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sabato 12 luglio 2014

Recensione: Stacy Schiff – Cleopatra, una vita

Cleopatra. Una vitaUna biografia attenta e puntuale di una delle donne più famose e discusse della storia, scritta con uno stile spigliato e stringato al tempo stesso, a volte ironico, ma documentatissimo tanto da essere corredato da quasi quaranta pagine di dettagliati rimandi bibliografici, da una storica americana che si è posta di fronte ad un’opera piuttosto difficile. Infatti la documentazione antica, pur molto ricca, non è mai diretta e nasce solo dai sentito dire, dai pettegolezzi e soprattutto da quanto di malevolo hanno scritto su Cleopatra, i suoi avversari e nemici, essendo inoltre i documenti contemporanei indipendenti, completamente assenti. Quindi è di particolare merito un lavoro che ha dovuto sfrondare, interpretare e cercare di scavare una verità storica di cui non si potranno mai avere prove certe, ma soltanto supposizioni. Qui la Schiff compie un’opera davvero interessante e credibile, un cui si avverte comunque una certa simpatia per la protagonista della storia, donna certamente di notevole spessore carismatico e culturale. Il libro si legge quasi come un romanzo e offre anche uno spaccato completo sulla vita del tempo in un Egitto che era davvero uno dei punti più avanzati e sofisticati del mondo di allora. Non solo la storia spicciola degli avvenimenti quindi, riprendendo i pettegolezzi dei media dell’epoca, come quelli di Cicerone o di Lucano, che oggi si qualificherebbe davvero come un qualunque giornalista gossiparo, ma anche dati di costume, di giustizia spicciola e di economia di stato  di grandissimo interesse.  Cleopatra, una delle donne più ricche della storia di tutti i tempi, si calcola che la sua fortuna ammontasse approssimativamente a oltre 90 miliardi di dollari attuali, dovette risolvere ad esempio problemi di debito pubblico enormi che l’Egitto aveva contratto con Roma. E’ molto interessante seguire i suoi movimenti come responsabile finanziario del paese. Di fronte alla possibilità di default dell’Egitto, pensate un po’, in una società quasi completamente statalizzata, quasi sovietica, innestò un andamento svalutativo di almeno un terzo, battendo moneta in bronzo a valore nominale superiore al valore del metallo e alzò le tasse che, udite udite arrivavano al 50% ad esempio sull’olio e ad oltre il 30 % su tutte le imprese private come le terme o gli spettacoli. Percentuali molto vicine a quello di un moderno stato nordico. Insomma un libro che è una vera chicca per gli amanti della storia, ricco di aneddoti, considerazioni e spunti critici su avvenimenti antichi  e soprattutto su una delle donne più chiacchierate degli ultimi duemila anni.


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martedì 10 settembre 2013

Recensione: Pearl Buck - Tutti sotto il cielo.

E’ probabilmente l’ultimo romanzo scritto dalla Buck nel 1973 poco prima della sua morte ed è forse quello che più degli altri rappresenta una sorta di compendio della sua vita. Dalla storia della famiglia MacNeil, si indovinano larghi tratti autobiografici, la vita trascorsa a Pechino e quella successiva in terra d'America. Ma a colpire è non solamente la vicenda pratica dell’emigrante di ritorno, con tutte le difficoltà insite nel rientro e nel doversi riadattare ad una vita ormai dimenticata o per i figli nati all’estero, affatto nuova e diversa. Lungo tutto il libro infatti, serpeggia la condizione terribile che spesso attraversano coloro che si trovano a vivere questa vicenda, stranieri in tutti i luoghi, pur avendo due patrie entrambe amate. Il dramma di trovarsi americani in Cina e cinesi in America, consapevoli di appartenere convintamente a due tradizioni diverse, che si comprendono entrambe e che dovrebbero solo arricchire invece di provocare continuamente sensazioni dolorose e nostalgie insoddisfatte. E’ però soprattutto la totale incomprensione di chi li circonda a rendere il tutto più difficile e pericoloso, quando si vorrebbe solamente spiegare la complessità delle situazioni a gente a cui invece non interessano i distinguo, ma vorrebbero solo spiegazioni e soprattutto soluzioni semplici, come quell’ascoltatore che alla conferenza in cui Malcolm cerca di spiegare le motivazioni dell’affermarsi del comunismo in Cina, gli ribatte che sarebbe certo meglio, invece di fare tante chiacchiere, buttare un bel paio di bombe atomiche per risolvere tutto. 

