giovedì 20 novembre 2025

Seta 53 - Le dune che cantano

Khongoryn Els - Parco del Gobi - Mongolia - giugno 2025 - (foto T. Sofi)

Le dune sono lì davanti ai nostri occhi, immense, altissime, di certo oltre i 200 metri, ai nostri fianchi si allungano a perdita d'occhio, una sfilata di colline ripide color oro, che all'infinito diventano giallo chiaro che sfuma nel bianco, colori resi ancora più intensi dal cielo grigio piombo. Nell'anfiteatro che sta davanti a quelle che probabilmente sono le più coreografiche e spettacolari, c'è parecchia gente, convenuta evidentemente dai tanti campi di gher che ci sono nella piana sottostante. Per accedervi siamo risaliti un poco, scavando profonde tracce nella sabbia, tuttavia abbastanza solida da consentire di arrivare fino ai piedi di quella che da sotto appare come l'erta scoscesa di una montagna che non è così semplice scalare. La maggior parte dei convenuti si disperde intorno, decisa unicamente a scattarsi selfie per immortalare il momento. Non c'è vento, cosa da un lato favorevole, perché consente di girare qua e là senza doversi preoccupare di mangiar troppa sabbia, dall'altra però non avremo probabilmente l'opportunità di sentire quello che viene chiamato il canto delle dune, visto che è proprio il vento che facendo rotolare i granelli gli uni contro gli altri, crea l'effetto. Quantomeno questa è la spiegazione scientifica del fenomeno. 

In queste, pare che, proprio perché qui la dimensione dei granelli è molto diversa, si odano una serie assai disparata di frequenze, tali da simulare davvero la sensazione di voci che chiamano i viandanti trascinandoli alla perdizione, facendoli definitivamente smarrire tra le dune. Mi incammino con calma verso la salita, cercando di capire dove è possibile per me arrivare. Il primo tratto è costituito da una serie di avvallamenti dove la sabbia ha una certa consistenza sotto i piedi e consente di camminare abbastanza regolarmente. Qua e là ci sono addirittura cespi stentati ma coriacei di erbe aridofile, che hanno anche un effetto di contenimento del terreno. Poi, a poco a poco la salita aumenta e ci metto un po' di tempo per risalire una grande duna che costituisce una sorta di anticima della catena principale tanto da farti arrivare ad un vero e proprio belvedere, dal quale la vista sulla piana in basso e sulla catena, adesso giallo chiara, è davvero notevole. Ancora un tratto quasi in piano e poi comincia la salita vera  e propria. Qui la sabbia cambia consistenza diventa più morbida, leggera, quasi impalpabile e cede decisamente sotto il peso del corpo che cerca di procedere. 

E anche qui, possiamo dire che non sono avvantaggiato. pazienza. Il piede affonda decisamente ed ogni passo in avanti comporta uno sforzo per disincagliarlo. Dopo un po', ho le scarpe completamente piene di sabbia e comincio ad arrancare con una certa fatica. Vedo altri disperati che stanno tentando la scalata, sono orientali, Coreani e Giapponesi, decisamente più attrezzati, hanno quasi tutti speciali calzari che avvolgono tutto l'arto inferiore, legati al ginocchio, rossi e tutti uguali, forniti evidentemente dalla loro organizzazione, questi dell'estremo oriente sono sempre molto forniti di ogni gadget necessario. Questo consente loro di procedere con meno fastidio, ma altrettanta fatica, perché affondano nello stesso modo. Forse ci vorrebbe qualcosa di simile alle racchette da neve. Bisognerebbe pensarci. Comunque capisco subito che non ce la potrò mai fare. Questa che è la parte più semplice della salita, mi ha già messo ko, ma vedo che superando anche l'ultima duna preliminare comincia l'ultimo tratto della salita, oltre cento metri, che si ergono quasi verticalmente lungo il fianco della duna principale, dove si è creata una fila di scalatori che procede quasi a tentoni, scavando un vero e proprio sentiero nella sabbia. 

