giovedì 31 dicembre 2009

Addio agli anni zero!


Beh, di riffa o di raffa siamo arrivati alla fine dell’anno; domani comincerà una nuova decade, gli anni ‘10, chissà cosa se ne dirà nei commenti e nei ricordi tra una cinquantina d’anni. Saranno i favolosi anni ’10 o i terribili anni ’10? Mah, forse non è poi così importante, saranno come sono stati tutti gli altri, l’importante sarà viverli. Nella loro dimensione. Intanto il mio programma per il prossimo anno è di continuare questo strano esercizio che ormai dura da un anno e mezzo e che mi ha portato a conoscere, anche se solo virtualmente tante persone che non so come ringraziare se non facendo loro e a tutti gli altri amici di lungo corso un augurio di rito con la seguente (facile, facile e intuitiva) Crittografia a frase (6,4,5) suggeritami da un amico :



CAVALLOTTI AD ANCONA NEGA LA CELLULA!



E arrivederci a tutti al prossimo anno.

mercoledì 30 dicembre 2009

Cronache di Surakhis 24: Pasticci logici.

Che tempi! Tutto cambiava così rapidamente che era difficile abituarsi; le classi più infime della società, inclusi addirittura gli ex-schiavi sfuggiti alle banche degli organi, pretendevano di avere una crescita sociale, molti volevano addirittura che i loro figli frequentassero l’Imperial Università di Surakhis, come un tempo potevano fare solo i membri titolati. I vecchi sistemi dei test di ingresso avevano rivelato i loro punti deboli e negli ultimi tempi bastava disporre un numero sufficiente di crediti per garantire l’accesso alle facoltà più esclusive anche ai Denebiani arricchiti che neanche capivano il dialetto locale con cui erano formulate le domande. Così la nuova Ministra dell’Imperiale Istruzione, aveva imposto un nuovo e decisivo metodo di ammissione. L’aspirante matricola si presentava all’ingresso fortificato del Castello Universitario, presidiato da robusti Sardar armati, che ponevano una parola d’ordine a cui lo studente doveva dare in base alla ferrea logica Surakhiana una controparola confacente. In caso di buon esito i portali avrebbero automaticamente cessato di sparare dardi mortali, mentre in caso di errore, i Guardiani del sapere avrebbero pensato a terminare il questuante buttandolo poi nel sottostante fossato. Paularius si divertiva come un matto ad andare al mattino a prendersi un succo di zuccoide al bar degli studenti, proprio davanti ai sacri portali, dove fin dal mattino si radunava un piccolo gruppo di aspiranti spauriti. Con qualcuno, specialmente i giovani di Mizar II , che erano particolarmente avvenenti, attaccava bottone con fare ammiccante di chi era al corrente delle segrete cose. Quella mattina, la temperatura non era molto fredda, non c’erano più gli inverni di una volta su Surakhis, entrò in particolare intimità con Squasik, un bel ragazzo appena arrivato e che, a suo dire aveva ottenuto una votazione di tutto rispetto in logica –matematica terragna e che voleva a tutti i costi tentare la prova. Paularius gli strizzò l’occhio e gli fece capire che se fosse stato gentile con lui, c’era un modo semplice per sfangarla facile facile. Lo portò in un separé appartato che il gestore, un tripode bavoso, che aveva molti scheletri nell’armadio, in senso reale, perché diversi clienti che avevano mostrato portafogli troppo gonfi, non erano mai più usciti dal locale, teneva sempre a sua disposizione, per meglio spiegargli il sistema. Da una stretta finestra si poteva vedere e sentire perfettamente l’ ologramma dei postulanti che si presentavano all’ingresso per carpire la logica delle parole/controparole, che cambiavano ad ogni studente. Mentre il giovane non badava alle attenzioni morbose di Paularius, arrivò il primo studente. L’armigero lo squadrò un attimo e subito gli gridò in faccia: “6”. Il ragazzo, pensò un attimo poi rispose :”3” . Il portale cessò di ronzare e il primo studente poté entrare senza problemi. Si avvicinò il secondo, un lumacoide di Aldebaran. La parola fu:”8” . Senza esitazioni con le antenne tese, il gasteropode compitò:”4” e anche questa volta le porte si aprirono. Fu il turno di una bella esapode di Capella III, che esibiva un decolleté vertiginoso sulla dozzina di mammelle del suo superbo esatorace, cercando di stornare l’attenzione del Sardar di turno che non la degnò di uno sguardo e disse subito:”10”. La studentessa, una delle migliori del suo corso, pensò a lungo, poi mentre già la guardia aveva appoggiato la mano sull’elsa della spada laser disse:”5” e anche per lei si spalancò l’ingresso. Al monoculo dei Monti Neri che si presentò subito dopo, la guardia gridò:”12” . Ebbe in risposta “6” e senza attendere cenni il trampoliere saltellò sulla sua unica e sottile gamba tra i battenti già spalancati. A questo punto Squasik si liberò delle attenzioni di Paularius quasi con fastidio, si gettò la tunica di broccato ricamato sulla spalla sinistra e disse: “basta, ho capito” e scese verso il ponte con passo sicuro. Paularius lo guardò scendere con un sorriso e pensò: “ vai ragazzo, attento, ragiona prima di parlare”. Il Sardar lo bloccò subito, poi dopo averlo squadrato a lungo disse: “14”. Il ragazzo non ci pensò un attimo e rispose:”7” e si diresse verso il portale. La spada laser si abbatté su di lui con un fruscio appena udibile. La sua testa rotolò lungo il ponte prima di cadere nel fossato. I Sardar presero il corpo affusolato e muscoloso e lo gettarono di sotto senza parlare. Paularius rise. Un altro troppo furbo che non afferrava neanche un minimo problemino di logica. Ai suoi tempi uno così non sarebbe neanche arrivato alla maturità. Se ne tornò a casa scrollando la testa, con una simile gioventù che speranze poteva avere la galassia. Beh credo che per voi non ci sarebbero stati problemi a dare la giusta controparola, ma non so se i corsi dell’Università di Surakhis, vi avrebbero interessato più di tanto, troppa filosofia del condizionamento mentale, tecnica della corruttela e diritto dei fallimenti.

martedì 29 dicembre 2009

L'oggetto misterioso 1.


Ripensando alla zia Blanche che ho menzionato nel post di ieri, ho pensato di cominciare un nuovo filone che si richiama ad una trasmissione degli anni ’60, presentata, se non sbaglio, da Enzo Tortora, detta appunto: l’Oggetto Misterioso. Ho infatti scoperto di avere la casa piena di oggettini di nullo valore, ma curiosi, raccolti in giro per il mondo in quaranta anni e spesso di difficile interpretazione, che voglio proporvi di tanto in tanto per vedere se qualcuno riesce a scovarne l’uso o il significato, che rivelerò dopo qualche giorno. In verità sarà una scusa per raccontare qualche storia che mi sembra di qualche interesse. Il primo oggetto è, come si vede bene, una piccola figurina, aggiungo molto piccola, diciamo un paio di centimetri di altezza e la ebbi proprio da zia Blanche, una volta che andammo da lei, poco prima che se lei ne andasse per sempre. Lei, che aveva sempre vissuto a Parigi e dei parigini aveva tutta la sicurezza ed il distacco metropolitano, era tornata ad Argentan da lontani parenti nella nativa Normandia. Un piccolo paese rurale in cui si potevano gustare, nelle piccole trattorie, le ricche tradizioni culinarie della zona. Le case del paese, tutte addossate le une alle altre, di pietra grigia, nascondevano delle vite tranquille di artigiani o di agricoltori, come i molti piccoli cascinali sparsi nelle vicinanze, alcuni con i pavimenti delle cucine ancora in terra battuta. Ognuno con un piccolo allevamento di vacche Charolaise, sparse attorno al fienile, su prati verdi smeraldo sempre umidi per la pioggia che scende sottile e continua. Non vi sto a raccontare dei meravigliosi formaggi di cui questi animali era i responsabili assoluti, né del sidro frizzante e fresco che ti veniva offerto continuamente o del calvados maison da 50 gradi che ci portammo a casa in una bottiglia di vetro di acqua Perrier. Anche il cimitero era piccolo e le tombe dalle lastre grigie stavano distanti le une dalle altre, come per non darsi fastidio e dietro, sul lato più a nord, c’era una chiesetta sempre chiusa con davanti un minuscolo “calvaire” con le statue incurvate e magre, anche loro forse, consumate dalla pioggia. Quando ci diede la figurina assieme al suo contenitore, ci spiegò la tradizione, anche se stava già molto male con una grande lucidità, nonostante gli anni. Quando ritornammo, dopo un paio di mesi, per accompagnarla a quella chiesetta, la Pasqua era passata da poco e per questo la figurina stava già lì, dove è ora, pulita e muta.

lunedì 28 dicembre 2009

Macchine infernali.

