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| Khongoryn Els - Parco del Gobi - Mongolia - giugno 2025 - (foto T. Sofi) |
Le dune sono lì davanti ai nostri occhi, immense, altissime, di certo oltre i 200 metri, ai nostri fianchi si allungano a perdita d'occhio, una sfilata di colline ripide color oro, che all'infinito diventano giallo chiaro che sfuma nel bianco, colori resi ancora più intensi dal cielo grigio piombo. Nell'anfiteatro che sta davanti a quelle che probabilmente sono le più coreografiche e spettacolari, c'è parecchia gente, convenuta evidentemente dai tanti campi di gher che ci sono nella piana sottostante. Per accedervi siamo risaliti un poco, scavando profonde tracce nella sabbia, tuttavia abbastanza solida da consentire di arrivare fino ai piedi di quella che da sotto appare come l'erta scoscesa di una montagna che non è così semplice scalare. La maggior parte dei convenuti si disperde intorno, decisa unicamente a scattarsi selfie per immortalare il momento. Non c'è vento, cosa da un lato favorevole, perché consente di girare qua e là senza doversi preoccupare di mangiar troppa sabbia, dall'altra però non avremo probabilmente l'opportunità di sentire quello che viene chiamato il canto delle dune, visto che è proprio il vento che facendo rotolare i granelli gli uni contro gli altri, crea l'effetto. Quantomeno questa è la spiegazione scientifica del fenomeno.
In queste, pare che, proprio perché qui la dimensione dei granelli è molto diversa, si odano una serie assai disparata di frequenze, tali da simulare davvero la sensazione di voci che chiamano i viandanti trascinandoli alla perdizione, facendoli definitivamente smarrire tra le dune. Mi incammino con calma verso la salita, cercando di capire dove è possibile per me arrivare. Il primo tratto è costituito da una serie di avvallamenti dove la sabbia ha una certa consistenza sotto i piedi e consente di camminare abbastanza regolarmente. Qua e là ci sono addirittura cespi stentati ma coriacei di erbe aridofile, che hanno anche un effetto di contenimento del terreno. Poi, a poco a poco la salita aumenta e ci metto un po' di tempo per risalire una grande duna che costituisce una sorta di anticima della catena principale tanto da farti arrivare ad un vero e proprio belvedere, dal quale la vista sulla piana in basso e sulla catena, adesso giallo chiara, è davvero notevole. Ancora un tratto quasi in piano e poi comincia la salita vera e propria. Qui la sabbia cambia consistenza diventa più morbida, leggera, quasi impalpabile e cede decisamente sotto il peso del corpo che cerca di procedere.
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E anche qui, possiamo dire che non sono avvantaggiato. pazienza. Il piede affonda decisamente ed ogni passo in avanti comporta uno sforzo per disincagliarlo. Dopo un po', ho le scarpe completamente piene di sabbia e comincio ad arrancare con una certa fatica. Vedo altri disperati che stanno tentando la scalata, sono orientali, Coreani e Giapponesi, decisamente più attrezzati, hanno quasi tutti speciali calzari che avvolgono tutto l'arto inferiore, legati al ginocchio, rossi e tutti uguali, forniti evidentemente dalla loro organizzazione, questi dell'estremo oriente sono sempre molto forniti di ogni gadget necessario. Questo consente loro di procedere con meno fastidio, ma altrettanta fatica, perché affondano nello stesso modo. Forse ci vorrebbe qualcosa di simile alle racchette da neve. Bisognerebbe pensarci. Comunque capisco subito che non ce la potrò mai fare. Questa che è la parte più semplice della salita, mi ha già messo ko, ma vedo che superando anche l'ultima duna preliminare comincia l'ultimo tratto della salita, oltre cento metri, che si ergono quasi verticalmente lungo il fianco della duna principale, dove si è creata una fila di scalatori che procede quasi a tentoni, scavando un vero e proprio sentiero nella sabbia.
