giovedì 13 novembre 2025

Seta 50 - A Dalanzadgad

Cavalli mongoli - Mongolia - giugno 2'25
 

Steppa

Gli aggettivi da utilizzare non sono moltissimi e tuttavia sempre diminutivi della sensazione che provi man mano che procedi in questa terra. Desolata, immensa, senza limiti. Viaggiamo da quasi quattro ore in questo deserto infinito, ricoperto solamente da radi fili di erbetta verde grigia, la strada segnata solo da due carreggiate che si prolungano fino all'orizzonte dove lo sguardo si perde. Neppure ondulazioni, se pur lievi, in lontananza che ti diano un senso di dimensioni, di spazialità che ti possano far considerare le distanze o che possano avere un nome, tanto per segnalare un itinerario. Procedi nel nulla, alla mite velocità che lo sterrato e le rotaie segnate nello sterrato consentono. Alla fine se volessi considerare i chilometri percorsi, anche seguendo una mappa, non ti devi fare illusioni, saresti sempre più o meno nello stesso posto. Il terreno ha le disconnessioni naturali dello sterrato, quindi procedere è un po' tutto uno sballottamento. L'autista Nyamkaa, è un ragazzo di età indefinibile, potrebbe essere tra i trenta ed i quaranta, robusto ma non grasso, come appaiono spesso i mongoli. Visto che non parla nessuna lingua a noi nota, la comunicazione langue, tuttalpiù qualche languido grugnito, mentre il pulmino procede in quella che non saprei bene definire, forse steppa è la parola giusta, visto che da quando abbiamo passato il confine mongolo non abbiamo più visto un albero e sembra che non ne vedremo molti altri nei giorni a venire. 

Un pastore

Neanche il ragazzo a cui stiamo dando un passaggio profferisce parola, cosicché il tempo passa in una sorta di torpore confuso che ammorbidisce gli scossoni e ottunde il pensiero. Comunque sia, verso mezzogiorno, la strada curva un poco verso un piccolo rilievo brullo e spelacchiato, dove anche l'erba si rifiuta di crescere e compaiono una serie di baracche. E' anche questo un altro paesotto senza nome, o quanto meno un nome ce lo avrà pure, ma non compare su cartelli o simili. Le strade polverose che separano le baracche o le casette di legno leggero e lamiera, non so come preferireste chiamarle, terminano poi nelle piana esterna, secca e brulla. Solo qualcuna continua con le rotaie scavate dal passaggio dei battistrada, perdendosi all'orizzonte. Non si vede quasi nessuno in giro. Il nostro si mette in cerca di qualcosa che abbia la parvenza di un distributore di benzina ed alla fine trova una specie di colonnina, ma dopo averci girato attorno per un po' appare chiaro che non è presidiata da nessuno e forse non è neppure funzionante, almeno così si potrebbe dedurre dalla ruggine che la completa come una decorazione d'annata e dalla polvere che ne ricopre la sommità. Poi chiede qualcosa al primo pastore che transita in cerca delle sue capre e rifacciamo un giro del paese. E' un tizio grassoccio a cavallo di una moto cinese bisognosa di manutenzione, che nonostante la temperatura non troppo calda, se ne sta nudo dalla cintola in su con la maglietta abbandonata neghittosamente su una spalla come un divo del cinema in ciabatte, che però dà le indicazioni giuste. 