Ho un rapporto difficile con la tecnologia, un po’ come Buster Keaton e le macchine. Non lo faccio apposta, io la amo, in realtà, la tecnologia e la ricerco con passione. E’ lei che mi respinge, quasi che le fossi antipatico, come una giovinetta bizzosa e desiderata che non si decide a baciare il ranocchio impenitente che vorrebbe impalmarla, possederla definitivamente. Ho cercato in vari modi di acquisire i fondamentali teorici per l’uso dei mezzi, ma non c’è niente da fare, il meccanismo è riottoso, mi scaccia e in generale si rifiuta semplicemente di funzionare. Va bene ho anch’io una mia piccola responsabilità, nella mia opposizione ottusa ma pervicace di prendere visione, anche solo sommaria, come il maschio italiano in genere, di qualunque tipologia di libretto di istruzione (vi ricordo che in cinese si dice Xiao Ming Shu: il libretto della luce, che illumina, tanto per capirci). In questo so di essere compreso da tanti, ma il fatto è che qualunque oggetto tecnologico acquisti, in genere, questo non vuole pervicacemente mettersi in moto, fare il suo lavoro o ha un qualche piccolo difetto nascosto, un vizio occulto che non si poteva prevedere al momento dell’acquisto. Tanto per fare degli esempi a caso, un bel televisore Philips (cito appositamente la marca, se qualcuno del customer care, si volesse fare vivo) che bramavo da tempo e di cui avevo studiato con cura i riferimenti tecnici, un vero e proprio top di gamma, si rivelò un totale bidone dal punto di vista del suono, con altoparlanti di pessima qualità che dopo pochi giorni vibravano a manetta, riempiendomi la casa di un frinire di grilli. L’appunto citato customer care, mi trattò a calci in faccia, ignorando completamente il mio problema, non ci perse tempo, ma perse certo tutti i miei successivi acquisti e anche quelli dei miei amici a cui facevo vedere l’oggetto. Almeno questa soddisfazione, sono molto vendicativo in questi casi! La centralina della mia macchina, 15 giorni dopo la scadenza della garanzia cominciò a battere i coperchi, probabilmente bastava un’occhiata per una piccola saldatura o connessione da rimettere a posto. Niente da fare bisognava sostituirla con una nuova a 2300 Euro oppure, bontà loro, con una “ricondizionata” a 1800, in pratica una come la mia, rimessa a posto in pochi minuti. Ho detto che piuttosto la spaccavo col mazzuolo, la scheda maledetta, ma intanto non ho sentito la radio per due anni. La stampante di gran qualità mi ha abbandonato anche qui pochi giorni dopo il dovuto. Forse una cartuccia non funziona bene. Bisogna gettare via tutto. La cosa è ancora in discussione. Ecco perché adesso, quando compro un aggeggio, lo pago sempre più caro, ma pretendo che mi venga istallato e che sia funzionante prima di pagare, se no potete star certi che appena a casa, tolto dal’imballaggio colorato, liberato dagli orpelli del marketing, sicuramente mancherà qualche cosa, una presa, un filo, una connessione, un optional che nel mio caso era assolutamente necessario e imprevedibile, una situazione personale di diversità che io, colpevolmente, non avevo fatto presente al povero venditore, in generale un ragazzotto assunto di settimana in settimana che non sapendo se il successivo lunedì venderà i navigatori o i forni a microonde, ti fa sempre segno di sì con la testa come i cagnolini che si mettevano sulla cappelliera posteriore delle macchine degli anni 60. Eppure continuo a cascarci, quando non è possibile diversamente. Così appena arrivato qua sulle nevi, ho tentato l’installazione del nuovo ed obbligatorio decoder. Naturalmente, dopo gli opportuni collegamenti, lo schermo è rimasto desolantemente muto, tra le ire dei famigliari imbufaliti. Per mia fortuna, la portinaia, subito chiamata in aiuto, dopo aver armeggiato pochi secondi, ha sentenziato che in questi casi è un problema di SCART e dopo aver rigirato il cavo ed aver bene infilato la presa, la luce e la pace è tornata in famiglia che non sospettava che io lo stessi facendo per il loro bene. Mi sono allora ritirato nel mio spazio mentale, per dedicarmi a voi, miei stimati lettori, inserendo la ricaricatissima chiavetta TIM nel suo apposito foro, che l’ attendeva come un’amante da saziare. Ovviamente alla richiesta dell’ennesimo PIN, l’operazione si è rifiutata di dare esito positivo e le mie lodi al Dio dei computer sono salite alte e colorite, lasciandomi poi spossato ad un sonno senza riposo, popolato di incubi, dopo che inutilmente avevo tentato di colloquiare con una voce umana al 119, cercando senza esito di scavalcare i prema 1, prema 3, prema cancelletto. Stamane, conoscendo anche la vostra ansia nel vedere la mia pagina muta, la mia prima cura, dopo le augurali abluzioni di rito, è stata di correre al più vicino centro TIM, (aperto anche alla domenica, dato che mi trovo tra le piste di sci!) e una gentilissima signorina mi ha consolato dicendomi che avrebbe parlato lei direttamente con l’irraggiungibile operatore umano, con l’avatar risolutore. Seguendo le istruzioni, mi ha fatto infilare la chiavetta (in pubblico, che vergogna!) e ohibò, tutto funzionava benissimo, naturalmente. La gentile addetta, probabilmente usa a queste scene, non ha neppure mostrato sorrisetti ironici mentre me ne andavo con la coda tra le gambe ed è passata ad accudire il disgraziato successivo. Bene, a casa la chiavetta funziona, ma al contrario che all’interno del negozio, il collegamento è debolissimo, per cui dovrò soffrire assai per postare qualcosa nei prossimi giorni. Non vogliatemene ma come diceva la mia zia Blanche di Parigi ogni volta che rompeva un piatto, j’ai les deux mains gauches pour faire les vaseilles, frase che rappresenta esattamente il mio rapporto di amore/odio con la tecnologia.

domenica 27 dicembre 2009

Lettera aperta al Signor Sindaco di Alessandria.

Lettera aperta al Signor Sindaco di Alessandria.

Egregio Signor Sindaco, approfitto del fatto che subito dopo Natale, tutti sono satolli di cibo ed assolutamente inclini a trovare soluzioni condivise nel generale clima di bontà che in questi giorni si è disteso sul paese come una cappa lieve, per scriverLe questa lettera aperta, certo che Lei, che so molto attento alla comunicazione ed alle sue sottigliezze, le darà un’occhiata non distratta. Io ho la sventura di risiedere nel quartiere che il fulmineo abbattimento del ponte Cittadella ha reso assai duro da vivere. Certo è stato magnifico vedere, se come sembra era necessario, in una settimana ed oltretutto in pieno agosto, mese insolito per lo svolgersi dei lavori pubblici, ogni pietra del ponte sia stata portata via con una efficienza rara ed encomiabile. Pensi che io mi ero addirittura aspettato che con altrettanta rapidità cominciasse la costruzione del nuovo ponte, anche per sbugiardare le Cassandre che pretendono che quelli della nostra età, non arriveranno mai a vederlo. Gente di poca fede senza dubbio e forse si fa male a definirle Cassandre, che, come ben si sa, non era ascoltata, ma vedeva perfettamente il futuro; speriamo di no. Ora, si sarebbe trattato, quantomeno di rendere il meno invivibile possibile il quartiere Piscina per gli anni che verranno, siano quelli che siano. Io penso che concorderà con tutti noi che ci abitiamo, che la scelta logistica che è stata fatta è stato un tragico errore che trasforma nelle ore di punta, tutto lo Spalto Borgoglio, reso tragicamente senza vie d’uscita, in un budello privo di speranze, che costringe i residenti (gli altri no, per fortuna, giacchè tutti hanno capito come, giustamente, sia esiziale alla salute fisica e mentale, frequentare questa parte della città) a compiere un percorso infinito, andando a destra per chi vuole andare a sinistra e viceversa, un giro dell’oca mortale con coda punitiva ad ogni rotonda, sbattuti fino alla prigione del Londra senza passare dal via. Ore ed ore che passeremo in macchina per anni, ammorbando l’aria per le centinaia di chilometri in più percorsi senza colpe, lanciando maledizioni a chi ha imposto questo contrappasso dantesco. Per la verità a tutto c’è rimedio, in questo caso, poi, basterebbe, senza alcuna spesa, a costo zero si direbbe, per lo meno, provare a fare un intervento minimo che, di certo, e qui tutti ne sono convinti, agevolerebbe e di molto anche se non risolverebbe del tutto, il problema. Infatti l’apertura della rotonda del Liceo Scientifico, consentirebbe di smaltire tutto quel traffico (di residenti) che debbono inutilmente proseguire fino alla ronda successiva per tornare indietro creando una doppia coda; inoltre l’apertura dei varchi di Spalto Borgoglio, inopinatamente chiusi, consentirebbero a chi deve andare verso lo Stadio di evitare di gravare ulteriormente il flusso verso la stazione. Io penso che Lei sia stato mal consigliato e che adesso, chi ha deciso con pervicacia di non voler correggere un errore così evidente, La costringa non soltanto a incaponirsi in questo cul de sac senza uscita, ma anche a gettare 500.000 euro in una inutile ulteriore rotonda, come ci ha ben illustrato nella lettera che ha avuto la cortesia di mandarci. Riconoscere un errore è sintomo di umiltà e di intelligenza, oltretutto quando si può correggere senza spesa. La prego, dimostri di saper prendere le distanze da chi non vuol prendere atto dei fatti, per poter con giusta ragione continuare ad essere uno dei sindaci più amati d’Italia. Lo sa, il volgo è suscettibile, ci vuole un attimo a perdere il favore delle masse. Con l’augurio che questi giorni di pace e serenità Le consentano di meditare con calma sul problema, lontano da cattivi consiglieri, Le invio, con immutata stima, i miei più cordiali saluti.

Enrico Bo

Come prevedevo il nostro Sindaco mi ha prontamente risposto quanto segue:

Caro
signor Enrico,

purtroppo
la dimostrazione di cosa vuol dire aprire la rotonda dello scientifico l’ha
avuta qualche giorno fa. Un buontempone lo ha fatto di soppiatto nel pomeriggio:
risultato? Quello da voi preconizzato? No: coda fino a largo Catania, coda da
San Michele, coda dal cavalcavia, coda fino in piazza
Garibaldi.

È
proprio vero che ogni tanto manca a qualche mio concittadino il senso
dell’astrazione. Non bastano le simulazioni al computer (trova tutto sul mio
sito www.fabbio.it) occorre provare. Il che
equivale a dire che se non metto la mano in bocca al leone non sono convinto che
me la stacchi con un morso.

Purtroppo
il flusso del traffico indirizzato tutto su un ponte non poteva che portare
squilibri che, nei prossimi mesi si compenseranno con due misure convergenti: la
costruzione della rotonda davanti al palazzetto (si ricordi che serve anche un
elemento fisico di contenimento e riduzione della velocità se parliamo di
sicurezza stradale) e la conclusione della tangenziale fino al casello di San
Michele. Occorre avere solo un po’ di pazienza e un po’ di fiducia in chi ogni
giorno studia questi problemi e individua soluzioni
possibili.

Contraccambio
a lei e famiglia i migliori auguri di buon anno con ancora una postilla: se un
ponte si può demolire in fretta non altrettanto tempo ci vorrà per costruirlo.
Come avrà certamente letto il 22 dicembre abbiamo firmato l’accordo di programma
che mette a disposizione 18 milioni di euro per la realizzazione entro il
dicembre 2012 del nuovo ponte Tanaro, che certamente – anatemi di Sgarbi a parte
– percorreremo insieme.

Piercarlo
Fabbio

Carissimo Signor Sindaco

Innanzitutto La ringrazio per la pronta risposta, ma La prego non sia così irritato, Le ho scritto durante le feste proprio perché tutti sono più sereni e disposti al dialogo ed anche a prendere in considerazione punti di vista diversi. Io, fossi in Lei, non avrei timore di mettere alla prova le teorie dei miei esperti, soprattutto se si può fare senza spendere un Euro. Quello che è successo l’altro giorno in seguito all’inopinato e sciocco intervento estemporaneo di qualche buontempone, non può essere preso a testimonianza, proprio per la casualità e l’irregolarità dell’evento. Invece lasciare aperta la rotonda dello scientifico per 3 o 4 giorni sarebbe una buona (e gratuita) prova per rafforzare le Sue ragioni e dare una soddisfazione ad una bella fetta di popolazione (votante) che altro non aspetta che di essere convinta della bontà di alcune scelte.

Per il resto concordo assolutamente che nessun ponte può essere costruito in una settimana, ma sicuramente un ponte dovrebbe essere abbattuto solo il giorno antecedente alla posa della prima pietra del nuovo ponte e non con un anno di anticipo, tanto per portarsi avanti coi lavori. Sarebbe stato un anno in meno di (certamente inevitabili) disagi. E non è mica poco.

Con rinnovata stima

Enrico Bo

giovedì 24 dicembre 2009

Buon Natale a tutti!