Non devono stupire questo tipo di semplificazioni che sono proprie non solo degli americani, molto disinteressati, si dice, a comprendere il mondo esterno a loro, ma ogni giorno dobbiamo constatare come sia più facile generalizzare e proporre soluzioni semplicistiche, di fronte ai problemi che ci pone continuamente la realtà e la storia. Sull’immigrazione, sulle crisi economiche, sull’affermarsi dei fondamentalismi, in generale la gente ha sempre un punto di vista molto semplificato e non riesce a capire come mai non vengano prese decisioni così facili e semplici da capire. Basterebbe mitragliarli sulla riva o tirare qualche bella bomba come dico io o rimandiamoli tutti a casa, è così semplice no? Si sente dire ogni giorno al mercato o al bar davanti al cappuccino. E’ troppo complicato cercare di capire la galassia delle differenze tra sciiti e sunniti, tra alauiti e wahabiti e così via. Questa frustrazione che dovette essere propria della stessa Buck nel periodo maccartista, in cui il fatto di avere vissuto in Cina rendeva la cosa di per sé sospetta, dovette pesarle molto e la chiusura tutto sommato ottimista del libro va forse messa in relazione alle caute aperture che in quel periodo si prospettavano verso l’Oriente, con l’inizio di cauti contatti extradiplomatici e lo storico incontro avvenuto appena un anno prima tra Nixon e Mao con la famosa politica del ping pong. Interessante proprio per i temi davvero universali che propone.




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lunedì 9 settembre 2013

Recensione: Pearl Buck - Figli

Un libro molto in linea con lo stile più classico dell’autrice, profonda conoscitrice della Cina e seguito ideale de La buona terra. Una saga familiare che pone la sua attenzione, come si evince dallo stesso titolo, sull’importanza che rivestono i figli, naturalmente maschi, nella storia delle famiglie. Nella Cina estremamente indebolita dell’inizio del secolo scorso, in cui il potere centrale aveva scarsa presa sulle provincie lontane, si creavano centri di potere locali nelle mani di piccoli signorotti della guerra che con milizie proprie tenevano un predominio sulle popolazioni. Su tutto, i concetti, comuni a tutte le culture, della roba e della terra, topoi costanti delle storie della Buck. I tre figli di un ricco proprietario terriero, che era partito da umili origini e che aveva creato dal nulla la potenza della famiglia, prendono strade diverse ed i loro figli ancora di più, vista la loro incapacità di trovare una dirittura di insegnamento che potesse metterli in grado di proseguire le orme del capostipite. Alla fine il ritorno a quella terra che aveva dato la potenza alla famiglia e che era stata poi snobbata in favore di altre, più lucenti chimere. Nel mezzo tutta una serie di figure tipiche della società contadina e provinciale cinese, come sempre godibilissime, sempre pronte a sottolineare la dura posizione della donna, davvero marginale e meschina in quella società. Ma il nuovo avanza e sullo sfondo incombono le avvisaglie di quei movimenti e quelle idee rivoluzionarie che ancora fumose ed embrionali di cui nessuno riesce ancora a capire la portata futura dirompente. Per chi ama il genere e soprattutto l'ambientazione, si può ancora leggere con piacere.

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venerdì 21 dicembre 2012

Recensione: E. Hemingway - Verdi colline d'Africa.

Tenendo conto del fatto che fino al momento attuale non vedo scendere globi di fuoco dal cielo, penso sia opportuno che io proceda nei progetti che avevo in corso. A tale scopo ho ripreso in mano questo classico della letteratura americana, che non avevo mai letto. Devo dire che sono rimasto un po' deluso, non tanto dalla qualità dello scrittore, su cui ovviamente non si discute, ma il tono generale del lavoro non mi è piaciuto per niente, anzi mi ha un po' infastidito. Mi è sembrato infatti che proprio lui, il personaggio principale, che altri non è che l'autore e che quindi risulta completamente autobiografico, faccia emergere tutte le sue caratteristiche negative, non come una critica ai propri difetti, ma quasi uno spocchioso vanto, forse comune al tempo in cui di certo, certe considerazioni, oggi naturali, erano ancora bene al di là da venire. Forse era tratto comune al tempo e a quelli precedenti, che i paesi e i popoli "selvaggi" venissero etichettati come terre di conquista, popolate di uomini a cui mostrare la civiltà. Nessun sentimento di partecipazione, di com-passione, di vicinanza mentale. Predomina invece questa presunzione dell'essere superiore (forse questo sentiment era comune anche al di fuori della Germania nazista, il libro è del 36) che va a prendere, a razziare, a imporre questo suo diritto dato dalla sua prevalenza di cultura e di mezzi. 

