensibile, ma la storia compie inevitabile il suo corso ed è difficile opporsi. Inoltre gli yak, a suo tempo non avranno avuto neanche giornali o capi partito o non avranno potuto formare leghe o gruppi per opporsi al destino che incombeva inevitabile. Ma tant'è così sono andate le cose nel lontano Tibet. Tra l'altro, se ci andate, evitate di chiedere, come ho fatto io, informazioni agli abitanti, sul famoso burro di yak, che è un po' la bevanda nazionale. Infatti lo Yak è un nome riferito soltanto al maschio della specie, la femmina si chiama Dri, un po' come toro e vacca e chiedere del burro di yak ha un significato assolutamente disdicevole.
lunedì 21 settembre 2009
Bianco argento.
Io ci casco quasi sempre. Sono attratto con una certa morbosità dal lavoro dell'artigiano, di qualunque tipo esso sia, forse per l'invidia che provo verso chi ha capacità manuali, io che ho "les deux mains gauches", come diceva la mia zia Blanche di Parigi, forse per la bellezza dell'opera che nasce e cresce sotto i tuoi occhi, prende forma, ricopre l'idea di materia, sempre diversa, sempre unica anche nella sua ripetitività. Mi piace fermarmi a guardare il lavoro nelle piccole botteghe, spiare le donne turche che annodano un tappeto, i sarti indiani attaccati alle vecchie Singer che pedalano furiosi, gli intagliatori di legno duro di Ceylon che creano le loro piccole statue serene. Ricordo un tardo pomeriggio, in un piccolo vicolo di Surabaya a Giava, mentre il sole insanguinava il cielo dietro i vulcani lontani (porca miseria se sono melenso oggi!), un negozietto stretto e lungo pieno zeppo di lastrine di argentone sbalzate, con tanti scaffali lungo le pareti colme di bicchieri, scatole di ogni dimensione, quadri, da cui nella penombra emergeva il tuttotondo di figurine di dei, guerrieri, fanciulle a cantare di un'epopea antica, di fasti perduti. Con la scusa di guardare la merce mi attardai a lungo, sedendomi infine su un basso sgabello a tre gambe, proprio davanti al piccolo deschetto in fondo al negozio dove un rugoso vecchio picchiettava con un martelletto una lastrina quadrata. Pareva non vedermi e continuò il suo lavoro lento e costante. Dava piccoli colpi con una serie di chiodi dalle punte diverse e sotto le spinte si gonfiava una testina, un torace possente, le strie sinuose di una lunga chioma, due seni voluttuosi di una fanciulla. A poco a poco la lastrina si completò sotto i miei occhi, più volte voltata e rivoltata per precisare i contorni dello sbalzo. Quando giudicò finito il lavoro, alzò gli occhi con un lieve sorriso, guardò il lavoro con soddisfazione e me lo mostrò. Era una scena con il demone Ravana che rapisce Shita. Si poteva apprezzare, pur nelle piccole dimensioni, il viso spaventato della principessa, i muscoli gonfi del feroce assalitore in un equilibrio complessivo che riempiva completamente il piccolo quadrato lucido. Aveva gli occhi contenti il vecchio. Trattai poco, più per onor di firma che per far calare il prezzo. In fondo compravo un lavoro, un progetto, un opera, non un oggetto.
domenica 20 settembre 2009
I fiumi non ritornano.
Binhakbiá chét guyedll
lo'nhis'tao yalhanhe...
L’acqua dei fiumi non torna indietro,
e neppure le lacrime.
I fiumi si vanno consumando a poco a poco,
nelle fenditure del terreno, nei laghi,
usati nelle semine
o in mare aperto,
oppure semplicemente vengono asciugati dal tempo.
Non posso e non voglio aggiungere altro. A domani.
sabato 19 settembre 2009
The big brother.
venerdì 18 settembre 2009
Giallo granturco.
giovedì 17 settembre 2009
Sogno kazako.
mercoledì 16 settembre 2009
Elogio della tuttologia.
martedì 15 settembre 2009
All organic!
lunedì 14 settembre 2009
Fēi.
domenica 13 settembre 2009
Ricami rossi.
sabato 12 settembre 2009
Una lettura dei tarocchi.
venerdì 11 settembre 2009
Solo pasta e fagioli
martedì 8 settembre 2009
Fenomenologia dello gnocco.