Ispirato da Milleorienti , auguro a tutti i miei amici un Buon Natale e poichè qui si sentono i refoli del vento dell'est, il Buon Natale è in stile Punjabi!


mercoledì 23 dicembre 2009

Белый Дом.

Così arrivammo di nuovo a Mosca. Una Mosca preoccupata, impaurita, dove si sentivano crescere le tensioni sociali e politiche. Per il momento tutto era stato sedato ed i carri armati erano rientrati, ma pochi mesi più tardi, ad ottobre, ci fu un tentativo di golpe, con i deputati, capeggiati da Kasbulatov, un ceceno e quindi, già di per sé stesso, malvisto, che si asserragliarono nella Duma, la Casa Bianca di Mosca, assediata per giorni e poi incendiata. I segni di quel rogo rimasero evidenti per molto tempo, fino a quando l'edificio fu dato in appalto ai turchi per essere ristrutturato, come si vede dalla foto. Elzin ed il suo gruppo prese definitivamente in mano il paese e segnò l'indirizzo economico e politico del decennio successivo. Appena arrivati a Sheremetievo, l'aereoporto internazionale, si capiva che la struttura organizzativa e le regole del precedente ordine costituito avevano ceduto di colpo. Appena si aprì il portellone infatti, la prima persona ad entrarvi, non fu il solito poliziotto, ma nientemeno che il nostro caro Zhenija che ci veniva ad accogliere direttamente dentro l'aereo, per occuparsi di persona dei bagagli. -Di questi tempi bisogna stare attenti.- disse con tono cospiratorio. L'autista del bus, dietro compenso, ci portò direttamente fuori dell'aereoporto alla macchina che ci aspettava, saltando tutti i controlli. Ma alla macchina, con nostro disappunto erano state svitate le targhe, in quanto giudicata in divieto di sosta, con una interpretazione molto fantasiosa. Era questo il sistema utilizzato dai GAY (la polizia del traffico) per riscuotere le multe. Andammo fino al baraccotto dei vigili a trattare la restituzione che ci costò una intera scatola di sigari Garibaldi appena arrivati dall'Italia a cui Ferox teneva moltissimo, ma solo in questo modo ci furono restituite targhe e cacciavite per poterle riapplicare. data la temperatura, però, il vetro era completamente ghiacciato. Ferox andò a comprare una bottiglia di vodka al vicino kiosk e la fece colare sul parabrezza con la perizia dettata dall'esperienza, tra l'orrore dei passanti che vedevano il prezioso liquido colare inutile nella neve. Ma la vodka allora costava circa la metà dell'antigelo, allo stesso kiosk ed era molto più efficace, come fu subito dimostrato. Ritornare in centro non fu facile. Piazza Majakovsky era chiusa, bloccata da un corteo pro-Elzin; lungo la strada già avevamo dovuto fare una lunga deviazione, davanti allo stadio, gli OMON in assetto antisommossa avevano sgomberato il popolatissimo mercato, pieno di gente del Caucaso, con la scusa dell'ordine pubblico da mantenere. Era già chiaro, ma allora nessuno lo capiva, che proprio nel Caucaso si sarebbero potuti individuare futuri nemici contro cui scatenare guerre diversive e da incolpare dei guai che si stavano abbattendo sulla Russia. Il giorno dopo me ne sarei tornato finalmente in Italia, a casa, dopo 43 giorni passati in una nazione completamente nuova, carica di problemi e con poche ricette e nessuna esperienza per risolverli. Era il primo di innumerevoli viaggi che avrei fatto da quelle parti, nei quindici anni successivi, una esperienza straordinaria per tutte le persone che ho potuto incontrare, per tutte le situazioni con cui ho potuto confrontarmi, per tutte le cose che ho cercato di capire, spesso senza riuscirci, ma che mi hanno arricchito come forse nessun altro posto o avvenimento ha potuto fare. Assistere ai grandi cambiamenti con l'occhio dell'estraneo è un privilegio che può capitare poche volte nella vita. Manco da qualche anno da Mosca e posso dire con sincerità che mi manca il suo clima duro, i suoi odori impastati di sudore degli ambienti troppo caldi, il morso del gelo sulla pelle che ti fa affrettare verso un luogo riparato, gli occhi tristi della gente che esce dalla Metro al mattino, le risate amare davanti alle bottiglie di vodka, i rumori attutiti nei parchi coperti di neve. Forse non avrò più l'occasione di vedere la stella rosso rubino sulla torre Spaskaja, allora mi farò bastare la possibilità di sentire ogni tanto gli amici che la possono vedere ancora anche per me.

martedì 22 dicembre 2009

Riva lontana.

Del nostro soggiorno ad Irkutsk, ho già parlato abbondantemente qui e non starò a ripetermi. Mi piace soltanto sottolineare la sensazione di perdita di contatto con il resto del mondo, dell'essere in un luogo così lontano dalle mete usuali. In una terra, tutto sommato povera di presenza umana, questa si concentra tutta in pochi luoghi, quasi a creare un fortilizio dove proteggersi da una natura incombente, totalizzante, non tanto amica per la verità. Le temperature sconvolgenti per buona parte dell'anno, l'immensità sconfinata delle foreste che ti circondano fino a perderti nell'assenza di segni di riconoscimento, il terreno, un cemento di ghiaccio che per pochi giorni all'anno si trasforma in una fanghiglia collosa ricoperta da nuvole di feroci e piccolissime zanzare, rendono questi spazi difficili da vivere per chi ha avuto la ventura di esserci capitato, per caso o per forza. Il lago, immenso, è circondato da territori che, al di fuori dei locali, conoscono solo i giocatori di Risiko, la Yakuzja, Chita, la Buriazija, sono nomi remoti che richiamano solitari cacciatori di pellicce del grande nord. Avventure alla Jack London alla ricerca di scheletri di mammuth sepolti nel permafrost. La realtà è come sempre più prosaica, meno poetica. Sulla lastra di ghiaccio che ricopre il lago, spessa quasi quattro metri, passavano i camion lungo una pista lunga una ottantina di kilometri che attraversavano da una riva all'altra. Dall'alto della collina la fila del convoglio di mezzi che andava verso est pareva una coorte di formiche nere che si allontanavano lentamente. Il grande bacino, riserva d'acqua dell'umanità, è in realtà devastato da enormi complessi per la produzione di alluminio e da colossali cartiere che sfruttano le foreste del nord, inquinando l'acqua a più non posso. Ma tutto quanto avviene quasi a seicento kilometri più in su e sulle coste più meridionali del lago, nei piccoli porticcioli dove i pescherecci sembravano galleggiare sul ghiaccio, non si avverte la morsa dell'inquinamento e i piccoli insediamenti di casupole basse di legno parevano parte del paesaggio, con i piccoli fili di fumo che escono dai camini appena emergenti dalla neve. Dovemmo bere, per compiacente condiscendenza, un bicchiere dell'acqua purissima del lago, prelevata direttamente da un buco di pescatori nel ghiaccio trasparente del porto, sotto il quale si intravedeva una bicicletta e altri rottami gettati durante la breve estate siberiana. In città entrammo all'Univermag, ma la penuria di merci era pesante e pochi clienti stavano in coda davanti a banconi dagli scaffali desolantemente vuoti. Era ben rifornita solo una sezione di cetrioli in composta e quella delle pantofole di pelo. Ne comprai un gran numero per fare regalini, anche se in quel mese erano disponibili solo di misura 37. Gli alberghi erano infestati di signorine desiderose di sbarcare il lunario, di cui era difficile liberarsi, essendo la presunta clientela sempre più rarefatta. Questa del mercante sempre in cerca di femmine su cui sfogare i suoi istinti primordiali, deve essere una costante millenaria. Pensate ne parla anche diffusamente il buon Marco Polo nel Milione, vera Lonely planet del mercante in viaggio, che segnala appunto le zone e i paesi dove le fanciulle sono più gradevoli o date in disponibilità dagli stessi mariti, ben felici di favorire lo straniero apportatore di ricchezza. Illustra il Veneziano, con dovizia di particolari, segnalando anche la tipologia di dono più gradito, in genere spille o gioie varie di cui il mercante provvedevasi per la bisogna e descrive situazioni in cui le giovani meno desiderabili e che quindi potevano mostrare esposte sulle vesti o tra i capelli, meno doni ricevuti, risultavano poi di difficile collocazione. Sta di fatto che chi desidera liberarsi di questo, fastidioso se non richiesto, servizio, deve escogitare diverse strategie per starsene tranquillo, in attesa che le tigri trovino altre prede giunte assetate all'abbeveratoio. Già, per gli appassionati dell'argomento, ho raccontato dei boomerang qui, segnalo solo un altro caso simpatico in cui mostrando casualmente delle foto in cui il nostro buon Zhenija era rapato a zero, ci qualificammo come inventori e detentori unici della formula segretissima di un prodotto per una totale ricrescita dei capelli. La fluentissima e ricca chioma che esibiva il nostro al momento, era proprio la ragione per cui lo conducevamo nella nostra road map per meglio piazzare il prodotto. Questo spiegone, unito alla gentile offerta di una bicchierino di Amaretto, servì ad allontanare definitivamente le questuanti, attirate anche dall'arrivo di un gruppo di rubizzi manager tedeschi, facilmente catalogabili come più bisognosi di attenzioni e particolarmente ricettivi. Ma venne anche il momento di lasciare il gelo di Irkutsk per tornare a Mosca, per fare il punto della situazione, per tornare a casa. La Siberia, sconfinata illuminata dal sole, brillava diecimila metri più in basso, come un tappeto di madreperla, niellato dalle incisioni d'argento dei fiumi gelati. Un tempo infinito per sorvolare il nulla più assoluto, eppure quando arrivammo, dopo sette ore di deserto bianco, era passata solo un'ora. Miracoli del fuso.

BachecaWeb

lunedì 21 dicembre 2009

Letargo glaciale.

