sabato 5 novembre 2011

Il villaggio Peul.

La macchina corre a fatica nella brousse. Si fa largo un poco tra l'erba alta, un poco aggirando le fosse di sabbia e di terreno più morbido per non incagliarsi. Il motore asfittico ansima quando prima del dosso, Moussa cerca di dare un po' della potenza che non possiede più. Di tanto in tanto un piccolo carretto trainato da un cavallino piccolo e magro, percorre il sentiero in senso inverso col suo carico umano, generalmente una famiglia al completo che va al mercato di Mbour. Ancora qualche faticoso chilometro in questa pista contorta, poi al di là di una grande pozza fangosa, residuo delle piogge di ottobre, un gruppetto di capanne emerge tra i cespugli. Indovini i tettucci conici coperti di paglia seminascosti dai rami ormai secchi, disposte a raggiera attorno ad un grande albero. La pista finisce nelllo spiazzo al centro del villaggio semideserto. Gli uomini sono in giro col bestiame, i grandi zebù bianchi che di tanto in tanto si vedono all'orizzonte. Le donne vanno al mercato. Sono Peul, una etnia di pastori che arriva dal sud del Mali, spinti ancora più a sud dall'avanzare del deserto e dalle difficoltà di vita. 

Alti, magri, più chiari dei Wolof e dai lineamenti bellissimi, sono nomadi orgogliosi e restii a farsi omologare nelle periferie disumanizzate delle megalopoli africane della costa. Un piccolo gruppo di ragazze è seduto sotto il grande albero, intente alla cura della propria persona. Le piccole annodano le treccine alle più grandi con cura maniacale. Distribuiamo un po' di cose comprate al negozietto del paese vicino e i sorrisi si allargano. I bimbi si affastellano attorno al display della macchina fotografica  per guardarsi e riconoscersi ridendo. Una bimba mi prende per mano e mi porta a vedere la sua capanna, spoglia se pur fresca, dalle pareti in terra cruda. Su dei sostegni le bacinelle e gli strumenti per la mungitura e la cagliata per fare inacidire il latte, loro nutrimento basico. Usciamo dal villaggio accompagnati da una donna con una bimba nata da poco appesa alla schiena che dorme placida. Sale con noi, le daremo un passaggio fino al mercato. Si chiama Ily, ed è molto curiosa. Il mento tatuato le trema un poco ridendo, di noi credo, così pallidi e dai lineamenti così brutti, secondo la logica Peul. Non parliamo poi di chi è in sovrappeso. La bellezza, il fisico asciutto e slanciato, è una parte molto importante nella loro cultura. La sua ricerca riveste una predominanza fondamentale rispetto ad altre cose, come la convenienza economica. 

Tra un gruppo di immensi baobab, una piccola mandria di zebù pascola tranquilla l'erba scarsa tra la sabbia. In piedi all'ombra, in equilibrio su una gamba, appoggiato al lungo bastone, una figura simile alle tante statuette dei baraccotti di souvenir. E' Sambà, un giovane pastore che mostra le sue bestie con occhio soddisfatto. Lo rende fiero il candido mantello degli animali, perfetto e senza macchie e soprattutto le immense corna, proporzionate e Incurvate da un bel movimento armonico. Anche lo sguardo degli animali è orgoglioso, come di chi sa di essere bello. Certo producono solo pochi litri di latte al giorno, una miseria con cui si fatica a vivere. Non è uno sprovveduto Sambà, ha sentito delle vacche pezzate bianche e nere, che vengono da lontano. Ha potuto vedere anche quelle immense e sproporzionate mammelle che sembrano fontane di latte. Ma che orrore quelle bestie, brutte e sgraziate, con piccole corna stortagnole, senza orgoglio nei timidi occhi bovini. Ride Sambà. Quale Peul vorrebbe avere quegli orribili animali al posto dei suoi stupendi zebù. Nemmeno per tutto il latte del mondo.

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