Al ristorante

Questi sono i moderni pastori della steppa. dove la motocicletta ha ormai sostituito il cavallo o il cammello, anche se la benzina fai fatica a trovarla come un  tempo l'acqua nelle oasi. Questa volta però, dopo le sue indicazioni, al limite nord del paese troviamo un altro venditore finalmente fornito che provvede alla bisogna. Poi con piglio sicuro il nostro duce, ci porta al centro del paese dove in un'altra baracca si apre una porta sbilenca che immette in quello che dovrebbe essere un ristorante. Bisogna dire che dentro presenta meglio che fuori, ma l'offerta è piuttosto carente. Qualche piatto esposto in una vetrinetta da cui scegliamo un riso e poi quello che sembra l'unica cosa disponibile, una specie di stufato di carne. Come era previsto non bisogna aspettarsi molto dalla cucina mongola, ma questo in fondo è l'ultimo dei problemi, ci si abitua a tutto facilmente. Quando dopo un'oretta usciamo satolli e pronti all'ulteriore balzo nel nulla, mi accorgo di un altro fatto curioso. Le insegne, le scritte e ogni altra dicitura sono espresse in cirillico e non in alfabeto mongolo. Davvero  una cosa strana che la scrittura di questo popolo sopravviva solo più in alcune città cinesi della provincia della Inner Mongolia. Qui invece è completamente scomparsa. Testimonianza inequivocabile dell'importanza capitale che ebbe l'URSS in questo paese per molti decenni. 

Il monumento

Infatti il paese è stato sovietizzato completamente a partire dagli anni '20, fino alla caduta dell'URSS, assorbendone usi e metodologia di governo a partire dal feroce periodo dittatoriale in cui il presidente assunse lo stile staliniano, peggiorandolo se possibile e copiandolo in tutto e per tutto, in particolar modo nelle epurazioni e nella creazione di gulag. Fin dall'inizio furono distrutti la maggior parte dei monasteri buddisti tibetani e la popolazione monastica che assommava a quasi il 30% degli abitanti fu ridotta quasi a zero. Così fu proprio nel '46 che il cirillico venne adottato come scrittura ufficiale, cosa che persiste tutt'ora benché ci sia stato qualche tentativo di recupero della tradizione dopo gli anni '90, quando il paese, dopo il discioglimento dell'URSS virò verso la attuale forma di democrazia, ma senza successo. Comunque alla fine si riparte e per fortuna, dopo pochi chilometri inaspettatamente compare l'asfalto, cosa che consente una velocità decisamente diversa e prima che faccia buio, in tre orette o poco più, ci consente di raggiungere la nostra meta Dalanzadgad. Compare infatti all'orizzonte una sorta di grande arco di trionfo, tripartito e circondato da sculture significative di cammelli della Bactriana e soprattutto tre giganteschi monumenti sovietici di metallo che dovrebbero rappresentare donne in costume tradizionale leggermente inchinate per accogliere i graditi ospiti che arrivano da lontano.  

Accoglienza

Sotto l'arco passa la strada e al di là però, si prosegue ancora all'infinito o almeno a quello che sembra essere l'infinito, in realtà dopo pochi chilometri si avvista quella che è la periferia della cittadina, fatta di gher bianche sparse e poi man mano che si va verso il centro, da baracche di legno e poi finalmente da case vere e proprie. In effetti questa è una città quasi vera, con circa 25.000 abitanti. L'unico problema è che dovevamo arrivarci ieri sera, quindi tirando le somme siamo in ritardo di un giorno intero sulla tabella di marcia, non so se mi spiego. Si vedrà, a questo punto abbiamo capito che dobbiamo lasciarci andare agli eventi, succeda quello che deve succedere. In effetti questa dovrebbe essere una città mineraria in cui si estraggono almeno cinque dei minerali fondamentali per l'esportazione del paese: oro, rame, ferro, antimonio e mi sembra tungsteno e per questo la popolazione è quasi raddoppiata in un decennio. In fondo il suo aspetto è proprio quello che si vede in molti film dell'outback australiano o delle zone minerarie del Nordamerica. Come in tutte le città mongole comunque, la popolazione che ha cominciato ad inurbarsi, non ha però avuto la possibilità di insediarsi in aree che abbiano avuto uno sviluppo edilizio adeguato e salvo alcuni quartieri sorti ancora in epoca sovietica, con file di caseggiati bassi e decisamente fatiscenti, il resto si è dovuta adattare nelle loro tradizionali yurte, l'abitazione tipica degli altipiani dell'Asia centrale che qui chiamano gher