Accidenti, da ieri è calato un gelo mortale, siamo stati tutta la notte a -10°C , non ce la fa neanche a nevicare. Forse nel pomeriggio scenderà pesante una nuova coltre bianca a coprire questa città, precipitata all'ultimo posto tra i capoluoghi del centro-nord, in linea quindi con la testa dei suoi vecchi abitanti, ad ottundere i rumori, le menti, le idee già poco vivaci per inclinazione naturale. Un po' come nei boschi di betulle di Jangantau, dove pareva, in quell'inverno del '93, che niente potesse interferire con la gran pace che regnava tra le alte colline. Una calma quasi letargica, dove anche i piccoli problemi del nostro impianto, si discutevano con i tempi biblici delle calde isbe sepolte sotto la neve dell'inverno russo. Lontano migliaia di verste, a Mosca era in corso una lotta feroce per colmare il vuoto di potere che si era creato, ci si batteva senza esclusione di colpi per chi dovesse prendere in mano la nuova Russia bambina e la sua ricchissima eredità, nata da poco, già così contesa dalle dita adunche dei predatori, che si accalcavano dentro e fuori dalla Duma, la casa bianca russa, antagonista del Kremlino nella battaglia dei nuovi oligarchi. Noi, come ci diceva tranquillizzante il vecchio dottore che dirigeva il sanatory, eravamo fuori dal mondo, lontano da questi giochi e nulla dovevamo temere. Come in passato, quando avvenivano questi rivolgimenti, la provincia lontana, entrava in un sonno di tipo letargico, aiutata dal clima, e attendeva il trascorrere della nottata per capire chi aveva in mano il bastone del comando e uniformarsi al nuovo corso. Tutti i responsabili politici si davano malati, in attesa delle nuove fotografie da appendere al muro degli uffici. Non rimaneva che chiacchierare di letteratura, senza esporsi troppo e riposare con calma. La banija, la sauna russa con relative vergate di rami di betulla era il luogo ideale, ma, per amor di patria, trascurerò di scendere nei particolari, tutto sommato inutili al succo del racconto, se non per puntualizzare che qui fu presa la decisione di non interrompere precipitosamente il viaggio e di confermare i biglietti, aerei questa volta, secondo la corretta alternanza che ho già precedentemente spiegato, alla volta di Irkutsk, nel cuore della lontana Siberia, sulle rive di quel lago Baijkal, letto solo sui libri, il bacino d'acqua più profondo del mondo che contiene il 20% delle acque dolci della terra. Rimanemmo ancora un giorno nella pace degli Urali, guardando dall'alto il fiume d'argento, mangiando shashliky tra una interminabile foresta di bottiglie di vodka, nella calda dacia di legno, puntualizzando il progetto che avrebbe preso vita in primavera quando l'acqua mineral-radioattiva della fonte miracolosa, avrebbe finalmente avuto il corretto imballo che si meritava per poter prendere le vie del mondo. All'aeroporto eravamo in pochi, nel cuore della notte gelata. Nella saletta internazionale dove eravamo confinati, trovammo solo un bulgaro dalla faccia da lottatore che pareva uno di quei mediatori da foro boario delle Langhe. Vendeva di tutto e girava le estremità delle Russie cercando piccoli business commerciali, una specie di rigattiere ambulante di prodotti vari, segno dei tempi. Dappertutto, in ogni tempo, le necessità che nascono, vengono subito riempite da qualcuno, i bisogni vengono coperti, se manca la carta igienica in Chukotka a diecimila kilometri da Mosca, qualcuno sicuramente penserà che conviene andarci e vendergliela. Così dovunque andrete per il mondo, troverete sempre degli uomini, all'apparenza anonimi, con una piccola valigetta in mano, la valigetta dei contratti, nera e piena di carte, di foto e di campioni che aspettano un aereo, un treno, un autobus, che attaccano bottone con i vicini, tanto per ingannare le lunghe attese. Vi chiederete cosa ci fanno in quel posto sperduto e apparentemente privo di interessi. Stanno lì, silenziosi o chiacchiericci, pensierosi, a inventarsi qualcosa per portare a casa del lavoro ad altri, che aspettano a casa, con impazienza, di cominciare a fare delle cose, a muovere le macchine, a produrre roba. L'aereo che portava ad oriente, sempre più malandato man mano che ci si allontanava da Mosca, aspettava immobile di partire sulla pista di ghiaccio nel cuore della notte. Anche noi salimmo quella scaletta, silenziosi, verso un'alba gelida, remota.

sabato 19 dicembre 2009

Vivere a Ufa.

Ufa, capitale della Bashkiria, i cui abitanti si chiamano Ufimzy, tanto per rispondere alla domanda di Popinga di ieri e non Ufologi, come suggeriva Ferox in un anelito di contatto del terzo tipo, risultava essere a quel tempo, una delle città più inquinate dell’impero sovietico. L’aria aveva un perenne sentore di fenolo e Ferox mi raccomandò di usare poco l’acqua del rubinetto, perché sulla pelle rimanevano strani e sospetti rossori. Malelelingue affermavano che il numero di nascite con deformazioni, superasse ogni altra zona conosciuta. L’impressione era un po’ quella di una zona un po’ fuori dal controllo centrale, dove le camarille locali facevano un po’ il bello ed il cattivo tempo. Gli incontri con diversi personaggi equivoci, che si spacciavano per i maggiorenti locali ce lo confermò, così come un losco personaggio, tale N. che come credenziali ci assicurò di essere stato in galera cinque anni prima per crimini commerciali. Sembrava questa una specie di medaglia al valore che contraddistingueva chi era in grado di offrire buoni affari. Per fortuna presto arrivò la macchina che ci doveva portare a Jangantau, dove, essendo arrivata la conferma del pagamento della linea di imbottigliamento dell'acqua minerale, ci attendevano alla fonte per il progetto dell'impianto. Della cosa avevo già diffusamente parlato qui e anche qui, per cui, chi volesse maggiori dettagli, li troverà. Ricordo solo il nostro stupore nel trovare nel luogo, dove ci aspettavamo un capannone pronto ad accogliere il nostro impianto, una landa desolata con un tubo di acqua che fuoriusciva da un laghetto ricoperto di spesso ghiaccio verdastro. Era la famosa fonte ricolma di benefiche proprietà minerali radioattive, grazie alle quali, il vicino sanatory era pieno zeppo di curandi. Non rimase che fare la foto ricordo, davanti al cumulo di neve dove sgorgava l'acqua miracolosa mentre il capo delegazione, si sacrificava a (far finta di) bere un sorso del famoso elisir di lunga vita. Non era chiaro quali fossero i motivi dei benefici effetti dell'acqua stessa e delle cure che venivano lì praticate, ma, come ci spiegò il gran dottore capo del sanatory, c'erano almeno una trentina di teorie sugli effetti di quello che definì come un reattore naturale sotterraneo, da cui emergevano effluvi vari, tra cui il radon. Tra le altre cure sperimentali, parevano particolarmente efficaci certe sedute di vapori in cui il malcapitato veniva rinchiuso con la testa fuori, in una specie di stufa/bara fatta con dei frigoriferi finlandesi di recupero. Era la genialità russa dell'arrangiarsi e non potemmo esimerci dal sottostare alla cura, su cui però, vorrei soprassedere. Nel gran banchetto di benvenuto della sera, capimmo che i responsabili volevano da noi anche un aiuto sottoforma di suggerimenti utili a costruire un capannone degno della tecnologia occidentale che avrebbe ospitato, ma non avendo sottomano strumenti idonei, mentre le bottiglie di vodka vuote si allineavano a terra nella grande dacia di legno nascosta nella foresta di betulle, coperta di neve ma riscaldata all'inverosimile, prendemmo alcuni fogli di carta igienica, gli unici disponibili sul posto, dove fu vergato uno schema di capannone utile alla bisogna. La carta, che era robustissima essendo del famoso tipo chiamato "la vendetta di Stalin". conosciuta per rendere di un bel rosso vivo le parti interessate a causa della sua ruvidezza, funse perfettamente allo scopo e risulta che fosse inserita successivamente tal quale, nel fascicolo descrittivo del progetto. Mentre i convenuti cominciarono a rotolare come previsto dal protocollo, sotto il tavolo ad uno a uno, calò la notte pesante. Tra le montagne di Yangantau, mentre sul fondovalle il nastro d'argento del fiume formava una grande esse prima di scomparire tra le colline, regnava una pace plumbea, ma c'era nell'aria un turbamento profondo. Ieri erano circolate strane voci provenienti da Mosca. Eravamo riusciti, nel tardo pomeriggio, ad avere la linea telefonica e la moglie di Ferox ci aveva detto con una certa preoccupazione che c'erano i carri armati sulla Kutusovsky che entravano in città e non si capiva cosa stesse succedendo. Al mattino fu sospeso il segnale TV e tutte le linee telefoniche. Dovevamo essere ricevuti dal sindaco in pompa magna, ma ci dissero di rimanere alla dacia, perchè il sindaco aveva l'influenza. A questa notizia ferale e sospetta, Ferox cominciò a preoccuparsi, stava succedendo qualcosa di grave.

venerdì 18 dicembre 2009

Mercati internazionali.

Lasciammo la città segreta di primo mattino. La guardia ai reticolati ci restituì i passaporti con grandi risate e ce ne andammo a tutta velocità. Eravamo di nuovo in ritardo e ci voleva più di un'ora per la stazione di Ekaterinburg (nell'occasione Sverdlosk aveva cambiato nome), dove ci aspettava il treno delle 8 e 35. Questo era il turno in cui avevamo deciso che mai più avremmo preso l'aereo. Ripercorremmo la strada sul lago ghiacciato a velocità folle; io tenevo gli occhi chiusi, stretti stretti, mentre tutti cantavano a squarciagola 'O sole mio, forse per esorcizzare il dio dei ghiacci. Arrivammo in stazione alle 8 e mezza, appena in tempo per abbracciare gli amici, ancora un po' groggy per la serata precedente. Del treno neppure l'ombra. Zhenija era inorridito. Era impossibile che il treno della Transiberiana fosse in ritardo. Infatti. L'orario del biglietto era scritto con l'ora del fuso di Mosca, quindi eravamo arrivati con due ore di anticipo, ci spiegò il rubizzo capostazione, che subito si fece in quattro per darci una mano, anzi ci cedette la sua cameretta personale per lasciare i bagagli, assolutamente insicuri, di quei tempi, certificò con serietà, al deposito bagagli. Ci sdebitammo lasciandogli una serie di monetine italiane per la sua collezione personale. Andammo così a fare quattro passi all'esterno dove era in pieno svolgimento un gran mercatino di babuske. In una interminabile fila, un gruppo di vecchiette offrivano merci di tutti i tipi disposte su cassette di legno per tenerle sollevate dalla neve sporca. Ekaterinburg era diventato un gran crocevia di traffico di merci povere, che arrivava dalla Cina lungo la Transiberiana. Un folto gruppo di militari intabarrati con le schapke di ordinanza, con tanto di stella rossa controllavano la massa in movimento del mercato, irregolare ma tollerato, in quanto, come diceva la consuetudine del tempo, non espressamente vietato. Una fitta barriera di Zhiguly cariche di masserizie segnavano i confini di quel punto di scambio spontaneo. Una o due volte al mese, le novelle imprenditrici prendevano il treno e arrivavano fino al confine cinese dove si favoleggiava di un immenso mercato, una vera e propria città dell'oro dove tutto quanto si produceva in Cina veniva scambiato a colpi di dollari sonanti. Vestiti, scarpe, alimentari di ogni tipo, biciclette e ogni altro ben di dio che la macchina ben oliata di quella che stava per diventare la fabbrica del mondo, cominciava a sfornare a ritmi vertiginosi ed a prezzi assolutamente concorrenziali. Prezzi, che man mano che il treno si spostava verso ovest, ingrassavano, si facevano più corposi, secondo un meccanismo commerciale a lungo sconosciuto, ma ben presto imparato. A Ekaterinburg, stazione intermedia, i prezzi erano ancora sufficientemente interessanti per spingere le Tamare e le Tanije moscovite ad arrivare lì a mani nude e ripartire cariche di fagotti. Col tempo la fame di guadagno le spinse fino a Pekino, al famoso mercato dei russi, nel quartiere dietro alle ambasciate, dove ti davano il prezzo dei maglioni per un minimo di venticinque pezzi. Ci prendemmo un gelato alla panna dall'unica vecchina che ancora trattava questo buonissimo articolo tradizionale della morente industria russa, ormai circondata (vecchina ed industria) dalle bancarelle che offrivano barrette di Mars, Snickers e Rocher Ferrero, vero oggetto del desiderio dei vari adulti e bambini che si aggiravano qua e là, fermandosi immobili e con gli occhi sognanti come Hansel e Gretel di fronte alla casetta di marzapane, accarezzando con gli occhi le irraggiungibili palline di carta dorata ammonticchiate a piramide sulle cassette delle arcigne streghe. Forse anche quelli, però, arrivavano dalla Cina. Salimmo infine sul treno, che era ovviamente in perfetto orario. Ci mise tutto il giorno a scavalcare gli Urali con lunghe curve sinuose nei fondovalle, tra le colline coperte di foreste bianche. Un paesaggio da stordimento. Io stavo attaccato al finestrino, quasi ipnotizzato dal fascino di quel quadro mutevole, forse perchè ero intorpidito dal freddo, anche se coperto da maglioni e dublionka, a causa del riscaldamento che non funzionava. Arrivammo ad Ufa in Baskiria, alla sera. Giurammo che la prossima volta avremmo preso l'aereo.

giovedì 17 dicembre 2009

Vodka sincera.

