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giovedì 9 dicembre 2010

Peccati di gola.

Forse è vero. Ero un ghiottone già da bambino. Eppure è strano, perché il mio entourage familiare non aveva questa tendenza di base. La mia mamma era una pessima cuoca, soprattutto di grande monotonia e la prima volta che gli amici mi hanno portato a mangiar fuori avrò avuto almeno 18 anni. Deve essere qualcosa di genetico, che rimane lì latente, nei meandri segreti delle tue cellule in attesa di uscire allo scoperto, un marchio di Satana che affiora sulla pelle come un tatuaggio magico e ti indica per sempre appartenente ad una congrega indicata, chissà perché, in modo negativo. Come tutti i maniaci compulsivi, tutti si tende, dapprima a negare, poi, presi con le mani nel sacco, per dire, o con l'organo interessato in piena azione, anche se sarebbe saggio continuare nella negazione, si fanno mezze ammissioni, ma si tenta di giustificare, di scusare, di addurre motivazioni a discolpa. Non so bene.

Sta di fatto che ero in effetti un bambino grassoccio che solo l'occhio torbido e la scapigliatura del ventenne trasformarono lentamente in individuo di qualche interesse (ahahahahaah, questa è proprio da ridere). Però, per scavare nel passato alla ricerca di una spiegazione, come farebbe un bravo psicoterapeuta per guarirti dei tuoi mali oscuri, quando sarebbe più producente mostrarti, senza parole i tuoi indici di glicemia, se risalgo a quei primi anni di vita, mi rivedo passeggiare accompagnato per mano dalla mamma, per le vie di una Alessandria più vivace e non come oggi precipitata attorno al 55esimo posto per qualità di vita (ultima delle città del centro nord, buon risultato eh?). Le vie del centro erano piuttosto popolate, non tappezzate di negozi chiusi come ora e il passeggio affollato nel pomeriggio. Uno dei riti obbligatori era, dopo la passeggiata, ben vestiti e coperti, ché allora faceva un freddo cane, mica come adesso che il pianeta si è riscaldato, passare in fondo a Via della Vittoria e comprare un cartoccetto di farinata (l'oro del basso alessandrino).

Indimenticabile la sensazione di uscire dal negozietto dello Sporcaccione (così è stato conosciuto per anni ed ora che se ne è andato a far pizze al tegamino e bellecalda in un altro mondo, i vecchi alessandrini ancora lo rimpiangono) tenendo in una mano il pacchetto semiaperto di carta bianca unta e con l'altra estrarne la fettona bollente sempre troppo grande per la mia boccuccia di bimbo, mentre camminavi frettoloso lungo i marciapiedi. La mano scottava, forse per ricordarti l'inferno, castigo del peccato che stavi consumando, eppure ingordamente addentavi quella delizia mordicchiando avido la fetta e palleggiando in bocca il bolo troppo caldo per le tenere mucose. Che piacere goloso! Allora, innocente, non ne conoscevo altro. Un giorno andavamo veloci verso Piazza della Libertà; io, come i lupacchiotti davanti alla preda fornita da mamma lupa, inghiottivo avidamente la fetta, la cui untuosità mi stimolava delicata, le papille, con gli occhi semichiusi dal piacere o forse dal vento gelido che spazzava le vie grige di quell'inverno nevoso. D'un tratto, come sorta dall'inferno mi si parò dinnanzi una figura che, a me piccino, parve subito enorme e nera, minacciosa come solo sanno essere gli angeli vendicatori. Mi sbarrò il passo vindice e mentre io, basito ed immobile, con il boccone rimasto nella strozza che non andava più né su, né giù, volsi lo sguardo in alto verso quel tizio, con aria più che altro interrogativa.

L'omone mi indicò con il dito dall'intento giaculatorio, poi, come colto da ispirazione divina, lanciò il suo strale, che, evidentemente si prefiggeva essere di monito didascalico. - Non di solo pane vive l'uomo!- esclamò con voce stentorea. Poi, lasciato nell'aria il suo insegnamento morale, evidentemente tronfio e felice di avere dato argomenti di meditazione a quella sgangherata gioventù che di lì a pochi anni avrebbe segnato il secolo con un graffio ribelle, scomparì alla vista come un fantasma di mezzanotte, un ectoplasma evangelico avvolto in un nero tabarro, forse solo avvertito e sognato da una coscienza evidentemente già preveggente delle proprie future colpe e disagi. Mi girai interrogativo verso mia mamma e, cercando conforto le dissi: - Ma questa è farinata, mica pane!- Lei scrollò le spalle incurante dei dubbi del suo rampollo che, dopo quell'imprinting, ormai avrebbe portato per la vita le stigmate di altre golosità.







