sabato 22 novembre 2025

Seta 55 - Persi nel deserto

Nel deserto - Mongolia - giugno 2025 - (foto T. Sofi)

 

Beh, che dire, bucare una gomma non è poi tutta questa tragedia, se non la perdita di una mezz'oretta di tempo ed in un luogo dove, come abbiamo già visto il tempo non ha valore assoluto, si può tranquillamente accettare senza disperarsi, tanto più che ci pensa Niamkaa a cambiarsela. Certo che prendere un chiodo, come risulterà poi dall'attento esame dello pneumatico,  in una steppa fatta di terra sabbiosa. è una bella sfiga, non c'è che dire,. ma capita, certo, direte voi, intanto il fulmine non casca mai due volte nello stesso posto e questo già tranquillizza visto che abbiamo ancora diverse ore di strada da fare. E, come mi permetto di puntualizzare io fin dall'inizio del giro, questi van (l'ho notato anche negli altri che abbiamo incrociato nei giorni scorsi), non ritengono assolutamente necessario dotarsi di una seconda gomma di scorta. Va bene. Terminata l'operazione e ricaricati i bagagli che erano stati sparsi all'intorno, dopo aver attentamente controllato di non avere lasciato niente a terra, risaliamo sul mezzo e partiamo serenamente visto che i chilometri sono ancora molti. La strada riprende diritta attraverso il nulla della piana erbosa. 

Queste piste nella steppa hanno la caratteristica di non essere tracce uniche, come noto vedendo frequentemente biforcazioni e ricongiungimenti delle carreggiate che si susseguono lungo il percorso, magari createsi, per aggirare ostacoli che si formano di volta in volta come pozze fangose che si allargano a dismisura dopo le piogge primaverili, qui abbastanza frequenti, quindi diciamo che ogni autista sceglie di volta in volta un suo percorso seguendo quelle che gli sembrano più efficienti e facilmente transitabili, visto che tutte più o meno vanno nella stessa direzione, anche se corrono parallele, pur se distanti tra di loro a volte di diversi chilometri. Ma qui non solo il tempo, ma anche lo spazio evidentemente è poca cosa e non si sta a misurare. Comunque sia, dopo una mezzoretta, eccola lì, un rumore diverso arriva dal rotolamento delle ruote. Abbiamo bucato di nuovo. E figuriamoci se non capitava. E mo'? Niamkaa salta giù con lo sguardo accigliato, poi tira fuori tutto quello che ha e comincia a guardarsi intorno. Noi non abbiamo neanche la forza di interrogarci su quale potrà essere la soluzione del problema. Intanto appare subito evidente che il nostro, non ha neppure un kit per aggiustare in qualche modo lo pneumatico o qualche cosa di simile. 

Dopo una mezz'oretta arriva un pastore in  moto. Deve essere il proprietario di quelle gher che abbiamo incrociato un paio di chilometri fa, da dove era uscita una donna rotonda e rubizza, che ci aveva fatto grandi saluti, ma dove non ci eravamo fermati e neppure scesi dall'auto dopo aver visto tre grossi cani che ci erano venuti incontro con la coda bassa e le orecchie penzoloni, che facevano i finti tonti arrotando i denti aguzzi tra le mascelle. Anche lui si ferma a guardare, scambia qualche parola e poi riparte verso il nulla. Non è chiaro cosa abbiano confabulato i due, ma staremo a vedere. Intanto si predispone il crick sotto l'auto per cominciare i lavori. Sinceramente mi sembra un attrezzo inadatto al peso di questa auto e anche un po' malandato come del resto tutto il resto. Infatti il van ha il portellone posteriore che non sta su da solo, obbligando ad avere uno che lo sorregga mentre si carica o si scarica, poi uno dei due portelloni laterali si è subito incastrato dopo la partenza ed il trattamento, diciamo impetuoso a cui è stato sottoposto per sistemarlo, lo ha bloccato definitivamente. Insomma un mezzo rudere, che però da queste parti, viene valutato in piena efficienza, come ci aveva confermato, la responsabile dell'agenzia di Ulan Baator, quasi infastidita dalle nostre rimostranze. 