Finalmente si è deciso a nevicare. Non ne poteva più da qualche giorno e ieri sera, guardando fuori dalla finestra, si intravedeva scendere qualcosa, come lungo le fasce laterali di questo blog. Non dà tristezza come quando comincia a piovigginare, dà piuttosto una sensazione di attesa positiva. Proprio la stessa che provai allora, guardando verso il lago ghiacciato, dalla piccola finestra del sanatorj di Sverdlosk 44, la sera del nostro arrivo. Era buon segno; intanto se nevicava vuol dire che la temperatura era salita, dai -25°C dei giorni precedenti e l'appuntamento alla fabbrica del marmo, previsto per la mattina successiva, sembrava promettente. Che ci entravamo col marmo, noi tappologi? Niente all'apparenza, ma in un mondo che aveva difficoltà enormi a comunicare con l'esterno, in cui la possibilità di muoversi era quasi negata, chi aveva bisogno di qualcosa si rivolgeva alle uniche persone a tiro che avessero la possibilità di comprare per soddisfare anche con un passaggio in più i loro bisogni. Quando si chiudono le porte con paletti e lacciuoli, se hai bisogno, sei obbligato a giri tortuosi ed alla fine le stesse cose ti costano di più, in soldi e fatica. Così di buon mattino, la italijanskaija delegazija si presentò alla fabbrica del marmo dove il sindaco e tutta la compagnia aspettava in pompa magna. La fabbrica era ferma perchè tutte le macchine (italiane naturalmente) per tagliare le lastre di marmo erano malandate o completamente rotte e senza possibilità di ricambi. Ora direte, ma non potevano chiamare direttamente la ditta e ordinare nuove macchine e ricambi? No, non si riusciva. Dall' URSS e da quella città chiusa agli stranieri, blindata dietro il triplo filo spinato della stolida segretezza militare, non si poteva comunicare, telefonare, chiedere. Ecco quindi la nostra funzione di salvatori della patria, che come capi commessa avremmo, raccolto le necessità, fatto preparare il progetto, approntato e spedito, infine coordinato il montaggio ed il commissioning di una linea completa per la produzione di lastre, piastrelle e così via. Il sindaco era una brava persona che molto pragmaticamente, capiva i vari problemi e aveva una sincera volontà di sistemare le cose, dotando la sua città di un polo produttivo efficiente. La sera, davanti agli spiedini che sfrigolavano sulla griglia improvvisata, dopo la prima bottiglia di vodka si aprì molto. Dietro i suoi occhi tristi avvertivi la voglia di fare cose utili, di servire la propria comunità, anche sentendo dietro le spalle le pressioni degli appetiti dei tanti personaggi che prosprano sotto tutte le bandiere, questo mondo che intreccia il politicante con il lavoro, mignatte che ti si attaccano alle caviglie come non parendo e intanto succhiano la loro ragione di esistenza. Ci raccontò di quando, giovane, era campione di biathlon e di come era bello scivolare sui solchi tracciati tra le betulle, col freddo pungente che ti pizzicava le guance, per fermarti ansante cercando di tenere ferma la carabina, mentre il bersaglio lontano si appannava davanti all'occhio velato dalla fatica. Ma che serenità, confrontata alle sedute del consiglio comunale, dove ai bersagli si erano sostituite belve fameliche da tenere a bada, ognuna interessata solo a staccare il proprio piccolo brano di carne succulenta e grandante di dollari. Firmammo il contratto e della successiva visità parlai già qui, per chi vuol saperne di più. Ci lasciammo quindi con i consueti fraterni abbracci che la vodka rende più lunghi e impastati, con la promessa di rivederci in Italia alla approvazione delle macchine prima della spedizione. Vennero, qualche mese dopo e naturalmente li portammo a Venezia. Dopo il consueto giro, San Marco, campanile, ponti, gondola, aperitivo per apprezzare i mosaici del Danieli, dopo tanti sospiri, gli occhi dell'amico sindaco erano sempre più tristi e mentre li salutavamo, esternando il nostro più sincero dispiacere nel lasciarli andare così in fretta, ci guardò con un mezzo sorriso pragmatico dicendo: -Non raccontate storie, tutti sanno che la cosa più bella della visita di una delegazione è il rumore dell'aereo che se la porta via.-

mercoledì 16 dicembre 2009

Lacabòn.

Domenica scorsa era Santa Lucia, ricorrenza molto sentita nell'estremo nord dell'Europa e anche nel nostro Sud. Stranamente anche Alessandria, città notoriamente schiva di festeggiamenti religiosi, agnostica e dubbiosa su tutto, figuriamoci su questi argomenti e solo da qualche anno trascinata su terreni non suoi, alla ricerca di ipotizzate ed inesistenti radici, ha sempre avuto attenzione a questa data, il giorno più corto che ci sia e compagnia bella. Anzi, da sempre, nella piazzetta dedicata alla Santa, davanti ad una piccola chiesetta sempre chiusa, pur essendo una delle poche pregevolezze architettoniche rimaste in una città di distruttori di memorie, si celebra la festa con le bancarelle che vendono dolciumi, torroni ed un particolare giulebbe chiamato "lacabòn" dal popolo (prometto che non userò mai più questa odiosa parola abusata dai peronisti di ogni provenienza per fottere la gente), con una parola forgiata dal dialetto (lecca-buono) ed illuminante sull'uso di detto dolciume. Si tratta di umili bastoncini di zucchero caramellato che i bimbi amavano succhiare passeggiando, attaccati alla mano della mamma. Un lollypop ante litteram di inizio secolo o forse precedente, che ancora oggi questi bancarellai producono seduta stante e che gli alessandrini acquistano in pacchettini avvolti da un foglietto di carta oleata, con struggente nostalgia e che poi nessuno ovviamente mangia, tanto meno i bimbi che in cambio di barrette varie rigonfie di Nutella e avvolte di tenera cialda, te li tirerebbero in testa immediatamente. Ma tant'è il richiamo del passato che non torna è uno dei topoi del marketing e anche in questo caso funziona perfettamente. Anch'io mi sono uniformato alla consuetudine e ho notato anche quest'anno che succhiando il bastoncino, subito appiccicaticcio, che immediatamente trasferisce la pasta zuccherosa sulle otturazioni, bloccando senza pietà gli interstizi dentali, si entra un po' in una macchina del tempo che fa emergere momenti di un passato lontano, magari usualmente dimenticati. Beh, proprio dimenticato non direi , almeno nel mio caso, perchè, proprio questo frangente fu occasione di una delle più grosse delusioni della mia vita. E' ovvio che quando hai 8 o 9 anni le piccole delusioni dei bambini ti sembrano ferite enormi ed insanabili, ma questa, vi assicuro deve essere stata veramente potente, se ancora oggi me la ricordo così vivida e con un senso di malessere. Dunque, io ho sempre avuto la ventura di frequentare ragazzini più ricchi di me o per lo meno con maggiori disponibilità familiari, venendo così spesso a contatto con oggetti del desiderio che non mi sarei potuto permettere. Proprio frequentando la casa di un mio compagno che, al tempo, mi pareva ricchissimo, venni a conoscenza di un oggetto tecnologico chiamato Viewmaster che mi affascinò immediatamente. Si trattava di una specie di binoculare di bachelite marrone in cui si inseriva un disco di cartoncino dove erano fissate una dozzina di doppie immagini diapositive che consentivano una sorta di visione tridimensionale. Una leva sul fianco permetteva di fare avanzare il fotogramma. I dischi in possesso dell'amico riguardavano le città del mondo, le razze umane, gli animali. Passavamo ore, a casa sua a fare avanzare quelle immagini magiche, le pagode di Bangkok, i grattacieli di NewYork, le piramidi, il Colosseo, il Fujiyama. Sarà lì che è cominciata la mia ansia di conoscere il mondo? Ho ancora perfetta nella mente la figura del Circasso, fiero con baffi, turbante e pantaloni alla zuava. Quaranta anni dopo, a Cherkiesk, la capitale della Circassia, l'ho cercata ingenuamente, quella immagine dai colori sbiaditi ma ancor più vivi del grigiore sovietico reale. Più volte mi è capitato di sovrapporre quei ricordi alla realtà, dai tempi di Tokio e al Gran Canon, valutandone la delusione o la rispondenza alla realtà, sempre più pallida del sogno. L'oggetto però, aveva un costo astronomico, che ricordo con altrettanta precisione, 1350 lire, con inclusi 5 dischetti, come mi faceva notare con una certa malignità l'amico ricco. Non venitemela a menare sulla caduta dei valori di oggi, sulla odierna prevalenza dell'avere sull'essere. Queste bramosie sono una costante di tutti i tempi alla faccia della filosofia. Il desiderio di possesso assieme all'invidia, accompagnano l'uomo fin dalla notte dei tempi. Intanto, a grandi passi si avvicinava il Natale e io, ormai scafato dalla immanenza virtuale dei vari Gesù Bambini (allora non c'era Babbo Natale), facevo trapelare con cautela i miei desiderata alla famiglia, apparentemente sorda alle richieste, ma che io immaginavo attenta alla bisogna. Arrivò un bel giorno che la mia mamma, con fare complice mi prese da parte dicendomi: -Se finisci in fretta di fare i compiti, papà ti porta a comprare una cosa-. Mi si illuminò il cuore, altro che genitori sordi alle richieste, insensibili al mio bisogno vitale! Non resistetti e con l'occhio illuminato da gioia irrefrenabile, postulai:- Mi porta a comprare il Viewmaster.- In risposta ebbi solo uno sguardo interrogativo e totalmente avulso dallo sconosciuto oggetto del contendere. - Ma no, ti porta alle bancarelle di Santa Lucia a comprare il lacabòn!- Davanti a me si aprì una voragine di delusione e precipitai nel baratro di dolore del desiderio spezzato, neppure preso in considerazione, un nero abisso di bisogno assoluto insoddisfatto in cui mi crogiolai assaporandone ogni piega, soffrendone come di una ingiustizia incancellabile. Qualche tempo fa ne ho visto uno, sbrecciato da un lato, la bachelite era fragile, su un banchetto di robivecchi e ne ho subìto una stretta al cuore, un dolore-piacere quasi masochistico che si spalmava dentro di me mentre lo rigiravo tra le mani, come un tempo. Ci appoggiai l'occhio, bramoso come allora di carpirne i segreti, di provarne le meraviglie, di godere ancora di quella wunderkammer virtuale. Questa attrazione fatale per le novità tecnologiche mi è rimasta tal quale e mi condiziona ahimè, completamente. Direte, uomo fortunato se queste sono state le delusioni della tua vita. Concordo, pochi possono dire di avere avuto una vita più fortunata di me (fino ad ora, toccandomi). Poi arrivò Natale ed il mio regalo di quell'anno (se ne faceva uno solo a quei tempi) fu il vocabolario Melzi della lingua italiana in due volumi, come saggiamente indicato dalla maestra Fracchia, che mi voleva assai bene e pensava al mio futuro.

