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martedì 13 settembre 2011

Elogio della puzza.


Basta poco per abituarsi alla bellezza. Una lieve brezza, cielo e mare che quasi si confondo; in alto un azzurro schietto con qualche sbuffo bianco panna che si muove adagio, davanti un’acqua limpida color acquamarina, chissà da dove verrà questo colore. Intorno siepi profumate verde carico, piccole bacche rosse sui pitosfori, rossi aranciati di bouganville o colpi di acquarello rosati di oleandri; dietro una casetta tutta coperta da un immenso glicine, una coperta verde con ricami violetti, a rilievo. E palme dappertutto, un’aria fina col sole che non aggredisce. Ti lasci andare in questo liquido amniotico che ti circonda tutto, materno, protettivo, né troppo caldo, né troppo freddo, fino a che ne vuoi, non ci sono regole o limiti. Poi ti trascini a riva, ma adagio e riguadagni il posto al sole con un leggero grugnito, come un tricheco steso sul pack della Novaja Zemlija, guardando il cielo. Eppure non c’è l’entusiasmo che sulla carta non dovrebbe lasciarti neanche un attimo. 

La bellezza è la stessa, ma dopo un po’ non suscita più lo stesso piacere assoluto, l’ammirazione che dovrebbe meritare. Io credo che sia tutta una questione di neuro recettori. Dopo un certo periodo il segnale che arriva al cervello dice, ragazzi qui siamo al massimo, di più non ve ne do, e la dopamina cala automaticamente, il pensiero va in stand-by, tutto si riconduce alla normalità. E’ come l’economia se non cresci continuamente tutto va in crisi. La bellezza dopo un po’ annoia, per lo meno, non eccita più, lascia indifferenti al punto che l’indegno Marziale dedicò alla bellissima moglie che non suscitava più le sue attenzioni questo infame distico: -Teque, duos putas, uxor, habere cunnos?-. Succede la stessa cosa con la puzza. Guardate che è provato scientificamente, perché la bellezza è esattamente uguale alla puzza. Se entri in un luogo in cui ristagna un tanfo tremendo, ti par di morire, non riesci neanche a respirare dallo schifo. Bene, dopo circa venti minuti, a seconda delle persone o sei hai il raffreddore, la puzza non si sente più, i tuoi neurorecettori si sono abituati, non inviano più segnali disperati, hanno capito che non ci si può fare niente e il corpo e la mente si adattano, resistono.  

Forse è la stessa cosa anche in altri campi, prendete la politica, una quantità di marcio e di schifo tale nauseerebbe anche un ratto da fogna, la gente dovrebbe girare con le maschere antigas o per lo meno metter mano tutti assieme a scope e stracci per fare una bella pulizia. Invece niente, qualche sguardo di sfuggita al giornale, le notizie scorrono sullo schermo come le quotazioni di borsa nel sottopancia, troppo veloci per poter essere considerate. Tranne chi ci campa del marcio e questi sembrano sguazzarci come scarabei stercorari nelle fatte degli elefanti, tutti gli altri ormai la puzza non la sentono neanche più. Il neuro recettore si è abituato e al più al sentire le telefonate intercettate può scappare un sorriso. Ma dal sorriso al riso non c’è molto. Attenzione Maestà che il popolo ride.

sabato 18 settembre 2010

Recensione: Pavese - La spiaggia.

Niente di più adatto alla accennata vita da tricheco spiaggiato che la lettura di questo romanzo breve di Cesare Pavese, La spiaggia, appunto, che lui stesso non amava molto e che ha considerato un semplice esercizio di stile, una sorta di allenamento alla scrittura da sviluppare poi successivamente, utile insegnamento questo, ai desiderosi di cimentarsi nell'agone letterario.


Risulta però assai gradevole, mentre l'onda che si rivolta piano sulla riva e il chiacchiericcio dell'umanità varia che popola questo anomalo ecosistema, fanno da rumore di fondo, scorrere queste pagine lievi che raccontano di una Liguria degli anni quaranta dove la vita da bagnante non era affatto dissimile da quella odierna.


Una vicenda semplice da cui traspare bene la fatica di vivere di Pavese, il suo inscindibile legame con le sue colline lasciate a malincuore per questa vacanza in cui il disagio traspare continuamente e in cui si sottolinea, se mai ce ne fosse bisogno, il deficit interpretativo per quell'universo femminile così misterioso e di certo non solo per lui incomprensibile.


Una insondabilità che si ritrae da ogni tentativo di decifrazione, quasi che la donna sia, come probabilmente è, una specie diversa ed aliena e che rimane così sospesa in un'area estranea, destinata a non entrare mai in contatto, in sintonia. Una sessantina di pagine che vi riempiranno l'oretta necessaria a digerire il croissant prima di scivolare tra le onde che in questa stagione si fanno via via più frizzanti e frescoline.




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