Le nostre gher

Quindi tutte le periferia a partire da quelle immense di Ulan Baator, sono costituite da una serie di spazi recintati alla meglio da staccionate di legno o di cannicciato, all'interno dei quali ci sono le gher necessarie alla famiglia, al massimo una o due in quanto, come ho già detto, le famiglie preferiscono dormire tutti assieme, ospiti compresi. Solo recentemente, con lo sviluppo turistico, se pur minimo avvenuto negli ultimi anni, qualcuno ha cominciato ad aumentare il numero delle gher nel cortile per metterle a disposizioni di questi strani e pretenziosi stranieri, che vogliono stare per conto loro, d'altra parte fin che pagano va pur bene adattarsi alle loro manie, fino ad un certo punto naturalmente, che qui siamo nella terra di Gengis Khan, che vorrà pur dire qualcosa. Intanto noi andiamo a cercare la nostra sistemazione notturna, che troviamo dopo aver girato un po' tra stradine fangose, visto da un po' viene giù una fastidiosa pioggerellina che rende tutto umido e gelido. E' esattamente come ve l'ho descritta prima. Al centro c'è la gher della famiglia ed altre tre intorno. mentre la latrina è in un angolo del cortile; su un fianco all'aperto vicino alla staccionata, un lavandino sul quale è appeso un piccolo serbatoio di plastica che bisogna riempire ogni volta dai boccioni che stanno a terra, dopo l'utilizzo. Le due signore che ci aspettavano da ieri, cosa di cui non sembrano essere assolutamente stupite né preoccupate, ci accolgono festose e ci portano subito nella gher della famiglia a riscaldarci con tè e biscottini, così si usa da queste parti, mentre Gianluca e Lucetta vanno fino ai bagni pubblici in centro a farsi una doccia. Ho già capito che sarà una settimana un po' particolare, almeno dal punto di vista igienico.   

L'arco di trionfo



Aquila
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49 - Nel paese senza nome

martedì 11 novembre 2025

Seta 49 - Nel paese senza nome

La strada statale - Mongolia - giugno 2025
 

Riprendiamo dopo la breve pausa, breve per modo di dire, ma tanto per rinfrescare la memoria, ci eravamo lasciati nel cuore della notte nel bel mezzo della steppa mongola, ai bordi di un villaggio senza nome, con il nostro mezzo abbandonato tra le dune di sabbia, melanconicamente piegato in un affossamento del terreno con il semiasse rotto e circondato da un gruppetto di "competenti" che sembravano proprio l'assembramento dei pensionati attorno al cantiere impegnati a dare utili consigli. Alcuni di questi erano addirittura coricati pericolosamente sotto il mezzo, come se facessero finta fi operare alacremente per rimetterlo in sesto. Sta di fatto che bisogna in qualche modo, arrangiare la notte e le auto di due bei donnoni mongoli, arrivate non si sa come sul posto e che dovrebbero fungere da taxi, potrebbero essere incaricate di scarrozzarci fino al fantomatico villaggio. Queste recano al seguito anche una schiera di bambini che viaggiano seduti al contrario per non perdere l'opportunità di guardare con attenzione questi stranieri straniti e nervosi, atterrati dal cielo come alieni direttamente da un altro mondo. Ridacchiano tra di loro indicandoci e probabilmente facendo commenti sulle nostre strane facce ed i nostri lunghissimi nasi, per non parlar dei capelli biondi della mia gentile signora. Intanto arriviamo nel villaggio e ci fermiamo davanti ad una baracca che dovrebbe essere designata come il nostro rifugio in cui passare la notte. Diciamo pure che è piuttosto basica, ma probabilmente è quanto il paese propone come massimo nella categoria Alberghi. Ci viene dunque assegnata una stanza con due brande di legno, ma vene subito chiarito che la struttura non dispone né di toilette, né acqua corrente. 