Infatti mentre operiamo tutti insieme per sollevare il mezzo, il crick comincia a piegarsi in uno dei braccetti del pantografo e alla fine si spezza, rifacendo crollare il van nell'avvallamento, ma soprattutto facendo correre il rischio al nostro autista di rompersi qualcosa. Ci mancava pure questa. Mentre ci aggiriamo attorno all'auto in cerca di soluzioni, dopo un po' passa un'altra macchina; questo è un bel Mongolo bardato con una pesante mantella e con la moglie che sta tornando da qualche mercato perché ha tutto il cassone del pick-up pieno di masserizie. Subito si ferma, qua sembra sia quasi un obbligo quello di prestare aiuto a chi è fermo in difficoltà lungo la strada; esamina anche lui la situazione, poi tira giù dal suo mezzo tutta una serie di materiali che dovrebbero essere utili alla bisogna. In effetti il tizio è attrezzato e dispone delle cose giuste. Un crick come si deve, che ci consente di smontare la ruota; un piccolo compressore per rigonfiarla e soprattutto un kit di emergenza che una volta trovato il buco, guarda combinazione un altro bel chiodo, ma da dove saltano fuori tutti questi chiodi nella steppa, consente di riempirlo con una particolare soluzione che infila nella fessura del materiale che si rapprende e dovrebbe consentire di riprendere il cammino. 

Completata l'operazione e rigonfiato pneumatico che sembra reggere, ringraziamo sentitamente il santo che ci è venuto in aiuto e ci apprestiamo a ripartire. Ma ecco che la nuvola nera si appresta a colpire ancora. Il fulmine già caduto due volte, ricasca su di noi per la terza e definitiva. Infatti girata la chiavetta di avviamento, il motore rimane muto ed immobile. Il  mezzo non riparte in nessun modo. L'ulteriore guasto è evidentemente ancora più grave. L'avviamento è morto e sepolto e a nulla vale alzare il cofano e guardarci dentro con l'aria di caprici qualche cosa, Siamo fermi in mezzo al deserto in maniera definitiva. Il tizio delle gomme è ripartito dato che non averbbe potuto fare più nulla, dopo aver tentato anche di riavviare il nostro motore, visto che era dotato anche di una grande batteria di emergenza e relativi cavi e, tanto per gradire, qui siamo in una zona dove i telefoni non prendono per chilometri e se no accidenti, che deserto sarebbe! Niamkaa si sposta a piedi all'intorno salendo su ogni collinetta che sembra sollevarsi un poco nella piana, per cercare un po' di campo, ma niente da fare. Intanto arriva un altro van pieno di Coreani che vanno nella nostra stessa direzione e vengono incaricati non appena arriveranno a destinazione, che dista una cinquantina di chilometri, circa un'oretta di strada, di avvisare qualcuno che venga a tirarci fuori d'impiccio.

Il nostro invece, salito sulla moto del pastore che intanto è ritornato a curiosare, visto che siamo diventati un diversivo per la sua noiosa giornata, si sposta qua e là in cerca di campo. Il tempo, sarà pure che non conta nulla, intanto passa e le ombre della sera cominciano a calare. Nyamkaa sembra che sia riuscito a contattare l'Agenzia, che ha promesso di mandare qualcuno a salvamento, ma non si sa quando arriverà, visto non è neppure ben chiaro dove ci troviamo e come vi ho detto le piste sono molte e distanti tra di  loro. A questo punto non rimane che aspettare, mentre il cielo si incendia di rosso fuoco. Sarebbe un tramonto epocale, con striature che vanno dal rosso vivo al viola, da godersi con calma e soddisfazione se non fosse che essere persi in mezzo a quello che è a tutti gli effetti un deserto, dà una sensazione assolutamente strana. Intanto, basta mettersi a qualche passo dai tuoi compagni, ormai nessuno più dice una parola, e avverti subito il silenzio assoluto che ti circonda, e mentre questo è carezzevole beneficio quando sei andato cercandolo e lo hai  trovato a fatica, quando sei in una qualche difficoltà, è assolutamente inquietante. Sul terreno corrono lucertoloni strani, molto grandi, anomali si potrebbe dire, lontana la sagoma di una volpe o qualche cosa di simile, scompare subito oltre la cresta della collinetta. Sei alla fine solo e lontano da tutto, oltre ad avvertire l'assoluta impossibilità di fare qualche cosa per trarti d'impiccio. 