Ci sono molti settori in cui le femmine amano cimentare la propria abilità per mettersi in discussione o in competizione. Quello che preferisco, per estetica ed etica o più semplicemente per inclinazione naturale, diranno i miei detrattori, è la cucina. Quindi niente di più logico che la bagarre si sia scatenata per tutta l’estate, anche nel nostro piccolo gruppo, microcosmo testimone di tendenza. Una dopo l’altra le nostre ragazze si sono scatenate per superarsi a colpi di piatti semplici o ricercati, sempre riuscendo a stupirci con tecnica, fantasia e qualità. L’ultima prova è toccata ancora a Carla che ha voluto esibirsi in una prova difficilissima nella sua semplicità. Il tema della serata è stato sua maestà lo gnocco. Esclusa proditoriamente la sua versione femminile che pure avrebbe suscitato entusiasmi quantomeno di facciata, verbali e per onor di firma, si era deciso che il candido ed all’apparenza umile grumo di pasta, sarebbe stato il protagonista unico ed assoluto della serata che non doveva essere turbata da altri motivi di distrazione per non sviare l’attenzione gustativa delle nostre stanche ma mai dome papille in religiosa attesa. Niente ordalia di antipasti dunque, per lasciare largo spazio alla cascata gioiosa che attendeva la bollitura dell’acqua, ma che piemontesi saremmo se non avessimo ceduto almeno a qualche fetta di sapido e stagionato salume nostrano e a due calde teglie di peperoni di Carmagnola ricoperte dall’abbraccio di una delicata bagna cauda. Sarebbe stata un’offesa alla tradizione e soprattutto il periodo stagionale lo richiedeva d’imperio. Ma solo un tocco e poi via a calare con cautela, a piccole falangi per non affastellarli troppo al primo bollore, le prime tranche di gnocchi delicatamente sporcati di farina per non farli attaccare tra di loro, chè anche se amici, non devono stringersi troppo, avvinti in un abbraccio che li danneggerebbe irreparabilmente, lasciandoli ad un a uno separati, al nostro affetto interessato. Erano stati, già dalla mattina, preparati con cura ed amorevolmente l’impasto trattato ed i lunghi cilindretti formati e stirati rivoltolandoli sulla tavola prima del taglio cadenzato che ne aveva dato la forma definitiva, piccolissima come si confà alla grande qualità, prima del tocco fatale della forchetta a formarne l’aspetto finale, con le quattro unghiate dei rebbi e la dolce concavità resa così più atta a sposarsi col sugo alla quale saranno destinati. Già, l’impasto, qui sta il segreto, a cominciare dalla patata utilizzata, la Desirée, una varietà a buccia rossa e a pasta tra il bianco e il giallo, compatta ma tenera, coltivata dall’amico René sopra i mille metri, che si sa, con la montagna il gusto ci guadagna come recitava uno slogan famoso. La qualità della patata è fondamentale nello gnocco, così come lo è la giusta proporzione di acqua e farina, ovviamente segreta, perché il risultato finale deve essere dominato dalla assoluta leggerezza, da una aerea levità che sola eviterà l’intozzamento dovuto alla quantità e alle difficoltà sgradevoli della pesantezza postprandiale. E come create da mani angeliche sono state le schiere di piccole pallottole che a poco a poco emergevano dal bollore galleggiando felici come a dire, forza pescateci che siamo pronti. E la schiumarola cominciò a svolgere il suo impegnativo compito per formare i piatti attesi con ansia. Una prima ondata attese l’abbraccio di un saporoso ragù di carne che da tempo a fiamma bassissima scaldava le polveri sopra altro fuoco, seguita da altre ondate senza tregua per spossare le truppe e renderle idonee all’attacco finale, di ulteriori piccoli cumuli ricoperti da un’onda di bianca e marezzata crema al gorgonzola. Naturalmente sul tutto, parmigiano come se piovesse. Un rosso maghrebino di grande interesse col ragù ed un altrettanto intrigante Chateau del Luberon, con il gorgonzola, hanno bagnato le gole aiutando la sequenza dei piatti. Di colpo siamo crollati senza avere la forza di contare il numero di piatti che con astuzia i nostri anfitrioni preparavano piccoli ed innocenti, come il successivo non potesse in alcun modo ingombrare più di tanto lo spazio già occupato dai precedenti. Poco onore abbiamo così potuto fare al pur leggerissimo tiramisù e alle pesche ricoperte di gelato che come si sa disnausia e che ha concluso le nostre fatiche. Grande gnoccata, ma bisogna farsi forza che l’estate sta per finire e domani sera ci attende una ulteriore e difficile prova: la pasta e fagioli, di cui se ce la farò, vi darò conto nei prossimi giorni.
