sabato 22 marzo 2014

La donna di sabbia






Ricordo un bellissimo film del '64 di Hiroshi Teshigahara, La donna di sabbia, per chi volesse vederselo cliccare qui. Un lontano villaggio ai limiti del deserto era minacciato dall'avanzare di una duna, gli abitanti avevano scavato una trincea ai limiti del paese, dalla parte dove soffiava costante il vento da nord, che però doveva continuamente essere svuotata dalla sabbia che avanzava ogni giorno. Una lotta senza fine. Quando passava uno straniero, gli abitanti del villaggio lo catturavano e lo buttavano nella buca dove già c'era una donna, condannata per chissà quali crimini a continuare lo scavo. Un lavoro infinito che i due schiavi dovevano continuare se volevano essere alimentati. Una storia estrema, forse impossibile nella realtà. La fornace è là, quasi dietro la collinetta, sulla riva di sinistra di questo braccio minore del Mekong. L'imbarcadero è un po' più solido degli altri, segno che di quando in quando arrivano barche un po'  più grosse a caricare i mattoni. Subito dietro tra le palme, i grandi coni arrotondati della fornace. Grandi termitai di mattoni alti una decina di metri l'uno, costruiti con una certa cura architettonica, le strette porte d'ingresso con uno strombo di archi rientranti a sesto acuto. Paiono trulli, nuraghi, cupole di templi khmer abbandonati, tombe ipogee che archeologi lungimiranti hanno individuato e da poco portato alla luce. Lungo la circonferenza, una fila di mattoni sporge creando una scala per salirvi fino in cima, ma creando allo stesso tempo un fregio ornamentale molto gradevole all'occhio.

Alcune sono vuote, altre in via di riempimento. Far mattoni, una pratica ancestrale che ha condotto l'uomo nei millenni dai villaggi alle città. L'ansia di costruire, racchiusa tra fuoco, terra e sudore. Fatica primordiale di uomini dalla schiena spezzata ad impastare fango e poi a cuocerlo con la stessa dedizione del vasaio. Ti aggiri in un dedalo di mattoni, quelli ancora crudi, quelli già cotti pronti ad essere mandati là dove serviranno a costruire, ad elevarsi nella loro nobiltà, a diventare casa, da strumento grezzo che sono. Muri rossi senza fine, ancora soltanto merce da vendere, ma che già sono strade tra un forno e l'altro e forse già la loro sustanzialità di voler essere abitazione si mostra con la sola presenza. Tra le barricate rosse infatti si stende una tettoia, dei teli, si creano quasi automaticamente spazi, angoli, corridoi. Laggiù in fondo, un deposito enorme di pula di riso. Già perché per cuocere i mattoni, non basta farli dall'argilla cruda nelle apposite forme, portarli, accatastarli al chiuso dei forni in pile ordinate e costruite secondo schemi precisi per ottenere una cottura perfetta, ma bisogna poi, per giorni, cuocerli con un fuoco costante, sempre uguale e che non si spenga mai. L'uomo deve mantenere la sua attenzione viva in continuazione per non rovinare l'opera precedente. per portare alla fine in modo perfetto il lavoro. Il fuoco va alimentato con un paio di badilate di pula ogni quarto d'ora. Il carburante vegetale deve scendere come la sabbia di una clessidra a poco a poco nel fornello e mantenere la fiamma via. 

Una specie di fuoco sacro che non si spenga mai e che per questo ha bisogno della sua vestale che gli dedichi la vita. Così, su una sedia sgangherata di plastica, sta la signora Linh. Sotto la tettoia aperta e circondata dai bastioni di mattoni, in un angolo un po' nascosto, c'è una larga stuoia che le serve da giaciglio e nell'altro angolo una pentola su un trespolo e qualche altro arnese che funge da cucina. Non riesci a dare un'età a quel viso rugoso, ma di certo non è giovane, come non lo è il marito che giace a dormire sulla stuoia. La signora Linh aveva una piccola risaia, 500 metri quadri a mezzaluna, delimitati da un arginello contorto e un orto con una capanna di frasche a lato. Quel poco che produceva, aggiunto ad un po' di anatre, un maiale e i pesci che si trovava nella nassa, erano appena sufficienti a nutrirli, ma in fondo avevano bisogno di poco. La vita scorreva nel ricordo di quegli anni lontani, la paura, la morte che arrivava dall'alto, i soldati che spuntavano di giorno dalla Nazionale, gli altri di notte dal bosco in fondo alla risaia. Bisognava cambiare la bandiera esposta due volte al giorno, al mattino quella del sud, alla seta quella rossa con la stella gialla per il Fronte. Quella mattina, la bomba arrivò con un sibilo dietro la capanna, il rumore dell'esplosione così forte che per giorni non si poterono più parlare, gridarsi la loro disperazione, per i loro due figli che erano dentro le pareti di legno in fiamme, mentre erano in fondo al campo a trapiantare il riso. 

Poi, il resto della vita che scorse piatta e senza scopo. Non ha avuto altri figli la signora Linh. L'anno scorso il marito aveva constatato di essere troppo vecchio per continuare ad arare il campo, rifare l'argine con la zappa dal manico corto; ogni volta che piegava la schiena gli pareva di non riuscire più ad alzarsi. Così sono venuti alla fornace. La famiglia che ci stava prima con due figli piccoli, aveva deciso di andare a cercare un'opportunità in città, non poteva continuare a crescerli selvatici tra la foresta di mattoni. Il contratto di lavoro è semplice. Devi stare qui sempre, devi vivere tra i mattoni in attesa che passi quel quarto d'ora per buttare le due palate di pula di riso e mantenere acceso il fuoco sacro del tempio che non si può spegnere mai. Dopo dodici ore ti butti sulla stuoia e dormi e il tuo posto lo prende tuo marito, una alternanza senza fine, una schiavitù da cui non ti puoi liberare, mai. Forse ti serve a non pensare. Tra una palata e l'altra rimane giusto il tempo per riscaldare qualcosa sul fornelletto, buttare un po' di pula, poi mandare giù due sorsi di zuppa. Linh, la donna di argilla, non sembra soffrire questa condizione, sorride. Alla coppia danno anche 80 dollari al mese, quanto basta per comprare quello di cui sfamarsi. Racconta senza affanno. Poi si scuote e corre a gettare una badilata di pula nel fuoco.

L'interno di un forno


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2 commenti:

Anonimo ha detto...

A volte basta riflettere sul destino amaro di alcune persone per rendersi conto che la vita ti ha regalato molto

senza pretendere troppo. E il viso sorridente di questa donna che ha sopportato di tutto lo dimostra.


Paola

Enrico Bo ha detto...

@paola proprio a questo pensavo buttando giù il post, alla capacità che ha l'uomo di adattarsi alla vita. Tutto rimane un grande mistero.

Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!