Per espletare la prima necessità, bisognerebbe andare fino al centro del villaggio dove ci sono delle latrine "pubbliche", mentre per l'acqua domattina bisognerà provvedere con un secchio, almeno così pare. Non bisogna stupirsi troppo, almeno credo, questa è la situazione del paese e anche dove è arrivato il turismo, la realtà pratica non differisce poi molto. Chi ha letto il bel libro Dove volano gli uccelli di L. Waugh, che racconta di un intero anno vissuto in uno di questi paesini perduti nel nulla dello sconfinato territorio della Mongolia, lettura assolutamente consigliata prima di partire, comprende subito che i metri di giudizio a cui siamo abituati non servono in questa terra e che, come avremo più volte modo di provare nei prossimi giorni, non si devono fare considerazioni su variabili come il tempo, la programmazione, la ricerca di soluzione di problemi prima che questi si presentino. Così come queste genti, con abitudini diverse dalle nostre, ovviamente calibrate sul tipo di vita che si ha in un territorio così condizionato dalla natura e dagli eventi naturali estremi, non capiscono neppure certe nostre richieste o pretese, che rischiano sempre di essere considerate come stranezze di stranieri a cui è meglio sempre dire di sì, tanto per levarsi il problema, salvo poi ignorarle completamente. Così qui l'acqua corrente o il bagno in casa sono ancora considerate stranezze inusuali e del tutto inutili, anzi possibili prodromi di dannosità. Bisogna considerare, ad esempio, che non ci sono tubature, cosa abbastanza naturale in un mondo pastorale nel quale per molti mesi all'anno si può scendere sotto i - 30°C e anche  le latrine giustamente vengono erette il più lontano possibile dalle abitazioni. 

Poco comprensibile è anche il desiderio di questi strani ospiti di voler dormire in ambienti separati e non come è intuitivamente più comodo e confortevole, tutti assieme in un'unica gher, la classica tenda mongola con una stufa al centro, che rimane comunque più calda e protetta. Insomma un mondo decisamente diverso dal nostro a cui sembra inutile opporsi. Meglio sarebbe lasciarsi andare, come fa la protagonista del libro, per riuscire a diventare parte effettiva di questa comunità, per rimanerne infine stregati completamente. La dannazione del turista invece è che coi soli pochi giorni a disposizione che ha, si agita, sbraita, non riesce a farsi capire, pretende di essere capito ed è perennemente scontento. Sente che il poco tempo gli sfugge in un attimo e questo gli farà perdere l'opportunità di poter vedere quanto aveva perentoriamente programmato prima di partire, si sente a disagio in condizioni a cui non è abituato ed alla fine, si fa andare di traverso quanto gli succede di giorno in giorno. Il modo giusto di approcciare la Mongolia sarebbe certamente quello di lasciarsi andare agli eventi, abbandonarsi al lento scorrere del tempo senza chiedere spiegazioni, tanto è inutile, da un lato la tua lingua non è neppure capita, dall'altro è il concetto stesso che non viene afferrato. Dunque in preda alla stanchezza accumulata ci buttiamo comunque sulle brande e cerchiamo di dormire per recuperare la fatica accumulata. La previdente preveggenza di Tiziana fa sì che ci siamo dotati di sacco lenzuolo, cosa che in questo caso è decisamente benedetta e quindi ci prepariamo a trascorre la notte meritando il sonno del giusto dopo averlo debitamente steso sul tavolaccio.  