Questo, anche verso i suoi "pari" europei o connazionali, naturalmente tutti stupidi, incapaci, insopportabili. Nelle discussioni attorno al fuoco dell'accampamento non c'è un letterato che gli si possa paragonare e così via. Nessun momento invece, di estatica meraviglia di fronte alla bellezza dei paesaggi, allo straordinario rigoglio di una natura selvatica e ricchissima, quale raramente si trova da altre parti, nessun stupore per questo continente unico, culla dell'umanità dove, forse ultimo luogo al mondo, la natura è ancora così predominante sull'uomo. Su tutto vince l'istinto della razzia, del uomo dominante che cerca l'animale, non per goderne la bellezza, ma per averlo, possederlo, ucciderlo, purché sia il più grande, il trofeo da conquistare in perenne gara col vicino di fucile che, non sia mai, ne abbia uno con le corna più grandi. Il tutto in un alternarsi di rabbia e disperazione quando la preda sfugge o non si trova o di giubilo raggiante quando la si riesce ad abbattere, unico piacere del viaggio. Sullo sfondo l'Africa, spettatrice inerte, inutile quinta di una rappresentazione di un io quasi autistico e gli altri animali, visti quasi con noia quando non sono prede interessanti. Le serate al campo dove predominano l'alcool e le fanfaronate, oltre al parlar male di tutti, atteggiamento forse molto comune nell'America del tempo e non solo. 

Forse da allora è cominciata questa considerazione della piccola importanza che ha per gli americani, il resto del pianeta. "Non si può vivere sul piano di una esaltazione come quella che avevo provato nel canneto e, all'uccidere la preda, si sente dentro una strana quiete. Quel che si prova uccidendo non si può dividere con nessuno", dice il protagonista al termine di una giornata di caccia, circondato dai trofei delle teste scuoiate di bufali e rinoceronti. Un male di vivere da annegare nella bottiglia, che la straordinaria bellezza di questo paese, che a tratti pur traspare dalle parole sprezzanti del cacciatore, interessato solo alle emozioni forti che possono arrivare dalla violenza e dalla morte (frequenti i riferimenti alla guerra di Spagna), che probabilmente aleggiava in quegli anni e che ha condotto infine al suo inevitabile finale, il conflitto mondiale. Solo nelle ultime pagine, quando l'autore ebbro dei risultati ottenuti nella caccia fortunata, ha qualche parola di ammirazione verso la bellezza selvaggia del paese che sta per lasciare. Interessante comunque per capire un epoca.


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giovedì 20 settembre 2012

Recensione: Pearl S. Buck – La madre.



Torno su questa autrice di così facile ed affascinante lettura, un po’ per l’ambientazione dei suoi lavori, un po’ perché il periodo in cui scrive, guarda caso anche lei negli anni trenta, riguarda una fase della storia cinese poco conosciuta  e per me molto interessante. Questo La madre, segue il tono e le storie della Buona terra, con la sua epica contadina, ma, mi pare, coglie aspetti più universalistici, tali per cui la Cina rimane molto sullo sfondo e il racconto potrebbe essere uguale se ambientato in molti altri luoghi, non per niente mi ricorda le storie nella Sicilia di Verga, con gli archetipi comuni della povertà, del legame del contadino alla terra e alla roba e della maledizione che relega la donna su un piano decisamente sottostante all’uomo, condannata ad una fatica morale e materiale senza uguali, accompagnata da una sorta di maledizione genetica a cui essa stessa sa di non potere sfuggire. 