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martedì 15 dicembre 2009

Il Surì.

Eh, quando ci vuole ci vuole! Ma questa marchetta la faccio proprio volentieri. Ci ero stato trascinato per i capelli, sapete quanto sono schivo quando si tratta di andare a provare un posto nuovo dove mangiare e per la domenica a pranzo provenivo già da un sabato con pranzo a buffet (dove mi è difficile contenermi ), seguito da una cena che non ho potuto rifiutare, per cui mi sono svegliato la domenica mattina già contento di aver passato la notte, ma forse non ancora ben disposto a seguire un gruppo di amici per una ennesima strippata. Ma, complice il pallido solicello invernale, sono giunto sulle bellissime colline di S. Andrea di Cassine, già sereno verso il mondo. L'agriturismo Surì è proprio dietro la chiesetta della frazioncina, sopra una collina, con una balconata naturale tra le vigne dell'Acquese che, spogliate dall'inverno ornano di trina delicata le colline che di balza in balza si affollano in questo territorio ormai anche il Nord Europa comincia a scoprire e ad apprezzare. Qui, nella cascina di famiglia, la famiglia Tibaldeschi al completo (e non sono pochi, vi assicuro) ha risistemato poche camere in cui vi sentirete completamente avvolti dall'atmosfera dei vostri nonni, prima di prepararvi per gustare i più tradizionali piatti che questo territorio ha creato. Comincerete con affettati delicati seguiti dalle produzioni conserviere dell'azienda, l'antipasto piemontese, le cipolline in un agrodolce delicatissimo in cui l'aceto quasi scompare senza aggredire, l'insalata russa più classica, il vitello tonnato avvolto da una salsa di mirabile equilibrio, il cotechino, appositamente prodotto dal vicino macellaio e poi, a mio parere, una delle chicche, i caprini prodotti in azienda da unire alla cugnà e ai mieli di diverse fioriture delle 21 arnie aziendali. Sarebbe opportuno che non arrivaste qui, già satolli come me, per non dovere fare sforzi ed assaggiare tutto quello che vi viene proposto, se vi sta, a partire dagli agnolotti di stufato, ai tortelli di magro burro e salvia, delicatissimi a contrasto dei Pissarëi e fasö, piatto piacentino di gnocchetti fatti a mano e fagioli, dalla sapidità decisa e coinvolgente, qui mirabilmente interpretato. Dopo, se ce la fate, dovrete assaggiare almeno la cosiddetta carne nera, uno stracotto per cui non vi sarà necessario il coltello, tanto lo sentirete tenero e scioglievole ed il petto di faraona al forno con le verdure dell'orto. Ma preparatevi per il gran finale perchè dopo esservi lasciati tentare dal più classico dei Bunèt, non dovrete mancare una meringata così delicata ed angelica, da doverne richiedere subito, essendone ormai irrimediabilmente assuefatti, una seconda porzione per vincere la crisi di astinenza che si farà sentire prepotente. Vi avrà fatto compagnia per tutto il pasto il barbera prodotto dall'alpino padron di casa, il buon Tibaldeschi, agronomo in pensione che ha trasformato questa aziendina vinicola, circondata da antiche vigne, in un piacevole luogo di accoglienza. Il tutto per 25 euro, non so se mi spiego. Mi direte, tutte cose classiche e ben conosciute, certo, ma che qualità ragazzi, e poi se volete le spume molecolari di Adrià, andate a El Bulli. Tornerete, tornerete, non preoccupatevi, ma attenzione che per l'estate le camere sono quasi tutte già prenotate da olandesi e tedeschi, che han già capito dove tira il vento. Noi ce ne siam tornati a casa anche col gentile omaggio di un vasetto di confettura di zucca e cotogne fatte dalla mamma, ma eravamo raccomandati, eh! Voi intanto date un'occhiata al sito, qui, poi prenotate direttamente.

lunedì 14 dicembre 2009

Carnevale della Matematica.

Come tradizione oggi 14 dicembre è appena stata postata la 20° edizione del Carnevale della Matematica, che questo mese è ospitato da Matematicamente, il bellissimo blog di Annarita. Come nelle precedenti edizioni, ci si può trovare una ricchissima serie di contributi, direi per tutte le tasche (volevo dire teste naturalmente), da chi ama la matematica seria e si vuole stordire con tutte le ultime novità della ricerca del settore a chi si diverte con i giochini, a volte facili, a volte capziosi e stimolanti. Una vera pacchia insomma per tutti. Invito tutti gli amici ad andare a dare un'occhiata, ce n'è da passare tutte le vacanze di Natale, altro che cinepanettoni! Tra l'altro, (e qui traspare il mio entusiasmo peloso, ma via, consentitemi questo vezzo esibizionistico, altrimenti blogger non sarei, eheheheh) Annarita ha benignamente ospitato anche tre miei piccoli contributi; certo, come direbbe Roberto Zanasi nel suo blog, di pensiero laterale, ma tant'è tutto è passato agli atti e fatevene una ragione. D'altra parte sarebbe bella che un tuttologo non dicesse la sua anche su un fondamentale come la matematica. Chi mi segue, li ha già visti qui, quindi non perda tempo e veda il resto. Quindi buona lettura a tutti e se qualcuno si appassionerà, tanto meglio, ci sono i precedenti diciannove capitoli da andare a sfruculiare.

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domenica 13 dicembre 2009

Verde ghiaccio.

Il giro nelle fabbriche di Ekaterin -burg o Sverdlosk come ancora si chiamava, non fu molto diverso da quello delle altre città. Dovunque impianti fatiscenti che volevano essere sostituiti, riammodernati o anche completamente spostati su produzioni nuove, più efficienti e moderne. Tutti volevano entrare nella nuova era, mancavano solo i soldi, non certo la volontà. Quindi lungo e paziente lavoro a discernere il loglio dal grano, la pula dal riso, insomma, chi la possibilità di avere i dollari ce l'aveva, da chi invece sognava solo di averli. Così via, qua e là, dalla fabbrica di spumante (sovietskoije champagne) con la linea di imbottigliamento a pezzi (sapete che là lo spumante non si fa(ceva) né con il metodo Charmat, fermantazione in autoclave, né con lo Champenois, fermentazione in bottiglia, ma con un metodo brevettato russo , brrr, ancora più rapido, di fermentazione in continuo in poche ore, eheheheh, alla fabbrica di polietilene, dove lo sgarbatissimo direttore, che ci aveva invitato ad andare, ci mise praticamente alla porta dicendo che non aveva bisogno di niente e mentre uscuvamo, a testa bassa, confessò che in realtà non aveva speranza di avere soldi per una linea di sacchetti di cui aveva urgente bisogno, alla Parfumerija dove avevano in mente tutta una linea nuova di rossetti, con la necessità di un ricco set di stampi, fino alla fabbrica di occhiali che faceva terrificanti montature anteguerra, tipo tartarugone larghi un centimetro che pesavano almeno un etto cadauna senza lenti. Irina la direttrice, era la solita matrona di peso con magliettina bianca di angora cinese pelosissima (la maglietta). L'altissima architettura della massa di capello biondo che le sovrastava la testa, la faceva sembrare ancora più imponente. Chissà com'è che le donne russe, bellissime in una media veramente anomala, non appena raggiungono un posto di potere, si dilatano in tutte le direzioni in maniera proporzionale al grado? Sarà la dieta ricca di patate o la vodka dei brindisi delle riunioni di lavoro? Chissà. La nostra era però gentile e disponibile e ci mostrò con piacere tutta la produzione, ma dal tono dimesso della voce era già intuibile che il finanziamento necessario era talmente lontano da renderlo improponibile. Guardava con invidia e desiderio il baldanzoso Ferox, non certo per la sua avvenenza, ma per la leggerissima e moderna montatura dei suoi occhiali, che volle esaminare con cura, Se li passava da una mano all'altra, controllandone i particolari con la professionalità di chi conosce bene il suo campo. Ammirò con sospiri malinconici la mirabile tecnologia italiana, restituendo il reperto quasi con dispiacere, come se avesse voluto trattenerlo per meglio studiarlo, sezionandone i particolari attraverso una specifica autopsia industriale per carpirne i misteriosi segreti. Quasi non si capiva cosa ci eravamo andati a fare, poi in un attimo tutto fu chiaro Il maggiorente politico che ci accompagnava, tromboneggiando sulle doti ed i pregi della nostra italijanskaja firma e sulle grandi potenzialità industriali della città, sponsorizzando la creazione di un ufficio di rappresentanza in loco, di cui, benignamente avrebbe potuto prendersi carico, aveva solo bisogno di un paio di occhiali nuovi, che, la corposa Irina, gli fece scivolare in tasca, mentre ci accompagnava all'uscita. Il Dio minore delle piccole cose ci accompagnava sempre nei nostri vagabondaggi. Cosa stavamo cercando? Un sentore, una traccia. Eravamo come cani da tartufo che scodinzolando si aggiravano nei boschi degli Urali cercando di avvertire, anche se tenue e ricoperto dall'acre odore di marcescenza di un sottobosco antico, il delicato profumo dei dollari amici, sottili lamelle verdi con cui cospargere il risotto dei nostri delicati e tecnologici stampi. Così, vigili ed attenti, salimmo sulla Lada Niva che ci avrebbe portato a Sverdlosk 44, la città segreta tra le colline basse degli Urali, circondata dai reticolati e di cui avevo già parlato qui, un po' di tempo fa e a cui vi rimando. Il paesaggio innevato di questa zona è molto bello, dolce e calmo, mentre la strada percorre i fondovalle con curve ampie circondata dalle betulle fittissime e bianche . Quasi non distingui la neve dalla corteccia, se non dai piccoli segni neri orizzontali che la fendono delicatamente. Ogni tanto si incontra un piccolo specchio d'acqua ghiacciato. Vicino ad uno di questi, un po' più grande che appena si intravedeva la riva opposta, lasciammo la strada che lo circondava per attraversare direttamente la distesa di ghiacchio. Ci fermammo quasi in mezzo al lago; sotto di noi ghiaccio verde trasparente e pulito di neve dal vento tagliente che quasi smerigliava la superficie piatta. Un verde quasi smeraldino, tutto percorso da crepe inquietanti che si allargavano fino a che l'occhio, nella penombra del pomeriggio inoltrato, le poteva scorgere. Più di due metri di spessore, assicurò Kostija che ci accompagnava, ma quando risalimmo in macchina e le ruote riguadagnarono la riva scoscesa, mi sentii più tranquillo. Poco lontano, il triplo reticolato di Sverdlosk 44, mostrò un varco in cui ci insinuammo, dopo un rapido controllo dei nostri permessi. Ce ne andammo verso l'albergo in pochi minuti allontanandoci dal gate dove con mia inquietudine, avevano trattenuto i nostri passaporti. Nell'aria un profumo amico e promettente, che veniva dalla fabbrica del marmo.

sabato 12 dicembre 2009

Ali gelate.