Tiziana, con Gianluca e Lucy cominciano a salire, ma vedi subito che si procede come i gamberi, un passo avanti e poi se non sei più che attento, due indietro, nel bordo che sprofonda e non consente di appoggiare l'arto per risalire. Pure la fila, lentamente procede verso l'orlo superiore della duna che si stende orizzontale ed ondulato come la lama di una scimitarra turcomanna, abbandonata lì da qualche gyn, i geni malefici che abitano i sottosuoli dei deserti e che odiano essere disturbati specialmente dagli esseri umani, fastidiosi e malaccorti. A questo punto capisco che per me diventa impossibile andare oltre, bisogna riconoscere ed accettare i propri limiti, inutile farsi illusioni e quindi rimango lì a contemplare lo spettacolo, le ondulazioni magistrali degli strapiombi, i colori e le sfumature dalla sabbia, quelle del verde della piana dove lontano indovini i meandri del fiumiciattolo che si perde tra i pascoli. Si ferma vicino a me un Giapponese, neppure tanto giovane, che, completata la fatica, sta discendendo. Le fessure dei suoi occhi si allargano un poco, quando cerca di raccontarmi lo stupore e la meraviglia, per il mare di ondulazioni che si possono ammirare al di là dalla cresta. Mi vuol far sapere che ha 56 anni ed è molto orgoglioso dell'impresa, per la quale è ancora un po' affannato. così si siede vicino a me e mi mostra un po' di foto sul telefonino, contento di avercela fatta.  

Un distesa infinita di dune delle quali non riesci ad intravedere la fine e che illustra nel modo più esaustivi il concetto di deserto, quale di solito lo immaginiamo. Onde di sabbia che seppur lentamente si muovono spinte dal vento da milioni di anni. Tuttavia un velo di rimpianto c'è anche nel suo sguardo, oggi poco o niente vento, dunque nessuna canzone, né concerto di voci di spiriti gementi, oggi tra le sabbie, anche Ulisse deve rimanere deluso, le Sirene oggi dormono o semplicemente non hanno voglia di fare il loro lavoro, bisogna accettarlo. Poi se ne va con la caratteristica andatura a balzelloni che si usa quando cerchi di non sprofondare. Intanto i miei compari, che vedo ormai lontanissimi, continuano a procedere. Poi Tiziana, arrivata ai due terzi della rampa finale cede e torna indietro. Troppo faticoso e difficile continuare a tentare a salita. I due ragazzi invece con la gamba dei trentenni e anche meno, continuano a salire come cerbiatti ed in una mezz'oretta li vedo, puntini neri, che hanno raggiunto la meta e spariscono dietro la cresta. Anche loro mi parleranno di spettacolo indimenticabile, va be', si fa quel che si può, non pretendiamo l'impossibile, oltretutto avevo anche un polso rotto (senza saperlo naturalmente), che tenevo appoggiato come un bimbo addormentato sulla panza prominente e che, anche se non si  lamentava, tuttavia, mi era di un certo impedimento alla camminata regolare e ad un procedere più spedito. 

Sono stato un'oretta a godere di tutte le variazioni di luce mentre il sole scendeva alle mie spalle e dietro la grande duna. Basta mettersi un poco a lato, dietro un monticello, tra i ciuffi di erba e la gente chiassosa sparisce alla vista e anche dalle orecchio. Neanche più ti accorgi della schiera di ragazzotti che, muniti di padellini di plastica, gli stessi che si usano sulle piste da sci, di cui evidentemente si sono appositamente attrezzati, si lasciano scivolare a precipizio lungo il fianco della duna, acquistando via via sempre maggiore velocità fino ad arrivare al fondo dove rotolano felici in una nuvola di polvere gialla. Accidenti, di certo Marco Polo non se li sarebbe immaginati questi epigono del Catai o di Zi Ban Guo, che si scatenano senza paura in questo mondo che a lui pareva così sperduto nel nulla. Neanche si sarebbe immaginato che tra un paio di giorni questi saranno già comodamente a casa loro, mentre lui ci avrebbe messo un paio d'anni a fare lo stesso percorso. Come cambia il mondo. Noi allora ritorniamo alla nostra gher, a trascorrere una notte tranquilla senza il timore di essere trascinati dai gym, a perderci nel deserto. Il cielo è completamente coperto di nubi Neanche questa notte si potrà vedere la stellata che come una coperta trapuntata di luci, vegliava la notte dei pastori erranti nell'Asia.