lunedì 7 settembre 2009
Luberon 3.
Un’altra mattina luminosa, come lo è la luce della Provenza, che ti piega l’occhio e ti apre il cuore, che conquistava gli artisti di fine ottocento, richiamandoli qui ammaliati da questa luminosità che avvolge tutto, che scalda, che rasserena. Un salto al vicino museo dell’olio a vedere un gigantesco torchio di quattro secoli fa da sette tonnellate, in un luogo che ha spremuto olive senza soste per duemila anni, però questi romani che tecnici! Poi un giro tra le stradine semideserte di Goult, prima di una sosta un po’ più attenta a Carpentras. L’idea è di lasciare alle spalle il Luberon e prima di cominciare a macinare la strada verso casa, vedere le rovine di La romaine e Nyon, ma ad un bivio, l’insegna è irresistibile: Mont Ventoux – KM 21, con un gran negozio che affitta biciclette da corsa sull’angolo. Ovviamente non degniamo di uno sguardo il negozio, ma la decisione è già presa e il volante gira verso questa meta mitica. Non è facile farsi strada tra le frotte di ciclisti che arrancano lungo la salita con una pendenza media dell’11%. Dappertutto, vistosi cartelli intimano agli automobilisti, considerati un po’ intrusi da queste parti, di fare spazio alle due ruote ed in effetti siamo noi quelli fuori posto. La strada sale costante in una foresta densa e corposa, i tratti rettilinei sono lunghi a sufficienza da farti considerare la fatica immensa ed innaturale che serve a raggiungere la curva lontana e appena dopo il successivo tratto e poi ancora un altro, sempre così lontani dalla fine della fatica. Chi sale non ha tempo né voglia di godere del paesaggio stupendo che scorre piano ai lati, solo la sofferenza è compagna nella salita; si vedono gruppi di amici che cominciano a pedalare sicuri sulla sella, ma subito l’amicizia finisce e il gruppo si sfilaccia, ognuno sale con le sue forze, solo di fronte alla fatica con il suo ritmo o almeno con quello che crede di poter sostenere e poi magari ti tradisce a metà percorso. Coppie partono sorridenti, poi vedi che lei comincia subito ad arrancare e lui sale con piglio deciso, chi si ferma è perduto, non c’è pietà per chi rimane indietro. Tipi diversi, ma uguali nella determinazione, fanciulle decisamente steatopigie che salgono determinate e per contro maschiacci segaligni, magari con aiutino, che ansimano disperati per aver sopravvalutato le proprie forze, sul punto di cedere. A cinque kilometri dalla vetta superiamo un attempato signore in piena cotta, testa infossata, sguardo spento, le gambe che girano meccanicamente, la bici che zigzaga pericolosamente, ma niente, si va avanti, non si molla. Capisci cosa è la passione. Nell’ultimo tratto la foresta si dirada e poi finisce per lasciare spazio alla pietraia bianca, la testa pelata del monte spietato spazzata da vento, teso e gelido. La vista sulla pianura e strepitosa, ma nelle ultime centinaia di metri, la nebbia avvolge pastosa la cima e si arriva sulla piazzola celebrata e desiderata, dove il povero Simpson, ancora non presenti EPO e CERA, crollò stroncato da quello che si prendeva allora pur di arrivare primi. Gente che arriva alla spicciolata, gli amici si ritrovano, i gruppetti si ricompongono, le coppie si riuniscono e si baciano, c’è qualcuno che ha le lacrime agli occhi, è la gioia di avercela fatta, di avere compiuto l’impresa, di avere vinto la montagna, il mostro, forse quello che sta dentro di ognuno di noi. Le foto si sprecano. Un solitario cerca qualcuno che gli faccia la foto sotto la palina celebre, che testimoni ai posteri che ce l’ha fatta. Lo accontento, poi, il diavoletto fa capolino e non resisto, gli chiedo in prestito la bici e la foto me la faccio fare anch’io, non si sa mai. Una signora, mi guarda storto, scrolla il dito indice e mi apostrofa: “Eh,Eh, tricheur!”.