Domodiedo- vo è il secondo aereporto di Mosca, da dove partono i voli per l'est. Ci si arriva per una lunga strada rettilinea attraverso le sconfinate foreste di betulle che circondano la capitale, una promessa dell'infinito che ti attende al di là degli Urali. Mi dicono che lo hanno rifatto modernissimo ed efficiente, ma allora era un altissimo capannone sgangherato, affollato all'inverosimile di una umanità composita, carica di scatoloni, pacchi, masserizie di ogni tipo che si stipava in attesa del proprio volo, seduta sulle valigie. I pochissimi stranieri venivano convogliati in una saletta VIP con qualche con qualche seggiola di compensato lungo i muri, del tipo cinema di terza visione anni 50. Sbocconcellammo un pezzo di formaggio che prudentemente ci eravamo portati dall'ufficio in attesa dell'aereo, dopo i consueti taglieggiamenti della "cooperativa facchini" che ci aveva consentito il passaggio alla sala d'attesa, trasportandoci i bagagli per i dieci metri che la separavano dalla sala comune, poi, dopo un check-in virtuale ci avviammo sulla pista dove ci attendeva un Iliushin male in arnese. C'erano quasi 30 gradi sotto lo zero e l'attesa, prima che una svogliata hostess ci consentisse l'accesso alla scaletta, fu fastidiosa. Il vento gelato a raffiche, sembrava strapparti la carne dalle guance. In contrasto a poco tempo prima, in cui tutti gli aerei viaggiavano sempre al completo, salimmo, non più di una quindicina di passeggeri, guardandoci, chissà perchè, in cagnesco. Una kapo in divisa, in barba a quanto segnato sulla carta di imbarco, ci ordinò con modi spicci di sedere tutti in fondo all'aereo, per agevolare(?), disse, il decollo. C'era una tremenda puzza di pipì di gatto, ma non si vedevano felini da quelle parti. Ferox e R. tentavano di tranquillizzarmi, assicurandomi che i piloti russi sono i migliori al mondo, specialmente sul ghiaccio, ma mentre l'aeromobile rullava lungo le piste, il lucente strato che le ricopriva, mi dava un senso di malessere profondo. Lungo i bordi un numero infinito di velivoli in stato di evidente abbandono aumentavano se possibile il mio senso di insicurezza. Erano tutti mezzi utili per cannibalizzare i pezzi di ricambio per i pochi aerei che volavano. Poi i motori aumentarono il regime e con uno strappo violento l'aereo, dopo una lunga rincorsa, si alzò lentamente. Non c'erano nubi, le foreste intorno non avevano fine, ci lasciammo il sole alle spalle. Sverdlosk, sonnacchiosa e gelata, appena al di là degli Urali ci aspettava, in una bufera di neve, addormentata in un sonno profondo da quel mattino in cui 75 anni prima la famiglia imperiale veniva fucilata nella anonima periferia. Finalmente si arrivò, era il leit motif dei lunghi spostamenti, quando scendevi dall'aereo, giuravi che il prossimo viaggio lo avresti fatto in treno e viceversa. Ma l'atterraggio fu perfetto, Zhenija ci aspettava sotto la scaletta, l'avanguardia inviata a preparare la posizione.

Gepas

venerdì 11 dicembre 2009

Rossetti ed acqua minerale.


L'inverno russo è un po' un limbo perenne, in cui si passa dal buio poco illuminato della notte ad una penombra lattiginosa che dura poche ore, sempre ovattata dal bianco sporco della neve che attutisce ogni rumore, in particolare allora, quando il traffico era scarso. Anche se tutta la città era servita di teleriscaldamento, quei pochi mezzi circolanti ammorbavano l'aria. Avevi senpre in gola uno sgradevole sentore di cattiva benzina bruciata male. Tutto questo ottundeva alquanto i sensi, creando un certo torpore che leggevi chiaro negli occhi dell'umanità che, nonostante il freddo, affollava i marciapiedi, la mattina per andare sul posto di lavoro. Questo non significava certo andare a lavorare, sono due concetti radicalmente diversi. In quel periodo infatti, era luogo comune dire che lo stato faceva finta di darti uno stipendio e tutti facevano finta di lavorare. Procurarsi qualunque cosa era un po' un percorso ad ostacoli, in cui valevano solo le conoscenze, delle persone giuste e delle giuste modalità. Qualunque tipo di biglietti, sia per i trasporti che per gli spettacoli o l'ottenimento di visti o permessi, prevedeva il contatto con persone misteriose che, pagando il giusto, ti procuravano il tagliando desiderato. Così dovemmo rinunciare al viaggio previsto ad Alma Ata, non avendo in tempi utili, il visto necessario. La notizia ci giunse da Zhenija, che in pratica fungeva da trovarobe, mentre andavamo ad un importante incontro di rappresentanza al ministero del commercio, dove un personaggio di peso ci attendeva in una enorme salone con classica scrivania sovietica a T, tra un andirivieni di ancelle recanti thé e misteriosi fogli dove lui, con noncuranza, dopo aver gettato un'occhiata, vergava uno scarabocchio. Quello era certamente un uomo di peso (almeno 150 kg) in classica grisaglia, che scese dal trono per abbracciare e baciare il tenero Ferox, cercando di metterci a nostro agio. Di certo, l'accreditamento ed i precedenti della nostra azienda, che era una delle pochissime, allora, ad avere un accreditamento ufficiale, aiutava, ma, come mi fece poi notare Ferox, si avvertiva un certo qual cambiamento nella condiscendenza con cui il mammasantissima ci trattava stavolta. Si complimentò per le nostre realizzazioni e mentre si parlava del più e del meno, non perse occasione per far scivolare tra le pieghe del discorso la sua famigliarità con Craxi, De Michelis e compagnia bella. La prendemmo come un cambiamento dei tempi ed in ogni caso ci diede interessanti dritte su nuovi contatti da prendere. Il suo occhio era vivo e attento, a dispetto della mole, come di chi sente il branco di iene che ha ormai circondato la tana del vecchio leone in difficoltà e ha ben compreso che è il momento di cercare nuove piste su cui svicolare per evitare i pericoli e rimanere a galla nella battaglia di potere appena scatenatasi. Ce ne andammo dopo un'oretta. In ufficio ci aspettavano, anche se avevamo cercato di evitarle, altre due iene, i padroni dell'appartamento, una coppia che nella privatisazija, da inquilini ne erano rimasti proprietari con un riscatto nominale. Trasferitisi in una piccola dacia nei dintorni di Mosca, campavano dell'affitto ed ogni mese arrivavano come sanguisughe richiedendo un aumento delle prebende che superavano ormai ampiamente i 2000 dollari. Un vero furto. Sembava una coppietta di tranquilli pensionati dediti alle pratiche dell'orto, invece seduti dietro il tavolo della cucina, non mollavano l'osso, sapendo che ci eravamo ormai impiccati con la nostra stessa corda, avendo completamente ristrutturato a nostre spese i locali. Pretesero altri 200 dollari adducendo inesistenti spese di manutenzione, pena lo sfratto immediato. Temendo l'arrivo dei picciotti, Ferox aderì obtorto collo al taglieggiamento e i due banditi se ne andarono a braccetto, dondolandosi lungo le ampie scale imperiali al buio, essendo rotto l'ascensore e tutte le lampadine rubate. Risolta la pratica andammo all'aereoporto ad accogliere R. che arrivava dall'Italia carico di materiale. Anche qui bisognava conoscere le segrete strade. Trovata infatti una vecchia amica che apprezzò particolarmente la scatola di Rocher Ferrero che avevamo casualmente con noi, ci fu permesso di entrare nelle aree speciali dove facemmo transitare facilmente tutto il materiale, evitando pratiche burocratiche infinite che, nella maggior parte dei casi si traducevano nel sequestro di parte della merce. Ansiosi di saper le ultime notizie italiane arrivammo in ufficio appena in tempo per sentire il ticchettio del telex che batteva due fondamentali notizie. La prima ferale, comunicava che l'affare degli stampi per i rossetti ed i mascara su cui speravamo tanto era sfumato a favore di una ditta coreana, l'altra, che da una finanziaria canadese erano arrivati i soldi per la prima linea di riempimento di acqua minerale e che il contratto poteva partire senza altri indugi. Grandi festeggiamenti; dalla cucina Angela arrivò con una cofana di spaghetti appena scolati, il parmigiano, appena arrivato dall'Italia, come se piovesse e lo stappo di una bottiglia di champagne (bulgaro) segnò il successo dei nosti sforzi. Ma le valigie erano pronte, dopo due ore eravamo già all'aeroporto secondario di Domodiedovo dove un rabberciato Ilijushin ci avrebbe portato prima di sera a Ekaterinburg che, anzi ancora si chiamava Sverdlosk.

giovedì 10 dicembre 2009

Notte allo Spiektr.