La temperatura comincia a calare, tiriamo fuori le giacche a vento pesanti e alla fine cala la notte. Non dico certo che il lupo cominci ad ululare dietro la colina, ma la situazione non è piacevole. Adesso è buio completo; purtroppo anche il cielo si è completamente coperto, per cui neppure questa volta e avremo almeno la consolazione di vedere quella stellata assoluta che ci meritavamo, con il grande fiume di luce della via lattea che attraversa il velluto nero della notte. Ci ammucchiamo all'interno del van, cercando di stenderci alla meglio per dormicchiare un po', ma per chi è sullo strapuntino, non c'è neppure la possibilità di appoggiare la testa. Da quando se ne è andato il pastore, non è passato più nessuno, d'altra parte, se no che cavolo di deserto sarebbe. Verso le tre Nyamkaa si riscuote e scende dall'auto, evidentemente pensa che possa arrivare qualcuno e si aggira in qua ed in là sventagliando nel buio la torcia del telefonino accesa (non dispone neppure di una torcia vera), come per segnalare a chi dovesse arrivare, la nostra presenza. Lo seguiamo sbracciandoci a nostra volta con i nostri telefonini, Sembriamo un gruppo di oche impazzite e inseguite dalla volpe, che si affannano a fare gesti a vanvera nel buio. In effetti non arriva nessuno. 

Le ore trascorrono lentissime, ad est comincia ad apparire un chiarore leggero, una sfumatura di arancio; sta arrivando un'alba livida come il nostro stato d'animo. Scendiamo per l'ennesima volta facendo scrocchiare dolorosamente le nostre giunture di anziani artrotici. Nyamkaa intanto ci fa capire che sa di quale pezzo ci ha tradito e che, essendo assolutamente conscio che stava per mollarci definitivamente, aveva concordato di cambiarlo in una officina di un suo conoscente, proprio nel paese dove avremmo dovuto arrivare. Peccato che abbia ceduto prima, ma noi non abbiamo neppure più la forza di maledirlo, mentre camminiamo all'ultimo orizzonte per espletare quantomeno i bisogni fisiologici e le tossine accumulate da quando il nervoso si è mutato in disperata rassegnazione. Il pastore in moto intanto aveva continuato ad andare e venire per tutta la notte, tanto per vedere cosa succedeva, inutile presenza, ma intanto ci ha fatto sentire meno soli. Verso le 7 ormai è chiaro ed il nuovo giorno si manifesta, anche se la temperatura è ancora fredda. Ci rassettiamo alla meglio, mentre Gianluca fa una corsetta intorno per riscaldarsi e anche per controllare che l'assenza del campo, non sia miracolosamente comparsa. 

Nyamkaa continua a non dire niente e il suo viso impenetrabile e segnato dalle rughe profonde che gli inverni hanno scavato nella sua fronte, non consente di farci intendere come sarà risolta la sua situazione, d'altra parte ieri era venuto fuori che lui è un campione di lotta mongola, che si è distinto in parecchi tornei a livello nazionale e questo è dimostrato dalla forte muscolatura che ha messo in risalto quando si è liberato del camiciotto, quindi non si può neppure pensare di mettergli le mani addosso, tanto per sfogarsi. Sono quasi le otto quando un van appare lontanissimo all'orizzonte. Sta percorrendo la nostra pista e viene verso di noi. Dopo poco ci raggiunge e si ferma. E' il mezzo che quella stordita della agenzia, ha incaricato di venirci a recuperare ieri sera, così almeno aveva detto. Alle nostre richieste di spiegazioni accampa una serie di scuse dicendo di essere venuto verso mezzanotte, ma di non averci trovato e quindi di aver rimandato l'operazione a questa mattina col chiaro. Non abbiamo neppure la forza di protestare e lasciamo perdere, traslochiamo i bagagli e ripartiamo abbandonando il povero Nyamkaa al suo destino. Abbiamo saputo poi che ha aspettato due giorni l'arrivo del pezzo che gli serviva, non è chiaro se la dinamo o qualche altra cosa riguardante l'avviamento, ma sembra che si tratti di cose del tutto normali in Mongolia. Noi intanto proseguiamo la strada e arriviamo finalmente al paesino di cui avevamo notizia e qui la strada ritorna asfaltata e in un'altra ora e circa cento chilometri arriviamo alla antica capitale di Gengis Khan, Kharakhorum!