Perché come almanacca lei stessa, madre rusticana che passa attraverso le traversie della vita: ”Un bambino che sta per arrivare è fonte di gioia ma anche di preoccupazioni. Potrebbe nascere morto. Oppure deforme o cieco o scemo; o addirittura potrebbe essere una femmina”. In queste parole sta tutto il tema della Buck e il personaggio, la madre, allo stesso tempo sacrificio, dedizione, amore. La madre che va a cercare una moglie per il figlio nel villaggio vicino, in quanto là “ci sono molte ragazze, perché per tradizione non le ammazzano”. Reliquia di una civiltà morale che povertà, ignoranza e precarietà fisica sembrano sommergere. Sempre lirico e naturalistico il racconto si dipana attorno a questa figura centrale a cui tutti devono fare carico, mentre lontani, sullo sfondo, rumori di fatti nuovi e sconosciuti, talmente diversi da un mondo uguale a sé stesso da millenni, incombono con la loro rude spietatezza.




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martedì 18 settembre 2012

Recensione: Henry Miller – Max e i fagociti bianchi.

Sono stato preso da questa serie di libri della prima parte del secolo scorso. Bisogna osservare che questo periodo è stato davvero straordinario per la cultura mondiale e Parigi, per almeno 50 anni a cavallo tra 800 e 900 deve essere stata un luogo davvero incredibile per la presenza di tali e tante idee, movimenti, artisti e letterati che vi arrivavano da ogni parte del mondo per scambiarsi opinioni, creare, stimolarsi a vicenda. Un crogiuolo senza pari dove sono fiorite in numero davvero inusuale filosofie e opere d’arte, inclusi tarli e abissi dove sprofondare le menti come il diffuso antisemitismo , che appare del tutto logico e normale se si leggono con attenzione le opere di questo periodo anche in scrittori del tutto insospettabili. Lo stesso Miller che ci visse quasi fino allo scoppio del conflitto mondiale, dice che se dopo Hitler ci saranno altre mostruosità capaci di compiere azioni orribili contro l’umanità, queste non potranno formarsi che a Parigi (Pol Pot ne è stato un esempio lampante). Questo libro piuttosto interessante, è una raccolta di saggi che l’autore scrisse negli anni trenta, tra i due Tropici, proprio a proposito dei movimenti artistici del momento commentando movimenti, film, autori e stili di vita con il suo stile beffardo e ribelle, apocalittico e visionario, sempre dissacratore e negativo sul futuro della nostra civiltà. 

D’altra parte sempre ritorna il tema della crisi economica del 29 che ad un lustro di distanza non accennava a spegnersi (vi ricorda niente?) e che poi è stata risolta col bagno di sangue del conflitto mondiale. Particolarmente acuti ed interessanti i giudizi critici su Proust e Joyce, la scoperta di Bunuel in quello che forse è il suo primo film con la collaborazione di Dalì, L’età dell’oro, o sui diari di Anais Ninn, per non parlare del lungo articolo sul surrealismo di cui si sente a pieno titolo partecipe, movimento che sente assolutamente fondamentale per quel momento storico in cui tutto sta scivolando verso un finale che sembra già scritto. Emblematiche le parole che chiudono il saggio: “Rimangono i mangia morte (e Harry Potter è ancora lontano) coloro che prendono sempre più il comando a mano a mano che il futuro si apre. Destinati ad affrettare lo sfacelo d’un mondo già defunto, essi galvanizzano la morta gioventù di questo mondo in un momentaneo entusiasmo. Dappertutto la gioventù è chiamata alle bandiere; come in ogni altra epoca, si agghinda per l’ecatombe rituale. La causa! Per amore della causa presto i demoni saranno sguinzagliati e riceveremo gli ordini di avventarci gli uni alla gola degli altri.” Era il 1935. Anche questo, un libro propedeutico per meglio capire l’autore del Tropico del Cancro e molti meccanismi perversi che si reiterano continuamente nella storia dell'uomo.



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venerdì 14 settembre 2012

Recensione: J. Hilton – Orizzonte perduto.