Tiziana, con Gianluca e Lucy cominciano a salire, ma vedi subito che si procede come i gamberi, un passo avanti e poi se non sei più che attento, due indietro, nel bordo che sprofonda e non consente di appoggiare l'arto per risalire. Pure la fila, lentamente procede verso l'orlo superiore della duna che si stende orizzontale ed ondulato come la lama di una scimitarra turcomanna, abbandonata lì da qualche gyn, i geni malefici che abitano i sottosuoli dei deserti e che odiano essere disturbati specialmente dagli esseri umani, fastidiosi e malaccorti. A questo punto capisco che per me diventa impossibile andare oltre, bisogna riconoscere ed accettare i propri limiti, inutile farsi illusioni e quindi rimango lì a contemplare lo spettacolo, le ondulazioni magistrali degli strapiombi, i colori e le sfumature dalla sabbia, quelle del verde della piana dove lontano indovini i meandri del fiumiciattolo che si perde tra i pascoli. Si ferma vicino a me un Giapponese, neppure tanto giovane, che, completata la fatica, sta discendendo. Le fessure dei suoi occhi si allargano un poco, quando cerca di raccontarmi lo stupore e la meraviglia, per il mare di ondulazioni che si possono ammirare al di là dalla cresta. Mi vuol far sapere che ha 56 anni ed è molto orgoglioso dell'impresa, per la quale è ancora un po' affannato. così si siede vicino a me e mi mostra un po' di foto sul telefonino, contento di avercela fatta.
Un distesa infinita di dune delle quali non riesci ad intravedere la fine e che illustra nel modo più esaustivi il concetto di deserto, quale di solito lo immaginiamo. Onde di sabbia che seppur lentamente si muovono spinte dal vento da milioni di anni. Tuttavia un velo di rimpianto c'è anche nel suo sguardo, oggi poco o niente vento, dunque nessuna canzone, né concerto di voci di spiriti gementi, oggi tra le sabbie, anche Ulisse deve rimanere deluso, le Sirene oggi dormono o semplicemente non hanno voglia di fare il loro lavoro, bisogna accettarlo. Poi se ne va con la caratteristica andatura a balzelloni che si usa quando cerchi di non sprofondare. Intanto i miei compari, che vedo ormai lontanissimi, continuano a procedere. Poi Tiziana, arrivata ai due terzi della rampa finale cede e torna indietro. Troppo faticoso e difficile continuare a tentare a salita. I due ragazzi invece con la gamba dei trentenni e anche meno, continuano a salire come cerbiatti ed in una mezz'oretta li vedo, puntini neri, che hanno raggiunto la meta e spariscono dietro la cresta. Anche loro mi parleranno di spettacolo indimenticabile, va be', si fa quel che si può, non pretendiamo l'impossibile, oltretutto avevo anche un polso rotto (senza saperlo naturalmente), che tenevo appoggiato come un bimbo addormentato sulla panza prominente e che, anche se non si lamentava, tuttavia, mi era di un certo impedimento alla camminata regolare e ad un procedere più spedito.
Sono stato un'oretta a godere di tutte le variazioni di luce mentre il sole scendeva alle mie spalle e dietro la grande duna. Basta mettersi un poco a lato, dietro un monticello, tra i ciuffi di erba e la gente chiassosa sparisce alla vista e anche dalle orecchio. Neanche più ti accorgi della schiera di ragazzotti che, muniti di padellini di plastica, gli stessi che si usano sulle piste da sci, di cui evidentemente si sono appositamente attrezzati, si lasciano scivolare a precipizio lungo il fianco della duna, acquistando via via sempre maggiore velocità fino ad arrivare al fondo dove rotolano felici in una nuvola di polvere gialla. Accidenti, di certo Marco Polo non se li sarebbe immaginati questi epigono del Catai o di Zi Ban Guo, che si scatenano senza paura in questo mondo che a lui pareva così sperduto nel nulla. Neanche si sarebbe immaginato che tra un paio di giorni questi saranno già comodamente a casa loro, mentre lui ci avrebbe messo un paio d'anni a fare lo stesso percorso. Come cambia il mondo. Noi allora ritorniamo alla nostra gher, a trascorrere una notte tranquilla senza il timore di essere trascinati dai gym, a perderci nel deserto. Il cielo è completamente coperto di nubi Neanche questa notte si potrà vedere la stellata che come una coperta trapuntata di luci, vegliava la notte dei pastori erranti nell'Asia.