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Allegria!

lunedì 28 settembre 2009

Bianco gesso.

C'è una grande diatriba sul gap qualitativo tra la scuola, gli studenti e gli insegnanti odierni e quelli di un tempo, pre-68, tanto per intenderci. Si filosofeggia molto su cause ed effetti, si notano voragini di ignoranza e così via. Poi nella realtà di tutti i giorni, mentre siamo qui a commentare le nuove classi di Merystar con 41 allievi, come a Novi Ligure, i nostri ragazzi, che in fantomatici test, studiati da chissà quali teste aguzze, arrivano sempre dopo quelli del Burundi, vanno all'estero a studiare o a lavorare e sbancano quasi sempre il cucuzzaro, sono tra i più graditi ed apprezzati e ci fanno fare dei gran figuroni. Chissà com'è la realtà vera. Io, a causa dell'anagrafe, posso solo ricordarmi degli episodi, non so se significativi, ma certo quantomeno curiosi. Ho preparato diversi esami universitari con un caro amico, poi, com'era consuetudine allora, si andava a sentire gli esami degli altri, da cui si sperava di trarre utili indicazioni sulle manie ed inclinazione del professore ed altre malizie; adesso non si può più, giacchè gli esami sono tutti scritti e di fronte ad un foglio anonimo; passa anche la poesia e manca lo stimolo del combattimento verbale, la lotta corpo a corpo per sgusciare dalla presa della domanda ignorata e la ricerca di una posizione favorevole sull'argomento conosciuto su cui assestare il colpo fatale. Comunque quella mattina, grigia come tutte le sessioni autunnali, eravamo pochi nella piccola aula di chimica dove si svolgeva l'esame di organica. Un cubo vuoto dalle pareti sporche, con il fondale di lavagne a scorrimento, coi gessetti che stridevano sulla superficie rosa dall'uso ed i cancellini di feltro che da eoni non erano stati sbattuti e diffondevano nell'aria un tenue polverino bianco. In fondo all'aula un gruppetto di giovanotti in giacca a e cravatta, tremebondi gli uni, gli esaminandi, un po' più rilassati ma preoccupati per il futuro gli altri, gli auditori. Alla cattedra, vicino a due stanchi e svogliati assistenti, il pimpante professore di chimica, un toscano dalla parola facile ed aggressiva. Il mio amico viene dunque chiamato, consegna il libretto ad uno di due scherani che comincia a consultarne i voti; un tempo questa era la fregatura se eri uno studente mediocre, mentre se acchiappavi qualche trenta all'inizio, tutto era in discesa e si dispone quasi sull'attenti ad affrontare il fuoco nemico. Il prof si alzò e vergò con cura una formula sulla lavagna e chiese se l'esaminando sapesse riconoscere il composto. Lo sguardo dubbioso e confuso di E. ondivagò sulla nera superficie, cominciando a scorrere lungo la catena dei tre atomi di carbonio come sgranando le palline di un rosario di duro diaspro, alla ricerca di un qualche appiglio per non esser affondato al primo colpo. Allora si usava così. Dentro o fuori. Tra lo sguardo pensoso, mentre gli occhi umidi ruotavano qua e là alla disperata ricerca di aiuto, il cerbero, forse si commosse e se ne uscì con la battuta che per certo aveva lungamente studiato e che, certo, riteneva spiritosissima. "Dunque, vedo che non è molto preparato, ma visto che questa mattina è il primo, voglio proprio aiutarla. Se lei ha un insalatone, con cosa lo condisce? Con l'olione e con.....con.... su forza che è facile" . Uno sguardo di gratitudine affiorò immediatamente nell'occhio disperato del mio socio che si affrettò ad afferrare quella insperata ciambella di salvataggio e se ne uscì pronto e candido: " Con il limone". L'occhio del prof si vetrificò e il viso divenne d'un tratto paonazzo, poi con furia afferrò il libretto dal tavolo e lo scagliò contro il malcapitato, urlando :"Se ne vada!" Anche la polvere di gesso rimase per un attimo ferma a mezz'aria, congelando quel momento topico, che rimase a lungo nella storia della facoltà. Ma forse erano altri tempi.

lunedì 25 maggio 2009

Vivere in comunità.