Con previdenza pongo al lato del giaciglio una bottiglietta vuota, in caso di necessità notturne senili e poi finalmente allungo le vecchie membra, provate dalle ore di viaggio e cerco di chiudere la porta di legno leggero, che è dotata di uno strano chiavistello dal funzionamento incognito, che comunque tento di inserire a forza nell'apposita posizione. In effetti fa caldo e io, seminudo sono a malapena coperto dal mio sacco lenzuolo di fortuna nel quale provvidenzialmente non mi sono infilato, vista la temperatura piuttosto alta, girandomi e rigirandomi nel vano tentativo di addormentarmi. Da un lato è sempre così quando sono stanco, dall'altro mi perseguitano le continue domande che mi pongo su come potremo recuperare le ore di viaggio perdute per raggiungere quella che doveva essere la nostra meta e dalla quale domattina avremmo dovuto partire. Così mentre mi torturo la mente con inutili preoccupazioni su cui intanto non  ho possibilità di intervento, dormiveglio come è possibile, stordito e confuso, quando, nel cuore della notte, saranno state le tre, un gran frastuono esplode in quello che dovrebbe essere il corridoio della baracca e dopo un botto di quella che è sicuramente una rude una spallata, l'uscio si spalanca di colpo, visto che il chiavistello non avrebbe trattenuto probabilmente neppure la spinta di un micino in cerca di cibo, e un omone mezzo discinto, con la camicia aperta ed i pantaloni di una tuta sdrucita, irrompe nella nostra stanza e accende la luce della lampadina che scende dondolante dal soffitto. 

Manifestamente il tizio è completamente ubriaco e tiene in mano alcune lattine di birra e avanza deciso verso di me, che sono ancora mezzo stordito nel letto, cercando di coprire alla meglio col lenzuolo le mie pudenda, mentre lui dichiara con voce stentorea in mongolo stretto, brandendo le lattine,  così almeno mi par di capire, che è venuto a brindare con noi e al nostro arrivo. Mi porge due lattine, mentre Tiziana si nasconde sotto la coperta. Io, ancora semiaddormentato, non riesco a reagire in maniera coerente. Alla fine prendo in mano la lattina e ne strappo in qualche modo la linguetta come fosse una bomba a mano, sperando forse che esploda e cancelli il brutto sogno, ne bevo qualche sorso e pronuncio diversi Kampai, seguito da lui che si siede sul letto e tenta di abbracciarmi dandomi pacche sulle spalle. Alla fine, quasi completamente nudo e un po' più sveglio riesco ad alzarmi e a spingerlo fuori della nostra stanza, mentre lui continua a brindare alla nostra salute. Cerco di chiudere alla meglio la porta, ma quel tipo di marchingegno, non deve essere fatto specificatamente per resistere alle effrazioni di un certo tipo, per cui ci barrichiamo spingendo contro la porta la valigia, che dovrebbe riuscire a bloccarla definitivamente. Poi cerchiamo di tornare a dormire, mentre i rumori fuori della porta continuano decisi. Un altro tentativo verrà fatto dopo un paio d'ore, ma la sistemazione che ho escogitato impedirà la successiva effrazione. Al mattino veniamo a sapere che il tipo ha tentato di penetrare anche nella stanza dei nostri amici, ma senza riuscirci, evidentemente il loro lucchetto era più efficiente. Ma la richiesta di spiegazioni che poniamo alle donne che incontreremo al mattino non sortiranno né giustificazioni, né stupore. 

