venerdì 21 dicembre 2012

Recensione: E. Hemingway - Verdi colline d'Africa.

Tenendo conto del fatto che fino al momento attuale non vedo scendere globi di fuoco dal cielo, penso sia opportuno che io proceda nei progetti che avevo in corso. A tale scopo ho ripreso in mano questo classico della letteratura americana, che non avevo mai letto. Devo dire che sono rimasto un po' deluso, non tanto dalla qualità dello scrittore, su cui ovviamente non si discute, ma il tono generale del lavoro non mi è piaciuto per niente, anzi mi ha un po' infastidito. Mi è sembrato infatti che proprio lui, il personaggio principale, che altri non è che l'autore e che quindi risulta completamente autobiografico, faccia emergere tutte le sue caratteristiche negative, non come una critica ai propri difetti, ma quasi uno spocchioso vanto, forse comune al tempo in cui di certo, certe considerazioni, oggi naturali, erano ancora bene al di là da venire. Forse era tratto comune al tempo e a quelli precedenti, che i paesi e i popoli "selvaggi" venissero etichettati come terre di conquista, popolate di uomini a cui mostrare la civiltà. Nessun sentimento di partecipazione, di com-passione, di vicinanza mentale. Predomina invece questa presunzione dell'essere superiore (forse questo sentiment era comune anche al di fuori della Germania nazista, il libro è del 36) che va a prendere, a razziare, a imporre questo suo diritto dato dalla sua prevalenza di cultura e di mezzi. 

Questo, anche verso i suoi "pari" europei o connazionali, naturalmente tutti stupidi, incapaci, insopportabili. Nelle discussioni attorno al fuoco dell'accampamento non c'è un letterato che gli si possa paragonare e così via. Nessun momento invece, di estatica meraviglia di fronte alla bellezza dei paesaggi, allo straordinario rigoglio di una natura selvatica e ricchissima, quale raramente si trova da altre parti, nessun stupore per questo continente unico, culla dell'umanità dove, forse ultimo luogo al mondo, la natura è ancora così predominante sull'uomo. Su tutto vince l'istinto della razzia, del uomo dominante che cerca l'animale, non per goderne la bellezza, ma per averlo, possederlo, ucciderlo, purché sia il più grande, il trofeo da conquistare in perenne gara col vicino di fucile che, non sia mai, ne abbia uno con le corna più grandi. Il tutto in un alternarsi di rabbia e disperazione quando la preda sfugge o non si trova o di giubilo raggiante quando la si riesce ad abbattere, unico piacere del viaggio. Sullo sfondo l'Africa, spettatrice inerte, inutile quinta di una rappresentazione di un io quasi autistico e gli altri animali, visti quasi con noia quando non sono prede interessanti. Le serate al campo dove predominano l'alcool e le fanfaronate, oltre al parlar male di tutti, atteggiamento forse molto comune nell'America del tempo e non solo. 

Forse da allora è cominciata questa considerazione della piccola importanza che ha per gli americani, il resto del pianeta. "Non si può vivere sul piano di una esaltazione come quella che avevo provato nel canneto e, all'uccidere la preda, si sente dentro una strana quiete. Quel che si prova uccidendo non si può dividere con nessuno", dice il protagonista al termine di una giornata di caccia, circondato dai trofei delle teste scuoiate di bufali e rinoceronti. Un male di vivere da annegare nella bottiglia, che la straordinaria bellezza di questo paese, che a tratti pur traspare dalle parole sprezzanti del cacciatore, interessato solo alle emozioni forti che possono arrivare dalla violenza e dalla morte (frequenti i riferimenti alla guerra di Spagna), che probabilmente aleggiava in quegli anni e che ha condotto infine al suo inevitabile finale, il conflitto mondiale. Solo nelle ultime pagine, quando l'autore ebbro dei risultati ottenuti nella caccia fortunata, ha qualche parola di ammirazione verso la bellezza selvaggia del paese che sta per lasciare. Interessante comunque per capire un epoca.


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