venerdì 4 settembre 2009
Luberon 2.
Hai la sensazione che sia una giornata piacevole appena ti alzi e vai a fare colazione nella vecchia salle à manger della antica casa di famiglia dove abbiamo dormito. Mobili di un passato notabile, poltroncine decorate al piccolo punto, una tovaglia e tovaglioli ricamati a mano su una tavola imbandita solo per noi due. Caffettiera e lattiera d’argento, coltellino per il burro col manico d’avorio ingiallito dal tempo, croissant caldi e spremuta d’arancia, torta e marmellate fatte in casa, frutta lucida in una elegante alzata provenzale. Sei già di buon umore al mattino presto, saluti gli anziani proprietari sorridenti e dal belvedere di Saignon ti si apre davanti tutta la pianura, il Luberon alle spalle, lontano la calva cima del Mont Ventoux, una promessa per il giorno successivo. Dopo il mercatino di Apt, ricco di prodotti locali, dal miele di lavanda, alle confetture e ai formaggi di capra, ancora paesini, Bonnieux arroccato sul colle col museo della Boulangerie e gran vista sulla foresta dei cedri, tralasciando Lacoste nota non per le magliette, ma per il castello di DeSade che domina il paese dall’alto, poi Ménerbes, con la place de l’horloge e l’originale museo del Tire-bouchon. Ma com’è che questi francesi riescono a valorizzare qualunque piccola cosa, impreziosendola, raccontandoti una storia, vendendoti un’idea. La gente ci viene, paga 4 euro per vedere un po’ di cavatappi e poi compra sei bottiglie di vino e se ne va a casa contenta, qui non riesci neanche a far pagare un euro a uno che da piazza San Marco guarda il Canal Grande. Pochi kilometri e sei a Oppede-le-Vieux, straordinaria cittadina già centro romano e poi medioevale (parcheggio 3 euro, tanto per capirci). Una dura salita ti porta fino in cima attraverso le rovine della città, fino alla chiesa ed al castello per una vista folgorante tra le pietre avvolte dalla vegetazione. Che periodo strepitoso quello della Provenza dell’età romana. Città aperte lungo le grandi vie che portavano genti e commerci in ogni parte dell’impero senza preclusioni. Già ti vedi carri di vino e olio che percorrono le strade lastricate, passano grandi ponti a schiena d’asino, sotto gli immensi archi degli acquedotti; gente che lavora, che parla la loro lingua ed una lingua franca comune, aperta al nuovo e all’esperienza. Che popolo, ‘sti romani; costruttori e ingegneri, pragmatici, pronti ad inglobare lo straniero e farne proprie le sue esperienze; forse poca cultura, ma aperti a tutte le culture, alle idee nuove; bastava che non rompessi molto le scatole accettando il sistema e poi via libera; direi una mentalità un po’ cinese, non vi sembra? Forse è così che si conquista il mondo. Sta di fatto che poi il tempo è passato, le città si sono chiuse al nuovo e avviluppate su sé stesse, si sono arroccate, ritirate sui colli, cinte di mura, serrate dalla paura e dal timore, diminuiti i commerci, fermato il movimento delle idee, bloccate sotto il ferro di tanti piccoli signorotti locali. Un medioevo delle menti tra il terrore dello straniero e l’odio per il mercante che vengono a portare via la ricchezza sudata, razziandola o peggio comprandola. Agli uni ti puoi opporre con le falci e i forconi ricacciandoli in mare, agli altri no, qualcuno cederà comunque alla vile moneta. Ancora piccole strade di campagna, ancora il villaggio delle Bories, costruzioni in pietra alla moda dei trulli, testimoni di un passato duro succeduto alla gloria romana e Gordes, dalle stradine ripidissime che si precipitano lungo le mura. Infine Roussillon circondato da una falesia di rocce gialle e rosse di ocra. Una passeggiata in un cañon dai colori americani illuminati dal sole che fatica a concludere la giornata. Siamo finiti a dormire in un paesetto di quattro case attorno ad una chiesa del 1100, con un alberghetto con tre camere. Il ristorante sarebbe stato chiuso, ma la signora ci ha fatto ugualmente per cena una kisch di gourgettes e anatra alla provenzale con un bicchiere di rosato locale. Non voleva che restassimo senza cena.