Mi sembra di rileggere alcune pagine del libro di cui vi ho detto, dove sono riportate esperienze del tutto simili. Evidentemente qui funziona in questo modo, Speriamo allora che il tipo, perlomeno non si sia offeso troppo per la mala grazia degli stranieri. Spiacerebbe se andasse a raccontare in giro che siamo dei maleducati. Usciamo intanto dalla baracca, è arrivato il mattino e l'aria è diventata frizzantina. Arriva una macchina con un paio di donnone dalla faccia bianca e rossa, infagottate in palandrane e maglioni che hanno visto tempi migliori. Scaricano un paio di vassoio che posano nel cortiletto su degli sgabelli evidentemente predisposti alla bisogna e ci indicano un paio di boccioni di acqua da cinque litri, nell'angolo del cortile con i quali provvedere alle abluzioni personali, che, una volta capito il metodo, bisogna essere in due, uno versa l'acqua, l'altro si lava la faccia, svolgiamo con indomita adattabilità, risolvendo in questo modo alla meglio la pratica, anche se ci viene assicurato che se vogliamo andare in centro al paese, a circa un chilometro, nei bagni pubblici, c'è anche addirittura a disposizione una doccia (non penserete mica di essere tra i selvaggi), comodità a cui preferiamo rinunciare sdegnosamente, a rischio di risultare sgarbati. Mangiamo comunque di buon appetito le uova strapazzate che giacevano in fondo al paniere e lasciamo lo yogurt che qua sembra essere l'alimento principale, ma le nostre scorte di Imodium non sono infinite ed i giorni da passare qui sono ancora parecchi. Intanto ecco che sullo sterrato arriva, inaspettatamente, il nostro malandato pulmino. I "meccanici", hanno lavorato tutta la notte, il semiasse non era rotto, ma solamente sfilato e adesso tutto è stato rimesso a posto con perizia e il nostro auriga è assolutamente pronto a partire. Insomma è d'uopo abituarsi, da queste parti funziona in questo modo. Bisogna farsene una ragione.

  

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25 - A Xining

sabato 8 novembre 2025

Azer 17 - Premessa

 

Forse è vero che il destino dell’uomo è già scritto da sempre. Noi ci mettiamo in testa di decidere di volta in volta, di essere veramente protagonisti delle nostre scelte oppure che la assoluta casualità domini, come le più classiche sliding doors, le strade che prenderemo, ma può essere che tutto sia già stato deciso altrove e che le nostre decisioni siano solamente una conferma dell’ineluttabile. Perché questo pippozzo un po’ stucchevole all’inizio del mio lavoro su una delle regioni geografiche più interessanti e complesse del mondo? Perché prima di cominciare il mio racconto di come per trenta anni o più, le vicende della vita mi hanno portato a percorrere più e più volte quelle strade lontane, mi vengono in mente fatti che potrebbero anche portarmi alla conclusione di come quella traccia, sia pure in maniera flebile, fosse già segnata da tempo. Ero un bambino, facevo le elementari e come tutti a quel tempo facevo collezioni di figurine. Ma la mia mamma era piuttosto severa al riguardo, dunque erano messe al bando quelle che tutti gli altri ragazzini ambivano, le Panini dei Calciatori, che per la verità anche a me non entusiasmavano più di tanto, visto la mia scarsa attitudine agli sport, cosa che si traduceva anche in debole passione per i campioni osannati da tutti, ma solo argomenti insindacabilmente da lei giudicati “istruttivi”, vista la sua attenzione a guidarmi con mano ferma verso quello che allora era stimato come unico ascensore sociale a disposizione. 

Quindi mentre i miei compagni di scuola cercavano disperatamente la introvabile figurina di Pizzaballa, io tentavo, sempre senza riuscirci o quasi, di completare l’album di Garibaldi (di cui me ne mancò sempre e solamente una), quello degli Animali del mondo e soprattutto Le razze umane, che era titolato in questo modo, visto che allora quella dizione non era stata ancora messa all’indice. Ero assolutamente affascinato da quelle forme colorate e così diverse da quanto conoscevo, dai Pellirosse delle tribù delle pianure, dai piccoli Pigmei delle foreste congolesi (terre che il vocabolario scientifico Novissimo Melzi che Gesù Bambino mi aveva portato per Natale in seconda elementare, segnalava in una cartina completamente bianca e priva di toponimi dei primi anni ‘50, come Zone non ancora esplorate) e le donne delle tribù etiopi Mursi col grande piattello tra le labbra. Ma la figurina che mi affascinava più delle altre era quella denominata il Circasso, che raffigurava un uomo magro e fiero avvolto in un grande mantello nero, grandi baffi e un gigantesco colbacco di astrakan, così mi aveva detto fosse la mia mamma, visto che allora, tempo in cui l’animalismo non era ancora stato previsto, doveva essere di gran moda e quindi di sua conoscenza e forse altrettanto oggetto di desiderio, mai soddisfatto, né soddisfacibile, visto le nostre condizioni di famiglia modesta. 