Il libro, del 1935, ha avuto una certa notorietà in tutto il mondo, tanto è vero che fu pubblicato in Italia da Mondadori già nel 1936. Quando uscì il film omonimo di Frank Capra , poi, il successo fu planetario (addirittura Henry Miller lo classificò come il film più significativo prodotto ad Hollywood fino a quel momento), infatti nomi come Sangri-la e la visione di un mondo perduto e meraviglioso, che mantiene la giovinezza e la serenità, ma che allo stesso tempo diventa una prigione implacabile, da cui è impossibile fuggire così come è quasi impossibile arrivare, è ormai diventato un luogo comune spesso usato per definire questo luogo della fantasia comune alla favolistica di tutti i tempi. Se ci aggiungiamo il fascino dell’esotico e in quegli anni parlare di Tibet e Himalaya era davvero una favola lontana, ci sono tutti gli ingredienti perché la storia piacesse e molto. Al trascorrere dei decenni direi che il libro non regge più molto, anzi mi sembra decisamente sopravvalutato e oggi lo si può leggere solo come informazione storico letteraria, più che con il piacere che dovrebbe dare un buon romanzo. Per chi fosse interessato qui la versione completa del 1973. L’unica cosa che mi è parsa molto interessante invece, è come in quegli anni aleggiasse già il timore per qualcosa di orrendo e globale che stava per avvicinarsi. Si percepiva quindi nitidamente che una guerra devastante era alle porte e questo è un buon punto di riflessione. Per il resto direi che si può lasciare perdere. 



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sabato 8 settembre 2012

Recensione: P.S. Buck – La buona terra.


Un classico assoluto questo, che è probabilmente e giustamente il libro più famoso della Buck. Una storia allo stesso tempo topos di tutte le culture, con la figura emblematica del contadino e della sua famiglia che fanno dell’attaccamento alla terra ed del suo possesso l’unica ragione valida della loro esistenza, con l’intelligenza che, pur se priva di cultura, capisce che quel bene è il solo che li possa proteggere, anche quando tutti gli altri valori crollano. Oro e ricchezza te li possono rubare i predoni, cibo e provviste li può portar via la carestia o i vicini malevoli, ma la terra non te la può prendere nessuno. Assieme a questa verità primordiale condita di sacrificio, grettezza e umanità al tempo stesso, ecco che si intreccia il tema fondamentale della Buck, la vita nella Cina rurale dell’inizio del secolo scorso, dove arrivano solo affievoliti e neanche compresi i movimenti epocali che stanno agitando il mondo. Un affresco splendido e gigantesco, con i suoi personaggi chiave, tra cui campeggia l’altro aspetto caro all’autrice, la donna cinese, presa in sposa e tolta dalla schiavitù, con la sua dedizione assoluta al marito in quanto tale e in quanto è stato l’artefice del suo cambio di condizione. 

Una figura davvero emblematica, la povera O Lan, venduta bambina come schiava, richiesta in sposa proprio in quanto brutta, così da non avere grilli per la testa, anche se il contadino ha preteso che almeno non fosse una sfigurata dal vaiolo o col labbro leporino, che riesce a guidare col suo aiuto fondamentale e con l’istinto le scelte della famiglia, anche se ha i piedi troppo grandi, orribili e per nulla sensuali, perché sua madre l’ha venduta troppo piccola per poter cominciare a fasciarglieli. Una donna della Cina rurale, dove è vista solo come una macchina per fare figli e al massimo dare una mano nei campi, beninteso dopo avere assolto tutti i doveri  nella casa, anche se di tanto in tanto il giovane Wang Lang, ha qualche attimo di attenzione, come quando decide di farsi il bagno perché, il giorno delle nozze non vuole che la nuova moglie lo veda sporco, anche se in fondo si era già lavato un paio di mesi prima ed è davvero peccato sprecare tutta quell’acqua così utile per bagnare i campi assetati. Anche se visto con l’occhio occidentale, tante informazioni per cercare di comprendere la cultura  e la mentalità di quel paese lontano. Per chi ancora non l’avesse letto, direi che è un libro da non perdere.


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venerdì 8 luglio 2011

Recensione: Pearl Buck - Vento dell'est: vento dell'ovest.