giovedì 3 settembre 2009
Luberon
D’accordo, mi sono assentato qualche giorno. Ma non è per pigrizia innata, ma perché mi sono ritagliato una piccola vacanza nella vacanza estiva (che è parte della vacanza globale annuale). Tre giorni bighellonando senza meta nel Parco del Luberon in Alta Provenza. E’ il tipo di vacanza che preferisco, un po’ di informazioni prese a priori e poi via decidendo di volta in volta secondo quanto ti propone la strada. La meta di un viaggio non deve essere altro che uno stimolo a partire. Anche per questo amo molto la Francia, per la dolce tranquillità che ti sa proporre, qualunque sia la zona che ti accoglierà. Così di buon mattino, abbiamo lasciato la val Chisone ancora immersa nel sonno del giusto delle nove del mattino, con i bar ancora chiusi, chè ormai a settembre i turisti se ne sono già tornati tutti a lavorare e dopo poco abbiamo gustato il primo croissant in terra francese, lasciandoci andare dopo Briançon lungo la piacevole valle della Durance, un nastro verde azzurro chiaro che scorre in basso quasi rettilineo, dopo il lago di Embrun, le alture di Gap e la rocca di Sisteron, resistendo alla voglia di fermarci per dare un’occhiata dall’alto, al suono di versi di antichi poeti provenzali. Così, nel primo pomeriggio, già la luce forte del sud ed il frinire delle cicale facevano da contesto alle foreste del Luberon, una zona di rara gradevolezza. Di villaggio in villaggio, vedi antiche chiese, abbazie quasi deserte, vecchi borghi all’apparenza abbandonati ed invece curatissimi in ogni casa, balconi fioriti, angoli valorizzati anche se il loro interesse storico o estetico è relativo. Si segue l’antica via Domizia, lungo la quale la pax romana, già nel primo secolo aveva dato una svolta decisiva. Si passa da Céreste con l’antico castello e poi Granbois arroccato sulla collina , La Tour d’Aigues con gli imponenti ruderi di un castello rinascimentale all’italiana e Ansouis, dove non potrete rinunciare alla visita di un maniero appena acquistato da una ricca famiglia marsigliese che lo sta riempiendo di mobili d’epoca con un restauro accurato. Ancora la chiesa di Cucuron con il suo Cristo seduto in legno e Lourmarin dove lungo le stradine piene di atelier di artisti e di gallerie d’arte, ci si ferma a uno dei numerosi caffè a lasciar passare il tempo. Sullo sfondo il massiccio del Luberon e le sue foreste di querce a nord e di conifere marine a sud che si attraversano continuamente nello spostarsi da un borgo all’altro, fino a Sivergues nel suo cuore silenzioso e selvaggio come lo definisce Henri Bosco, luogo romito di poche case dove cercarono rifugio numerosi valdesi, altro contatto con le nostre valli. Mentre il sole scendeva a poco a poco dietro la montagna, ci siamo infine fermati a Saignon, un paesetto su un promontorio roccioso, assolutamente delizioso, dormendo in una antica casa affacciata sulla centrale Place de la Fontaine con l’unico rumore dell’acqua che scorreva dalle sue antiche cannule. Un vicino ristorantino ci ha sedato l’appetito con provenzali tartine di tapenade di olive, bocconcini di chèvre, brochettes e una sontuosa tartare con molte salsine e uovo crudo. Una tarte tatin tradizionale o a scelta una ancora più classica mousse au chocolat con succo di lamponi ci ha portato verso il sonno dei giusti.