Abitava, fiero ed indomabile, le montagne del misterioso e lontano Caucaso e resisteva agli invasori, con feroce ed invincibile bellicosità, almeno così recitava la didascalia della figurina. Forse da quell’album e se così è stato, proprio da quella figurina, nacque la mia voglia insanabile di andare a vedere cosa ci fosse al di là della collina, di confrontare coi miei occhi quanto corrispondessero alla realtà quelle figure ingenue e a volte indistinte? Forse andò così e quel desiderio muto rimase sopito, ma ben presente dentro di me, per anni, fino a quando per altre motivazioni e casualità, o forse per quel fato già stampato nella pietra o solo scritto nel vento, come lo volete vedere, non cominciò ad avere occasioni per concretizzarsi meglio, prendendo forma dapprima lentamente, poi con una progressione inarrestabile che mi intriga ancora alla soglia degli ottanta. Così quando arrivai per la prima volta in quel Caucaso sognato, nel ruolo di mercatante (direbbe Marco) in cerca di contratti, rimasi un po’ deluso di non veder quel personaggio che in figurina mi aveva così condizionato, ma la scoperta di una zona del mondo che facilmente intuivi così carica di interessi, me ne fece appassionare vieppiù, dandomi sempre maggiore desiderio di indagare più a fondo non appena l’occasione si fosse presentata. 

Così a poco a poco percorsi quel nord al di qua della catena, così poco conosciuta ai tempi, dispiacendomi del fatto che la mia azienda non avesse affari anche a sud, cosa che poi ebbe successivamente, quando io ormai ero nella mia terza vita, ma sempre ricordo bene come dentro di me sempre albergasse quella diminutio, del non poter ancora aver avuto la possibilità di scavalcare le cime bianche ed altissime e andare a vedere se anche al di là non ci fossero più, quegli uomini fieri col colbacco di astrakan, calcato un po’ storto sul capo. Adesso che finalmente, canuto e stanco, direbbe il poeta, l’opera è compiuta, non mi rimane che riportarvene le mie impressioni, le emozioni che vi ho provato, le storie che mi sono portato con me ad ognuno dei miei ritorni. Per questo comincerò questa relazione proprio da quei tempi ormai lontani e dei quali però, conservo ancora indelebile memoria.


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venerdì 7 novembre 2025

Azer 16 - 45 Motivi + 1 per andare in Azerbaijan

Baku - Azerbaijan - ottobre 2025
 

A conclusione del giro di sensazioni che spero di essere riuscito a trasmettervi sulla mia brevissima visita in Azerbaijan, paese un po' misterioso, un po' misconosciuto, ma possiamo anche dire un po' fuori dai focus internazionali, soprattutto turistici, cercando di entrare un po' più a fondo nei suoi aspetti storici, naturalistici e culturali, mentre penso che tra le righe sia passato il sottile e pervasivo desiderio di riuscire un giorno a visitare anche le ultime zone che, per varie motivazioni, soprattutto logistiche, ho dovuto forzatamente tralasciare e che indubbiamente valgono la pena di essere più a fondo indagate e stimolandovi comunque al viaggio, vorrei fare, come al solito, un piccolo elenco di cose imperdibili di questo paese o che, se la volete mettere giù in altro modo, valgono la pena di sobbarcarsi le ore di volo che sono necessarie a raggiungere quella terra non così lontana nello spazio, ma così differente ed intrigante, ricordando sempre che questo è stato uno dei fulcri da cui la nostra civiltà ha preso vita.