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25 - A Xining






mercoledì 19 novembre 2025

Seta 52 - Il parco del Gobi

 Temporaneamente senza fotografie per cause tecniche

L'asfalto dura poco, è solo un attimo di speranza fino a quando non scompaiono alle tue spalle le ultime gher della periferia della città, ancora tracce di presenza umana sui rilievi lontani, poi di nuovo il nulla. La natura primordiale che ti circonda, gli spazi ondulati ricoperti di peluria verde, come l'epidermide di un pianeta alieno che rifiuta di essere abitato da presenze umane, scorrono lentamente ai tuoi fianchi. Dopo un'oretta la pista diventa un poco più difficile e tortuosa ed entriamo in una valla larghissima ai bordi della quale si intravedono bassi rilievi, lontani da entrambi i lati. Si nota che il terreno qui è più umido dal fatto che l'erba è un po' più fitta ed un poco più verde. A tratti, mandrie di armenti brucano sparse, cammelli, vacche e lontani, i piccoli cavalli per i quali l'esercito di Gengis khan era famoso. Sono piccoli, in genere bai con lunghe criniere e code nerissime. Alle prime appaiono piuttosto grassocci e con le zampe un poco più corte di quanto siamo abituati, ma caracollano spediti con le froge al vento, che comunque continua a soffiare con una certa intensità, facendo piegare gli steli dell'erba sempre nella stessa direzione. Da stamattina avremo percorso un centinaio di chilometri, la pista non consente una gran velocità, ma non abbiamo più incrociato nessuno. 

I proprietari degli animali che abbiamo incontrato saranno lontani nella steppa a radunare qualche bestia dispersa con le loro motociclette scoppiettanti, oppure saranno andati fino a qualche paese sperso nel nulla a procurarsi qualcosa di assolutamente necessario. Alfine incontriamo un gruppetto di uomini che si affanna attorno a qualche decina di animali. Sono tutte cavalle, che hanno partorito da poco. I puledri, sono legati ad una lunga corda con poche possibilità di movimento; alcuni, forse nati da poco, sdraiati a terra, altri un po' più grandicelli che cercano di divincolarsi. Le giumente si aggirano attorno a fatica, impastoiate perché non si allontanino e si guardano attorno forse in cerca del loro nato. Gli uomini le stanno mungendo; raccolgono il poco latte strizzando i capezzoli magri e sporgenti, in grandi secchi, prima di metterlo in appositi bidoni di metallo. E' la stagione in cui si produce questo particolare prodotto, il latte di giumenta inacidito, che pare sia considerato un toccasana assoluto per la salute e del quale i Mongoli fanno un consumo notevole. Dopo la raccolta e la filtrazione, il latte un tempo veniva messo in orci e, dopo l'aggiunta di un po' altro di latte fermentato per innescare il processo, veniva appeso alla sella del cavallo in modo che fosse a lungo sbattuto fino a inacidimento concluso. 

Si dice che il prodotto vada scrollato almeno 10.000 volte prima di arrivare alla maturazione perfetta e di certo oggi si utilizzeranno metodi meno tradizionali, ma il risultato sarà il medesimo. Gli animali si lasciano mungere tranquillamente e gli allevatori svolgono la pratica piuttosto allegramente, sembrano contenti e divertiti dal fatto che ci interessiamo al loro lavoro. Naturalmente ci offrono subito tazze fumanti di latte appena munto e anche altro, credo che sia appunto l famoso prodotto di fermentazione che viene chiamato Cege, almeno mi sembra, ma rifiutiamo cortesemente, l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questa landa è l'insorgenza di problemi intestinali, al di là delle sue miracolose proprietà terapeutiche che di certo saranno pure straordinarie, ma diciamo che stiamo bene così. Solo i puledri sembrano piuttosto mogi per la deprivazione del prodotto che doveva essere loro destinato, ma come sempre se ne faranno una ragione. Sembrano piuttosto magri e macilenti, ma pare che questa particolare razza abbia una resistenza estrema tanto che passano all'aperto tutto l'anno sopportando senza problemi o quasi, dai +35 C° ai - 35 C°, insomma una bella escursione, non c'è che dire, grazie alla loro pelliccia, che si nota subito per essere piuttosto folta.