Altro consiglio per l'estate. Grazie ad una amica mi è capitato per le mani questo bel libro di Pearl S. Buck, la sua opera prima del 1930. Ovviamente non potevo che essere sensibilissimo all'argomento, dato il titolo, ma davvero questo libro è di grandissimo interesse. Intanto la storia, costituita da tre racconti che si svolgono nella Cina dell'inizio del secolo scorso con tutti i suoi cataclismatici accadimenti declinati tutti al femminile, con una delicatezza ed una poeticità davvero accattivante. Ognuno di questi personaggi viene a trovarsi nel pieno del cambiamento epocale che l'ingresso dell'occidente, con il suo devastante apporto di idee nuove e completamente contrastanti con la millenaria cultura che andava a sostituire e ne viene in modi diversi totalmente devastato. Kwei Lan, giovane sposa intelligente, riesce ad adattarsi a suo modo grazie all'aiuto della comprensione del marito, pur nella sofferenza di chi deve dichiarare sbagliate tutte le credenze che fin da bambina le erano state inculcate. 

Le altre soccombono in maniera tragica egli eventi, mentre il mondo avanza spazzando via in maniera spietata l'antico con la ferocia tipica di tutti i nuovi che tendono a liberarsi del vecchio etichettandolo come tutto sbagliato. Un libro che, letto oggi, è di una straordinaria attualità, visto nell'attuale cambiamento che di nuovo sta spazzando violentemente tutto  nell'impero di mezzo, senza dimenticare che è già la terza volta che questo accade in un secolo. La nuova cultura che arriva, con il suo fascino dell'esotico, tende irrimediabilmente a soppiantare quella precedente, in quanto i vantaggi positivi ed innegabili che presenta, pretendono di catalogare come comunque buono tutto il resto, compresi i gravi difetti che si porta dietro e tutto cattivo in quello che vuole lasciarsi alle spalle. E' una strada ben conosciuta che hanno percorso non soltanto i cinesi naturalmente; come non ricordare le file di 800 metri che si formarono davanti al primo McDonald aperto a Mosca. Comunque non perdetevelo, al di là della ambientazione orientale, rimane un bellissimo quadro di situazioni psicologiche ritrovabili anche in ambiti  molto diversi.


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martedì 30 novembre 2010

Recensione: Arthur Golden - Memorie di una gheisha

Superata la fase critica della bagna cauda di cui vi ho detto l'altro giorno e sistemate in via definitiva le problematiche di inquinamento dell'aria provocate in famiglia, ormai quasi completamente superate da un prolungato arieggiamento degli ambienti e dall'istallazione di appositi profumatori, possiamo voltare pagina materialmente. Quindi veniamo al consueto angolo letterario, per esaminare un libro ben conosciuto ma abbastanza interessante: Memorie di una gheisha, di cui molti avranno conosciuto l'elegante riduzione cinematografica di cui, benigno vi allego il trailer in italiano. La storia ripercorre l'intera vita di una di queste ragazze, dalla vendita da parte del padre, povero pescatore, fino all'apice del successo, durante quasi tutto il 900, offrendo così uno spaccato di vita giapponese, visto dall'interno e da un'angolazione del tutto particolare.

Per la verità, il libro è scritto da un occidentale e quindi questo mondo viene presentato da un punto di vista che sottolinea la preminenza dell'aspetto sessuale, sia pure di un tipo di prostituzione di alto bordo e assolutamente particolare. Non sappiamo quindi se questo aderisce davvero alla realtà o se il sesso non rappresenti un carattere secondario, se pur presente, per la mentalità giapponese. Di certo l'autore è stato, proprio per questo, pesantemente criticato in Giappone, con lo strascico di una causa milionaria da parte della gheisha, da lui intervistata ed ad alla cui vita sembra si sia in parte ispirato. Ma, a mio parere la cosa più interessante dell'opera è l'affresco mirabile della società giapponese, in tutte le sue sfaccettature, a noi incomprensibili e in parte sconosciute; lo scandaglio su una forma mentis per noi spesso non solo diversa ma estranea, che permette di capire meglio un paese e la sua gente. Tentare di comprendere le contorsioni di una mentalità lontana è spesso importante per spiegare motivi e cause dei fatti che accadono nel mondo. Secondo me questo libro aiuta in questa direzione e, a mio parere, questo approccio ne rappresenta il merito principale, al di là del fatto che rimane comunque di scorrevole e piacevole lettura, come accade spesso nella recente letteratura americana di consumo.






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