Dai cassetti di Feisbuc, saltano fuori cose come queste. Nei nostri vent'anni i ragazzi andavano in giro in giacca e cravatta, ma erano più o meno minchioni come quelli di oggi. In attesa di un radioso futuro, vivevamo in un appartamento di via Ormea in quattro, ma con gli amici che giravano da quelle parti eravamo sempre in tanti. Si usciva poco e la maggior parte del tempo si passava a cazzeggiare in discussioni infinite ,su argomenti di grande leggerezza. Ore, quando non notti, passate a disputare su calcoli improbabili, come in quanto tempo una mucca avrebbe riempito di cacca una piscina olimpionica. Eravamo tutti portati per inclinazione e per gli studi in corso ai ragionamenti scientifici. Stranamente, dati gli anni, non si parlava quasi di politica. Nessuno andava a Palazzo Campana (ora Palazzo Nuovo) ed i cortei di protesta arrivavano sfilacciati fino alle facoltà scientifiche. In genere si esaurivano a Medicina. Ad agraria, il palazzo successivo ed ultimo della serie delle facoltà, in via Giuria, non arrivava mai nessuno. La contestazione era attutita. Ma nell'appartamento c'era comunque grande vivacità retorica. Le discussioni infinite. Si leggeva il Mondo di Pannunzio, mentre la letteratura era limitata alla serie di Urania, un cult del periodo. Praticamente non si studiava mai, in quattro in tre stanze più gli amici, non c'era neanche lo spazio fisico, non considerando il tempo. Tra le lezioni al mattino, qualcuna al pomeriggio, la cucina e gli indesiderati ed odiosi turni di lavaggio piatti, le interminabili discussioni serali, non c'era materialmente il tempo. Eppure ci siamo laureati tutti, quelli della foto, e non è che allora te le tirassero dietro le lauree, non so come sia stato possibile. Una delle cose che non era sottoposta ai turni era il portare giù i sacchetti dell'immondizia; probabilmente si era valutato che, siccome tutti prima o poi scendevano, non sarebbe stato un problema lo smaltimento del materiale. Una vera e propria falla del sistema. Chissà perchè, nessuno si ricordava di uscire con il sacchetto al seguito. Così le buste piene si accumulavano a poco a poco sul balcone; evidentemente contavamo che il gelido inverno torinese bloccasse gli effluvi ed anche il probabile percolato, ma quando inevitabilmente il gelo si mutava in fresca brezza primaverile certi problemi non potevano più essere rimandati a lungo. Seguivano quindi lunghe discussioni su chi dovesse farsi carico dello smaltimento, credo calcolando con il regolo, le diverse quantità relative prodotte dai singoli. La capacità retorica di tutti (eppure nessuno sarebbe diventato avvocato) produsse un tragico impasse da cui sembrava impossibile uscire, quando la soluzione del problema venne inaspettatamente dai signori del piano di sotto, (come mi ricorda Diego) i mitici coniugi Collo, lui ragazzo del '99, capocasa e addetto alla "caloria" cioè a controllare il carico di carbone per la stagione e fare le divisioni per appartamento, che, pur fiaccati ma non domi, per le nostre lunghe nottate di discussioni, vennero a pregarci, con molta cortesia torinese, a voce bassa e gentile, che se avessimo potuto liberare il balcone dalla massa semiputrefatta, tutto il vicinato ci sarebbe stato grato. Così, vergognosi, calammo il tutto velocemente come una squadra di disinfestazione e rientrammo nel consorzio civile. Che comunque, all'interno della casa, aveva sempre un andamento particolare; come quando uno degli abitanti, sorpreso ad usare un altrui asciugamano per asciugarsi le parti meno nobili del corpo, investì il proprietario, che iniziava una serie interminabile di giaculatorie, con la famosa frase "Se sei schizzinoso, stai a casa" , zittendo così definitivamente il maldestro tentativo di difesa della proprietà. Il destino delle comuni cominciava a mostrare le prime incrinature.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 121 (a seconda dei calcoli) su 250!