Secondo me è proprio una questione insita nel genoma umano. Siamo esseri incontentabili. Un altro dei punti di forza che ha reso la specie dominante su questo povero pianeta. Ma sì, il fatto che non ci vada mai bene niente, piove e vorresti il sole, arriva l'estate e ti lamenti che fa caldo, sei davanti ai gamberoni alla griglia e magnifichi la bontà inarrivabile della polenta concia. Un amico è stato sei mesi ai Caraibi per cambiare vita, facendo lo skipper tra isole deserte, lingue di sabbia bianca e mare cristallino e poi se ne è tornato ad Alessandria a vendere impianti di purificazione dell'acqua. Motivo, non ne poteva più. Sembra un po' una maledizione che una strega maligna o l'invidia degli dei, ci ha inserito nel software della mente, un bug mefitico, un virus che nessun firewall ha bloccato e destinato a manifestarsi proprio quando pare che ogni cosa vada per il meglio. No, tranquilli, non mi sto riferendo alla politica. Lì siamo messi male. Mentre compulso sui tasti, gira un mp3 di Santana che gorgheggia: Primavera ya llegò...Quanto l'abbiamo desiderata qui, tra le brume grigie tra Tanaro e Bormida, la primavera. Eppure, eccomi qua che, anche se finalmente i termosifoni sono spenti, mi ritrovo a guardare con nostalgia una foto che l'amico Eugenio mi aveva inviato qualche tempo fa, a febbraio mi sembra, scattata in uno dei condomini di quella periferia moscovita così lontana, anche psicologicamente, dai fasti odierni della Piazza Rossa. Mi sembra di sentirlo ancora nelle narici fredde, quel odore di neve, netto, metallico, che ti aggrediva i polmoni appena uscito in strada, appena lasciato il bozzolo del calore umidiccio e quasi soffocante dell'interno delle case.
Avevi fatto colazione con un thé bollente, qualche fetta di pane nero spalmati di burro, magari qualche cucchiaio di smietana fresca, tralasciando la composta di cetrioli o le fettone di salame della Mikomsk e uscendo i piedi ti affondavano nella neve alta e soffice, con lievi crok crok ad ogni passo, il sonoro dei cortili di Mosca d'inverno. Qualunque ora fosse, nell'aria, quella penombra appena sfiorata dalle luci gialle dei lampioni che non riusciva a rischiarare. Poi, a mezzogiorno, il pallido puntino giallo smorto del sole, forse un lampione appena più forte, mentre qualche raro fiocco, congelato anche lui dal freddo, faticava a scendere, ballandoti ancora un po' davanti agli occhi prima di posarsi sulla coperta bianca. Ma come faceva la gente a ritrovare la propria auto? Mah, alla fine poi tutti andavano a prendersi la metropolitana, dalle lontane periferie, un altro periodo di riparo e di calore sudaticcio, prima di ritornale al bianco, ma questa volta sporcato ed offeso dai tanti passaggi che lo avevano ormai privato della sua magnifica verginità, all'uscita della Majakovskaija o della Teatralnaija. I marciapiedi della Tvjerskaija erano ormai battuti dai tanti passaggi delle moltitudini che andavano a far finta di lavorare, nelle centinaia di uffici dagli acronimi complicati che coprivano il nulla. Poche macchine nella larga carreggiata, erano tutte rimaste nei cortili dei condomini sotto la coltre di neve, ad aspettare la primavera, con i suoi fine settimana chiari, in cui andare alla dacia di campagna a seminare le patate. Ciao Eugenio.
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2 commenti:
Enri' io da un bel po' che continuo a lamentarmi di questa prima vera che tarda a venire, ma io sono freddoloso e a Mosca morirei solo a guardarla la neve.
@Monty - Guarda che anche i 25 sotto zero hanno il loro fascino. Intanto di sembra di essere tutto rigido...
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