Eravamo dunque tornati a Mosca. Dopo quasi un mese di viaggio in cui avevamo attraversato l'occidente dell' URSS, dopo sette notti passate sui treni, dopo aver tastato il polso, malato, di un paziente che si era preso una bella botta e non aveva ancora capito se sarebbe guarito o se era destinato a perdersi completamente, ritrovavamo una Russia diversa, preoccupata ed incerta sul futuro, con le stazioni della metro che si popolavano di una nuova fauna di anziani in cerca di qualche mezzo di sostegno, vendendo qualcosa, disegnando ritratti o facendo qualcosa di completamente sconosciuto prima, chiedere semplicemente l'elemosina. Mosca, però, non aveva perduto l'appeal del centro dell'impero e mi pareva davvero di essere tornato nella civiltà. Nell'appartamento che ci fungeva da ufficio, in un bel quartiere di case antiche (e le scale con tutti i gradini regolari) il rumore della macchina da scrivere di Angela aveva un suono familiare ed il ticchettio del telex, ti faceva sentire vicino al mondo come lo conoscevi. Rivedemmo parecchia gente che avevamo conosciuto nel giro e che si erano precipitati a Mosca per definire qualche progetto, dal Coreano, un intrallazzone con due fessure sottili al posto degli occhi, che non beveva mai vodka, a Kostija che avevamo conosciuto in treno e che voleva rappresentarci a Stavropol, a Kiril con i suoi problemi della linea di riempimento della vodka, a Marat che ci guardava inorridito mentre brindavamo al suo prossimo matrimonio, divorando spesse fette di salame italiano, senza pensare che lui era mussulmano osservante. All'imbrunire andai a Novodevichy, il monastero delle vergini, silenzioso e coperto di neve. Bellissimo e cristallizzato nel gelo della sera; deserto e silenzioso col suo cimitero con le lapidi dai nomi famosi, Scorrevano davanti a me, anche se cercarli costò un po' di fatica Cechov, Eisenstein, Bulgakov, Gogol, Stanislavsky, Khrushchev; che emozione camminare in questi luoghi. La storia russa al completo, che 'a livella aveva confinato in questo lembo di terra coperto di bianco. Me ne tornai in albergo tranquillo dopo una visita ad un Berioska, uno dei negozi per occidentali che stavano per essere sorpassati dalla storia. Alla mia visita successiva, non li avrei più trovati, tutti sostituiti da profumerie dai nomi occidentali e pieni di griffe famose. Anche l'albergo era cambiato. Non eravamo più al tetro Pekin, uno dei sette grattacieli staliniani in stile neoassiro, brutte copie dell'Empire State Building, ma in una delle nuove realtà del cambiamento, un alberghetto "commerciale", tutto quello che era di iniziativa privata era chiamato così. Si chiamava Spiektr, un nome una garanzia. Una decina di camere in una casetta antica e bassa a due piani, il vero opposto del falansterio sovietico in stile pensione Mariuccia. Le tenutarie erano due sorelle di enormi e generosissime dimensioni, agghindate come alberi di Natale, che vestivano sempre camicette bianchissime di pizzo, stirate con cura, anche se di puro poliestere che emanava tremendi sentori corporei anche a buona distanza, a causa del calore torrido che regnava tra quelle mura. Era imbarazzante, anche se compensato dai grandi sorrisi che Tanija e Irina dispensavano portando i cetrioli e la smijetana per la colazione. Il luogo era tranquillo ed aveva un non so che di familiare e, anche se un gruppo di coreani della Samsung che lo popolavano, aveva l'abitudine di giocare a Gim tutta la notte, ti dava una sensazione di calore. Al limite bastava spegnere un po' i termosifoni di notte per non morire arrosto. Riuscii anche ad avere una telefonata con l'Italia (non c'erano ancora i telefonini allora) ma sentire la mia bambina che piangeva perchè non tornavo ancora a casa, mi mise una gran tristezza. Andai a dormire presto, l'indomani arrivava R. dall'Italia e dovevamo prepararci per il giro in Siberia.

mercoledì 9 dicembre 2009

Xuě.

Da parecchio abbiamo lasciato da parte l'estremo oriente, cosa rimproveratami anche da Ferox, che giustamente di Russia non ne può più, sempre in bilico tra amore e odio. Quindi su suo suggerimento e suggestione, vorrei commentare con voi l'ideogramma di stagione Xuě. Come sempre in questa lingua avvincente dovete mettervi nei panni di chi, con in mano un pennello, davanti un foglio bianco volle descrivere qualcosa osservando la natura. E' vestito pesante, il saggio, di una spessa tunica nera a proteggersi dal freddo pungente del Liao Ning nel gelido nord cinese. Ma, davanti al lago ghiacciato, respira a fondo l'aria che il vento del nord ha reso pulita e sottile. Lentamente traccia i primi segni, con cura meticolosa. La metà superiore è composta da due parti, la stanghetta orizzontale in alto, che è una semplificazione di cielo, mentre la parte centrale significa cadere dall'alto, come potrete facilmente indovinare dalle quattro deliziose goccioline che scendono pian piano sulla terra, infatti preso da solo significa "pioggia" ( Yǔ - 雨 ). Questo carattere è presente in molti ideogranni più complessi che descrivono le varie meteore che scendono o derivano dalla volta celeste come ad esempio 雷 电 - léi diàn (tuoni e fulmini) , in cui si vede nel primo segno qualcosa che cade dal cielo sulla risaia (in basso vista dall'alto, come un insieme di quadretti formati dagli arginelli faticosamente fatti a mano) seguito da quello del lampo, che come una ragnatela, disegna nel cielo una trama di bagliori prima di precipitarsi con una lama maligna e mortale sulla terra sottostante. Ma torniamo al nostro carattere, che il pennello dello scriba ha così elegantemente disegnato. Perchè sotto a ciò che cade dal cielo, con quattro brevi tratti ha dipinto il simbolo di una scopa? Per ricordare il lavoro necessario per pulire la strada davanti a casa quando cade dal cielo Xuě, la neve appunto, candida e leggera che si ferma sulla soglia e che di tanto in tanto, il contadino spazza via con la ramazza di rami che ha preparato nella stagione buona. Sì, è quasi ora che cadano i primi quattro fiocchi lievi, come quelli che già sono sui camminamenti del Forte, sui gradini sbrecciati e millenari della muraglia a Simatai, o nei parchi di Mosca dove quest'anno si è fatta attendere tanto a lungo. Bianca e pulita, come i doni del cielo, perchè in un attimo, noi possiamo sporcarla, renderla poltiglia nera e fangosa, come tutto quello che tocchiamo. Soltanto un fastidio in più, che qualche uomo nero ci spali via in fretta e poi se ne torni da dove è venuto.

martedì 8 dicembre 2009

Puzza di fogna.

Che odore strano nell'aria. Ve lo dico chiaro, ho la luna storta. Oggi la nebbiolina è ancora bassa, non si capisce se vuol piovere o fa solo finta, per bagnare la voglia di ridere. Un tempo inventato apposta per il cattivo umore, per guardare il bicchiere mezzo vuoto, per leggere solo le notizie pessime, cioè godersi completamente tutto il gornale. Ma come si fa a ridere. Domenica un allenatore ha ordinato alla sua squadra di fermarsi e lasciar segnare gli avversari, perchè il gol che avevano appena fatto non era sportivamente corretto. Che fairplay! Seguire una legge non scritta che ti fa sentire in obbligo di non approfittare di qualche cosa per semplice "lealtà". C'è da farsi venire le lacrime agli occhi, come sono di certo venuti ai tifosi di quella squadra, che infatti hanno assediato per circa due ore allenatore e giocatori negli spogliatoi per menarli, o al presidente della squadra stessa che ha dichiarato che tocca all'arbitro giudicare cosa è corretto, mentre il dovere di chi è pagato da lui è vincere in ogni modo, forse voleva aggiungere anche segnando con le mani che magari poi vai ai mondiali, sempre che l'arbitro non veda. Ma cosa ci sta succedendo? Per carità, lo so bene, che certe schifezze ci sono sempre state e sono presenti, forse geneticamente in fondo ad ogni animo umano. Forse proprio questo è il segreto del trionfo della nostra specie, la cattiveria che c'è dentro ognuno di noi, la voglia di prevaricazione, la paura di essere deboli e quindi, oltre ad avere paura di tutto quello che non conosciamo, che ci è ignoto, anche l'autogiustifuicazione ad utilizzare tutti i mezzi, meglio se sono scorretti, per ottener ciò che vogliamo, che riteniamo un nostro prevaricante ma irrinunciabile diritto o semplice voglia. Però fino a non molto tempo fa questo sentimento, questo odio verso l'altro, era tenuto in fondo all'anima, quasi sconosciuto a noi stessi, emergeva dalle fogne del nostro scontento solo di tanto in tanto, ad alcuni con più frequenza che ad altri, certo, ma sempre occasionale e vissuto con una sorta di vergogna, di pudore. Veniva fuori un negro di m. e tutti erano inorriditi e chi lo aveva pronunciato veniva guardato con dispregio; corruzione era una cosa sporca, ti macchiava irrimediabilmente. Il fallimento per una azienda era talmente vergognoso, che qualche commerciante non osava neppure pronunciarla la parola, per non esserne contaminato per sempre. Poi qualcosa è cambiato, forse l'aria, forse si è esaurito l'afflato di ricostruzione che segue tutte le grandi tragedie storiche, forse soltanto qualcuno che ha preso in mano la tastiera della giostra e della comunicazione ha saputo tirare fuori il peggio di noi e lo ha nobilitato. Non sono stati necessari molti anni, segno che eravamo ben predisposti. Essere ignoranti non è più una vergogna; puoi esser un puttaniere, andare a trans, corrompere, rubare, usare tutti i mezzi più illeciti per avere quello che vuoi, intorno a te faranno spallucce, anzi ti invidieranno, vorranno essere al tuo posto. Se, potente, ti pescavano nel letto sbagliato, eri squalificato per sempre, oggi anche le signore , si dan di gomito, e dicono:- Almeno gli piacciono le belle donne- e sognano di essere loro in quel letto a godere di quei privilegi. Corrompi? Tutti cercan di capire come hai fatto per imitarti ed ottenere i tuoi risultati. Sdogani di fatto il razzismo? Stuoli di vecchietti terrorizzati dall'uomo nero ti adoreranno e ti pregheranno di far le ronde sotto casa loro. Si presenta la famiglia come un punto fermo, per averne col plauso di tutti almeno due o tre. Personaggi che si sposavano con riti pagani e inneggiavano ai druidi con le ampolline, ora brandiscono i crocifissi come clave, pur di attizzare il già caldo fuoco dei fondamentalismi. Non ci credono certo, chè il cristiano è altra cosa, del tutto contraria, ma porta voti. Più ne fai e più il risultato nell'urna ti darà ragione. Ogni tanfo mefitico, prima chiuso nella cloaca dell'io profondo, incoffessato, diventa profumo con cui adornarsi con orgoglio. Ormai sdoganata, non è immoralità, non è amoralità, è soltanto la nuova morale a cui bisogna adeguare i comportamenti per non essere guardati male. Coraggio, povero allenatore, hai fatto un errore, adesso lo hai capito anche tu e probabilmente, come tra l'altro hai già dichiarato, non lo rifaresti, ma non puoi pensare che finisca così. Ogni buona azione non resterà impunita. In arrivo un deferimento dalla Lega (Calcio, ben si intenda) e probabilmente il licenziamento nelle prossime settimane.

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