Alla fine riprendiamo la nostra strada, avvicinandoci al rilievo alla nostra sinistra, che si distingue per il suo colore chiaro quasi si trattasse di asperità coperte ancora di neve. Invece si tratta semplicemente delle dune di sabbia del Khongoryn Els, la parte estrema del deserto del  Gobi che presenta un fronte sabbioso lungo oltre cento chilometri e largo  una decina. All'incirca 1000 chilometri quadrati di dune alte fino a trecento metri, tra le più affascinanti del mondo. Il vento qui soffia implacabile e in particolari momenti della giornata provoca una serie di suoni che sembrano riprodurre voci, musiche, richiami misteriosi e gemiti sommessi, tanto da meritarsi il nome di Dune che cantano. Il fenomeno, che già avevamo visto in Cina e che pare sia udibile anche in altre parti del mondo come Marocco o Oman, è stato studiato scientificamente e si è compreso che i suoni sono provocati dallo sfregamento dei granelli tra di loro e la tonalità varia in riferimento al diametro dei granelli stessi con frequenze che vanno dal re al fa diesis. Certo che a Marco Polo, capitato da queste parti forse proprio per la curiosità di provare questa emozione, questa situazione colpì molto, visto che racconta di viaggiatori rimasti indietro dalla loro carovana e persi fra le sabbie, là attirati da queste malie: … quando vuole poi andare per giugnere li compagni, ode parlare spiriti in aire e lì si perde per sempre… E molte volte ode l’uomo molti istormenti in aria e propiamente tamburi

Chi sa se anche lui ha voluti fermarsi ad ascoltarli con la curiosità di un Ulisse che non voleva rinunciare a conoscere il canto delle sirene! Certo erano altri tempi e queste cose venivano favoleggiate in maniera diversa, ma certo che il luogo ha un suo fascino particolare. Noi intanto continuiamo a percorrere la parte bassa della valle e la pista è diventata talmente sabbiosa che c'è pericolo di piantarsi negli avvallamenti. Non facciamo che dircelo continuamente, così che quando una cosa la chiami, alla fine arriva. Eccoci dunque che, dopo un po' di gira e volta, un avvallamento più profondo accoglie le ruote del nostro pulmino con la carezzevole abbraccio della sabbia più morbida, la velocità decresce di colpo, il motore arranca un po' girando a vuoto ed eccola là, sprofondiamo definitivamente rimanendo immobili con le ruote che scovolano scavando fino a non uscirne più fuori. Porco qui, porco là, si scende tutti, ma l'autista non sembra minimamente preoccupato, evidentemente è cosa che succede normalmente, purtroppo noto che non dispone della minima attrezzatura per cavarsi di impiccio in questi casi, che credo siano piuttosto frequenti. Si ferma intanto un altro pulmino, carico di Coreani, ancora meno attrezzato, niente pale o liste di metallo da mettere sotto le ruote. Tutti cominciano però a scavare sotto gli pneumatici impiantati, con mezzi di fortuna, pezzi di legno e pietre che poi vengono messe sotto le ruote stesse a formare una sorta di percorso più solido. 

Alla fine con un po' di volonterose spinte da parte di tutti ne veniamo fuori e si riprende il cammino, con grandi saluti al gruppo di ragazzi coreani che hanno dato una mano. Se ho capito bene, quando c'è una macchina ferma, tutti si aiutano l'un l'altro, è praticamente un obbligo morale che non viene disconosciuto da nessuno, la solidarietà del deserto. Proseguiamo lungo la pista sempre più tortuosa, avvicinandoci sempre di più alla barriera di dune che ormai sono arrivate alla loro massima altezza, formando un cordone giallo e imponente che strapiomba verso il basso e contrasta con il verde della valle. Di tanto in tanto gruppi di gher compaiono alla nostra destra, segno che in molti arrivano da queste parti attratti dalla notorietà del posto che è al centro del parco nazionale del Gobi Gurvai saikhan. Alla fine arriviamo ad un gruppetto di sei gher, piuttosto isolato, proprio di fronte alle dune. Un'ansa del fiumiciattolo che scorre al centro della valle lo separa in parte da altri accampamenti più lontani, che si vedono all'orizzonte. Siamo arrivati a casa di Nyamkaa, il nostro autista, che poi non è altro che la gher un po' più defilata all'estremità del gruppetto. 