  • .Arrivare a Baku nel cuore della notte, sfilando per la città buia, tra i grattacieli illuminati
  • Passeggiare per la città vecchia in cerca di sensazioni antiche
  • Cercare le tracce nelle gradinate smontate del passaggio della Formula 1
  • Prendere un frullato di fronte alla Maiden Tower rinverdendone le leggende
  • Aggirarsi all'interno del Palazzo degli Shirwanshakht vedendo i moderni palazzi lontani dalle feritoie e al di là dei merli
  • Passeggiare sulla Promenade godendosi la calma del mar Caspio
  • Sentirsi scrocchiare in bocca un boccone di pane lavash bollente
  • Guardare i grattacieli della nuova Baku che sfilano uno dopo l'altro con le loro forme incredibili
  • Cercare i petroglifi più nascosti a Qobustan e godersi il museo
  • Salire coi coni di fango in cui la superficie ribolle e sporcarsene le mani
  • Cercare tra i terminal infiniti da cui partono gli idrocarburi verso l'Europa, le torri di trivellazione lontane nel mare
  • Cercare di capire il senso di un paese parlando con tassisti e autisti
  • Stupirsi davanti alla montagna che brucia da sempre a Yanar dag
  • Percorrere la penisola di Abshalom tra le centinaia di antiche pompe di estrazione
  • Arrivare al tempio zoroastriano di Athesgar in cerca del fuoco eterno
  • Cercare invano le luci della Fountain square, che prima o poi si accenderanno
  • Ammirare stupito le superfici fiammeggianti delle Flame Towers che illuminano la notte sulla collina
  • Risalire la collina verde della Heidar Aliyev Center e seguire le linee sinuose della architettura di Zaha Hadid
  • Stupirsi del contrasto tra la moschea Hazi Aslanov e le torri di vetro
  • Girare per il Dagustu park lungo il viale dei Martiri, guardando la città dall'alto
  • Fotografare una sposa in bianco che ti fa l'occhiolino
  • Sedersi sui meravigliosi tappeti della moschea di Bibi-Heibat mescolandosi ai fedeli in preghiera
  • Sorridere per la naiveté della Piccola Venezia
  • Girolare tra i negozi illuminati del centro commerciale del porto dopo aver gustato una crepe alle fragole
  • Visitare il Museo del tappeto
  • Vedere il primo pozzo di estrazione del petrolio del mondo e stupirsi del fatto che ancora se ne estragga
  • Gustarsi spiedini succosi e polpa di melanzane dolcissima
  • Salire con fatica fino al mausoleo di Diri Baba e visitare le grotte in cui meditava il santo
  • Girare per supermercati in cerca di caviale e koniak
  • Muoversi tra le antiche tombe di un cimitero cercando di comprenderne le lapidi
  • Visitare la grande moschea Juma a Shamaxi, accolti con grande cordialità
  • Salire con fatica la Cascata delle sette bellezze
  • Mescolarsi a turisti orientali con le ragazze che comprano coroncine di roselline
  • Fermarsi ad ammirare il blu delle acque del lago Nohur
  • Fare una degustazione si vino e koniak in un resort prestigioso
  • Prendere la teleferica di Qabala per arrivare ai 2000 metri tra le montagne
  • Godersi il foliage delle foreste di querce delle montagne del nord
  • Raccogliere cristalli di sale rosa al lago Masazir
  • Cantare Bella ciao in un ristorante con una band che la intona non appena ti riconoscono come italiano
  • Aggirarsi nei vicoli deserti del Red settlement di Quba
  • Visitare il museo dell'olocausto Azero e tentare di ricostruire le storie al di là della propaganda
  • Entrare in una fabbrica di tappeti per carpire i segreti dell'annodatura
  • Girare tra i tavoli di un bar  dove i vecchi giocano a backgammon
  • Fermarsi nei boschi a mangiare spiedini
  • Aggirarsi tra le botteghe di un porticciolo di pescatori in cerca di caviale a buon mercato
e infine
  • Lasciare Baku nel cuore della notte , cercando di capire se abbiamo finalmente finito di vedere tutto quello che desideravamo del Caucaso o no
Pane lavash




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