Sinza Komechuka - Dar es-Salaam |
Le quattro del mattino. Un cielo nuvoloso nasconde luna e stelle e fa la notte ancora più buia, più nera. Tutto è nero in Africa, qui ancora di più, forse per dare ancor più un impatto di mistero, di paure nascoste. Le poche persone che popolano l'esterno dell'aeroporto sono ombre nere quasi immobili nell'oscurità. Non devi però lasciarti prendere dallo sconforto se qualcuno che aspettavi non è arrivato. No hurry in Africa. In qualche modo si farà. Comincia così la prima trattativa con un tassista semiaddormentato, poi la strada per arrivare in albergo. Così puoi capire subito cosa è l'Africa delle grandi città, degli agglomerati che, come in tutti i paesi del terzo modo, attirano irresistibilmente le folle dalle campagne povere, ma spesso vivibili, per precipitarle nel girone infernale delle baracche, delle immondizie, dell'igiene precaria, spesso della violenza, generata dalla povertà che conosce e vede la ricchezza a cui non potrà accedere mai. L'Africa delle strade polverose e dissestate che distruggono le sospensioni, già duramente provate dai continui bumpers piazzati a tradimento dappertutto, per impedire la velocità scriteriata in zone perennemente affollate di bambini, gente, bancarelle, venditori che vagano tra le auto in moto lento e costante, lungo incroci intasati da una crescita tumultuosa che ha trovato forzosamente le infrastrutture impreparate a gestirla.
Sei sempre in coda, anche alle 6 di mattina, nella infinita periferia di Dar. Il vantaggio è che hai modo di osservare con calma la città, perché è questa la vera metropoli africana, non il piccolo centro con qualche palazzo moderno e le sedi governative o degli uffici, già pregno anche quello della confusione generata dalla crescita. L'infinita sequenza di baracche /negozietti, di legno, di lamiera, di cemento già sbrecciato e reso vecchio e sporco non appena finito dalla polvere, la pioggia, la muffa, le immondizie, ognuno dei quali ricolmi di poveri generi simulanti i nuovi consumi della società avanzata, ammucchiati e polverosi anch'essi come i loro gestori, ma sempre sovrabbondanti per uno spazio così minuto da cui debordano come magma incontenibile. Vedi cataste di frigoriferi, già arrugginiti ed ammaccati sebbene nuovi, alimentari malamente confezionati, biscotti, sacchetti di junk food locale, cataste di bibite di marca allineate ai loro succedanei, poveri vestiti sotto insegne dipinte da chi ha già capito che il cliente va blandito con la sensazione di un lusso popolare. Fasion (sic) shop e via con esposizioni di straccetti colorati su manichini sbilenchi, magliette di calciatori che hanno ormai cambiato squadra riciclate dall'Europa, camicie improbabili e stoffe dai disegni forti, ma anche la New collection di abiti da sposa.
Ed ancora innumerevoli beauty salon, con una sedia rotta e specchio filato all'interno dove addobbare fantasiose pettinature, ma tappezzati da bellezze fotografate o anche semplicemente dipinte sullo stipite, che esibiscono cofane di grande complessità architettonica. Poltrone e sofà barocchi, direttamente nella polvere della strada tra cui miniautobus che perdono le lamiere, fanno slalom difficili, sollevando nuvole di cipria giallastra che subito vi si depositano sopra, dando ad ogni bracciolo una colorazione uniforme, anche se la moda sembrerebbe consigliare il leopardato che si intravede appena. Solo i banchetti di frutta sembrano mantenere la cultura precedente all'arrivo del "progresso". Mucchietti ordinatissimi di patate, cipolle o arance. Piramidi di manghi e papaye, gruppetti di banane rigorosamente contati, peperoncini dal rosso aggressivo in piccoli gruppi selezionati, verdure predisposte con cura su rastrelliere, banchi o anche su semplici stracci per terra. Alternati a questi, gli innumerevoli fornitori di cibo di strada, dai semplici fornelli per grigliare le pannocchie di mais o pezzetti di carne sulla carbonella contenuta in residui di bidoni di latta, o friggitori con le loro pentole sfrigolanti di olio nero, in cui calano, banane, patate, pastelle di ogni tipo, di cui poi vengono fatti mucchi oleosi all'interno di vetrinette assediate dalle mosche.
Macellerie che espongono carni e frattaglie al calore soffocante e poi ancora bar e locali di dimensioni più ampie, pieni di sedie di plastica spaiate e tavoli ricoperti di bottiglie, piatti, carte di una umanità che appare continuamente in movimento ed allo stesso tempo in una sosta di attesa perenne. Che sirena irresistibile deve essere per la gente dei villaggi questa confusione fatta di auto, pullman scassati, polvere, tra i vicoli affollati e forse pieni di opportunità presunte di quella che sarà l'Africa del domani. L'albergo è proprio in una di queste piene periferie, su una contorta e dissestata stradina laterale. Rimani seduto alla finestra e sotto a te già alle prime luci dell'alba si muove il brulicare di questo immenso formicaio che è Dar es-Salaam. Suoni e rumori che chiamano e strizzano l'occhio; vieni a conoscerci da vicino, forse non siamo così male come pensi; esci dalla porta e lasciati avvolgere dal mio caldo abbraccio senza paure, guarda la gente ti sorride, ti invita; le bellezze che esibiscono la loro prorompente steatopigia mescolate ai veli islamici senza contrasto apparente; i jeans coi tacchi alternati alle coperte dei pastori in ciabatte; cerca di capire meglio dove vuole andare questo continente, abbiamo solo voglia di vivere, di vivere meglio, o forse quello che ci avete convinto a credere che sia meglio. E ora di scendere in strada. Jambo Africa.
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3 commenti:
Mi viene da scrivere solo: BELLISSIMO. Mi sembra quasi di vederle tutte queste cose descritte così bene. Bravo.
Un resoconto che si legge tutto d'un fiato, anche se si ha nella mente, come al sottoscritto capito, tutta una serie di immagini di natura selvaggia e di avventure del vecchio Tanganika.
@Cic - Grazie, Ma è il posto che è fotogenico in sé
@Adri - Oggi l'Africa è davvero in tumultuoso sviluppo, un po' come certa Asia della fine del secolo scorso. Ma nei prossimi giorni passeremo anche al wilderness!
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