Accorrono padre e madre, non ci sono segni di stupore per il fatto che siamo in ritardo più o meno di un giorno intero sulla tabella di marcia, evidentemente, come ho già detto, da queste parti il tempo non conta, cosa volete che significhi oggi, ieri, domani, conta solo il fatto che sei arrivato e per prima cosa devi mangiare qualche cos. Ecco che compaiono come per magia, prima una buona dose di tè arricchito di grasso latte di non so cosa, e poi diversi piatti con pollo, uova fritte, verdure e riso, che mangiamo di gusto accoccolati sugli sgabellotti in dotazione alla gher. L'accampamento, evidentemente usato solo a scopo turistico, ha un po' il sembiante di un camping, con docce e bagni in fondo al cortile. Ci sono cammelli che pascolano vicini, ma a disposizione per chi vuole andare a farsi un giro per provare l'ebbrezza della carovana che attraversa la steppa. Noi avendo già avuto modo più volte di trafficare con dromedari, bestie ancor più spocchiose di questi che hanno un aria assai bonacciona, passiamo la mano. Intanto sta arrivando la sera ed è venuta l'ora di fare i pochi chilometri che ci separano dalla fila di dune che ormai incombe davanti a noi cime una barriera apparentemente invalicabile. Non ci resta che andare rimane ancora più di un'oretta prima che il sole tramonti. E' l'ora d'oro che tutti i fotografi aspettano ansiosi ed a cui anche noi, dilettanti dell'obiettivo non possiamo rinunciare. 




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25 - A Xining












sabato 15 novembre 2025

Seta 51 - Nella Gher


 

Accampamento di gher
La gher è la base di tutto quanto nella Mongolia ed è anche quanto serve per capire un poco di questo strano paese semidesertico, pensate che è quello meno densamente popolato del mondo, tre milioni di abitanti su 1,5 mln di km2! Figuratevi un po'. Da perdersi in questa steppa infinita e nel Gobi, il deserto gelido ed inospitale che ne occupa la parte meridionale. Un clima terrificante che parla di -30° C per il lungo inverno, quando il paese è interamente coperto di neve a cui succede una brevissima e torrida estate con piogge durante le quali il paese diventa una grande pozza di fango, per una media annuale di 0°C e una altitudine media di 1000 m. Pensate un po' a cosa riesce ad adattarsi l'uomo, sopravvivere in un territorio così ostile, dove non si può praticare altro che una povera agricoltura di sussistenza, campando solo grazie all'allevamento. Si tratta quindi di una cultura nomade, praticata ancora oggi da oltre il 30% della popolazione, alla continua ricerca di pascoli con i quali alimentare le mandrie e le greggi, fatte di razze particolarmente resistenti ed adattabili. Questa necessità costringe dunque questa gente a transumanze annuali, nelle montagne in estate quando la temperatura degli altipiani bruciano l'erba, in cerca continua di pascoli freschi ed alla discesa dalle alte valli in inverno, per proteggere gli armenti dalle temperature estreme e dalla mancanza di cibo che le decima, riducendo così anche del tutto l'unica ricchezza e fonte di sostentamento. 

L'interno

Per questo motivo l'abitazione più logica è la tenda, cioè una forma di protezione provvisoria, smontabile facilmente e spostabile nello spazio, che tuttavia non può essere un banale telo se pur pesante, ma quanto più possibile una vera e propria abitazione calda e che possa riparare dai rigori invernale. Ecco allora che nei millenni è stata perfezionata la Gher (che nel resto dell'Asia Centrale turcomanna, viene chiamata anche Yurta), la soluzione perfetta che comprende tutte queste caratteristiche. Rotonda con un diametro di circa una decina di metri, è composta da un traliccio di lunghi bastoni di legno duro che ne completano il tetto a raggiera lasciando sulla cima una piccola apertura che consenta la fuoriuscita del fumo. L'ambiente viene poi ricoperto completamente da spessi feltri, ottenuti dalla lavorazione e battitura delle lane ovine, che formano una buona coibentazione e una altrettanto ottima impermeabilizzazione. Oggi in massima parte questa copertura è stata sostituita da teloni impermeabilizzati e ulteriormente ricoperti da un rivestimento di plastica, i tempi cambiano  e la tecnologia avanza. L'interno era un tempo foderato completamente da meravigliosi e variopinti tappeti, che ricoprivano anche il pavimento. Un bel tappeto appeso fungeva anche da porta di ingresso. Oggi più tristemente, pareti e impiantito sono rivestiti da tessuto plastico, tipo linoleum, che simula le evidentemente desiderate piastrelle di chi vive in case stabili in muratura nelle città. 

Steppa

La Gher si smonta  in un giorno e si carica sul carro di famiglia. assieme a tutte le altre masserizie di proprietà ed è pronta per essere trasportata anche a mille chilometri di distanza e rimessa in piedi velocemente. Così quando percorrete la terra mongola, siano le steppe aride del nord del Gobi, sia i pascoli più ricchi risalendo verso settentrione, in ogni valletta verdeggiante sul fondo della quale scorrono i meandri tortuosi di un fiumiciattolo primaverile, vedrete, già da molto lontano una serie di puntini bianchi, che si ingrandiranno a poco a  poco, men mano che la pista vi porterà più vicino, fino a mostrarne la loro natura di grandi cilindri tozzi, dalla copertura bombata, che allineano la loro candida presenza macchiettando lo smeraldo dei pascoli come i pois che un attento designer ha sparso su una pezza di stoffa di cui non vedi al fine. Le mandrie sono lontane a brucare voracemente l'erba più tenera, a fare il pieno e a metter su lardo, che l'inverno arriverà in un attimo violento e terribile come al solito, mentre il loro proprietario cercherà di raggrupparle a bordo della sua moto strombazzante, visto che il cavallo va molto più lentamente e deve anche alimentarsi brucando a sua volta. Ah, se li vedesse Gengis Khan, gli uomini della sua orda che invece di galoppare al contrario, scagliando dardi mortali contro i nemici inseguitori, percorrono le piste degli avi su quegli sferraglianti catorci scoppiettanti di metallo bisunto e puzzolente! 

Con le signore

I tempi cambiano, inutile recriminare. La Gher, la vostra Gher, sarà così anche per voi rifugio e riparo definitivo, ostello e casa dove sostare, o perché no, vivere se per caso vorrete fermarvi qui a cercare di assimilare quale possa essere, fuor di esotismo e poesia, la vita vera e reale di un nomade, che possiamo senza tema di esagerare, definire estrema, andando un paio di volte al giorno al fiume a riempire secchi di acqua, a lavarvi all'aperto ai pochi gradi che vi concederà il pallido sole del mattino, a mangiare quello che offre il bestiame, latte sotto forma di yogurt e altri derivati e carne e grasso naturalmente per poter poi resistere al lungo inverno, come la protagonista del libro di cui vi ho parlato, che in questa terra ha vissuto per un anno intero o anche per il nostro amico Gianluca che qui è arrivato dall'Italia addirittura in bicicletta comprata da Decathlon, non è per dire, per rimanerci molti mesi per assimilarne il gusto ed il pensiero. E così è la nostra Gher, qui nella periferia di Dalanzadgad, comoda e spaziosa, oltretutto essendo ormai le proprietarie a conoscenza delle pretese dei turisti, anche dotata di lettini, in modo da non costringere gli ospiti a dormire per terra, dove forse per la verità, sarebbe anche più comodo, sdraiati come un tempo, su morbide trapunte. Per la verità in giugno si sta assolutamente benissimo, ma passare interi mesi coperti da pesanti cappottoni imbottiti e dormire semisepolti da spesse coltri, non deve essere così agevole, specialmente per me che al mattino, se non trovo l'acqua tiepida, soffro a lavarmi come un ochino spiumato! 

La parca cena

Le signore sono molto gentili e disponibili, evidentemente è nella loro abitudini anche se noi ormai apparteniamo alla specie dei clienti paganti e non più a quella dei viaggiatori di passaggio, ai quali la tradizione imponeva di dare ospitalità, come una volta, magari lasciando loro anche le mogli come conforto, come racconta Marco Polo. I tempi cambiano e le modalità del bed & breakfast irrompono anche nelle steppe mongole. Così è meglio che anche noi si vada fino in centro a cercare qualche cosa da mettere sotto i denti che non sia solo carne secca e latte fermentato di cavalla. La zona più centrale di Dalanzadgad ha l'aspetto di una cittadina abbastanza moderna con negozi e qualche rado locale ma appena calano le ombre della sera di gente in giro ne circola pochina. Il ristorante dove finiamo è abbastanza moderno ed i piatti di carne e patate forniti sono assolutamente mangiabili, insomma, dopotutto anche qui, sperduti nel nulla, non moriremo di fame. Facciamo anche due passi fuor, ma la temperatura sta scendendo e così poco dopo torniamo velocemente alla nostra Gher che ci aspetta col suo fascino esotico. Certo mi sarebbe piaciuto andare a sentire qualche cantore di musica tradizionale, ma tutti fanno orecchie da mercante ai miei desiderata e le trifonie mongole rimarranno così nella sporta degli spettacoli irrealizzati. 

Lucetta improvvisamente arricchita

La notte passa velocemente anche perché dopo tutte le ore trascorse sul pulmino, di stare sdraiati ce n'è bisogno. Ma il mattino arriva in fretta, sulle ali dell'aquila e riusciamo anche a sistemarci abbastanza rapidamente, visto che il serbatoio sopra il lavandino è ancora pieno e non fa poi così freddo. Anche la latrina in fondo al cortile non è scomoda e mi riporta a ricordi di infanzia quando, in campagna nella casa dei nonni, il casotto era in mezzo all'orto e io avevo ogni volta, il terrore di cadere nel largo buco tra le assi di legno, che nascondeva in basso la marea scura e maleodorante. A questo punto bisogna mettersi in marcia, salutiamo le signore che sono venute ad accertarsi che siamo ancora vivi e poi bisognerà andare in città a cambiare soldi in banca, perché qui, al contrario che in Cina, dove il contante è scomparso e funzionano solo le app dei telefonini per quanto riguarda i pagamenti, devi avere i dindi sonanti, anzi fruscianti, perché con l'inflazione degli ultimi anni che ha galoppato parecchio, circolano solo più bigliettoni con lunghe file di zeri. Noi dovevamo partire prestissimo, visto che siamo in forte ritardo sul programma, ma qui sembra che fare calcoli che considerino tempi e scalette, sia cosa vana e soprattutto inutile, dunque eccoci qui davanti alla banca ad aspettare che apra alle 10, ma dove, temo dovremo fare anche una certa coda. 

Coi mazzi di banconote

Nella realtà apriva alle 9, così quando riusciamo ad entrare, la coda è già maestosa. Arrivati allo sportello, ecco subito saltar fuori un'altra rognosa sorpresa; infatti visto che dovremo pagare in contanti anche la macchina per tutta la settimana, la cifra di cui bisogna rifornirsi è abbastanza corposa, ma la regola mongola prevede che non si possano cambiare più di un milione di Tugruk alla volta, che voi direte, sono mica pochi, ma nella realtà con 1 Euro, di Tugruk ve ne danno più o meno 4000, quindi il suddetto milione corrisponde a malapena a 250 Euro. Così dobbiamo cambiare un milione a testa e alla fine, per finire la estenuante pratica di cambio, tra passaporti, moduli, firme e altre scartoffie, ripetuta per sei volte, finiamo per uscire dalla banca alle 11, alla faccia del partire prestissimo. E siamo stati assai fortunati che, la gentile addetta, avesse i sei milioni in cassa, se no ci toccava aspettare un altro giorno, forse è per questo che nella fila dietro di noi, cominciavano a borbottare, anche con tutta la simpatia che possono avere per gli ospiti stranieri, ma mi sa che qualche pensionato, dovrà ritornare domani per ritirare la desiderata e credo magra pensione! Esausti, ma con una borsata di banconote cadauno (il taglio massimo è da 20.000), tali che non sappiamo più dove nascondercele. prendiamo finalmente la strada per uscire dalla città ed eccoci di nuovo nel nulla.





Pastori
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