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venerdì 21 novembre 2025

Seta 54 - Nel canyon di Bayanzag

Parco di Bayanzag - Gobi - Mongolia - Giugno 2025 - (foto T. Sofi)
 


Ci alziamo con calma. Il cielo è di nuovo imbronciato e sembra non voglia saperne di migliorare. Davvero non siamo molto fortunati, perché se è pur vero che non fa caldo, in ogni caso non siamo ancora in piena estate, col sole sarebbe un'altra cosa. Abbiamo preso la direzione nord, quella che ci allontana dalle sabbie del Gobi. Il paesaggio è sempre piuttosto brullo e popolato di basse montagne nere ed arcigne, nelle quali alla fine ci infiliamo attraverso una spaccatura che dà accesso ad una serie di canyon rocciosi e poco profondi. Non si vede nessuno all'orizzonte. Di tanto in tanto, da uno sperone un po' più alto si leva in volo un'aquila dal volo lento e planato. Il rapporto che i Mongoli hanno verso questi volatili è molto particolare, in quanto ogni animale che vola ha una congiunzione speciale col cielo, che è parte della natura divinizzata nella teogonia sciamanica che imperava prima dell'arrivo del buddismo e che ancora regola molti dei rapporti tra questo popolo e la natura. In Mongolia non ci si nutre quindi di animali che volano, perché si ritiene che uccidere degli uccelli sarebbe una turbativa nel rapporto col soprannaturale. Naturalmente questo patto non include le galline che alla fine sono ritenuti uccelli sui generis. Tra tutti i volatili, l'aquila ha un posto particolare ed il suo volo lento e maestoso la rende la vera regina del cielo. 

Oltretutto questo rapporto particolarissimo si cementa ancor più in molte parti del paese, col fatto noto che questi animali sono utilizzati per la caccia. Tutto ciò viene solennizzato in autunno in un famoso festival che si svolge nella parte occidentale del paese e che è diventato una notevole attrazione turistica. L'aquila aiuta il cacciatore nella cattura di piccoli animali come topi, serpenti e le marmotte che qui sono numerosissime. Anche questo è un animale molto importante nell'economia mongola, infatti oltre a fornire carne e pellicce, assai apprezzate nel rigido inverno, produce un particolare olio che oltre ad essere utilizzato in cucina, ha il grande vantaggio di rimanere liquido anche a bassissime temperature, tanto che viene utilizzato dai guardiani delle mandrie che rimangono all'aperto in inverno per evitare i congelamenti del volto, per non parlare dell'uso contro le scottature, le malattie della pelle. E' inoltre usato nella conciatura delle pelli che rappresentano ancora una grande importanza nell'economia pastorale locale. Purtroppo la marmotta ha un piccolissimo difetto, che è portatrice della peste bubbonica, che è ancora endemica da queste parti e che si trasmette facilmente mangiando la carne di animali malati. 

Credo che se te la becchi non sia una cosa bella, anche se non siamo più nel 1300. Ma allontaniamo questi pensieri negativi e continuiamo a procedere lungo la pista tortuosa tra le montagne. Ad un tratto davanti a noi, seminascosto tra due rocce protese sulla valle che si aprono in una stretta spaccatura, compare una figura che sembra sorvegliarci dall'alto. Le orecchie aguzze sono tese ad ascoltare. Il pelo ispido e grigio ne gonfia il collo, mentre il muso è alto e rivolto nella nostra direzione come se volesse controllare le nostre mosse. Sembra annusare l'aria, il nostro odore se gli arriva, non gli piace evidentemente. E' un grande lupo delle steppe, l'altro animale iconico della Mongolia. Questo animale è una figura mitica, quasi divinizzata, emblema di forza e di coraggio, alla quale viene riconosciuta una importanza vitale nel mantenimento dell'equilibrio naturale in questo mondo. Essendo infatti in cima alla catena alimentare, elimina soprattutto gli animali deboli ed in eccesso e limitando il numero dei selvatici evita una eccessiva depauperazione degli scarsi pascoli, mentre rafforza la razza di quelli allevati eliminando i meno resistenti e facendo sì che la specie fosse continuata dai più tenaci, cosa che benché non detta sembra valesse anche per gli uomini. 

In effetto la tradizione attribuisce la passata potenza del popolo mongolo proprio al lupo, che rappresenta quindi una figura quasi divina rispettata per la sua forza ed il suo coraggio. Rimaniamo un poco a guardarlo, mentre rimane immobile ad osservarci. Poi quasi di improvviso, un lampo passa nei suoi occhi gialli, un bagliore vivo di orgoglio o di paura e d'un balzo sparisce dietro le rocce. Una presenza che non lascia indifferenti e con cui questa gente convive nei pascoli indifesi, negli accampamenti isolati e circondati da greggi difesi solo da grandi cani da guardiania che, se ti avvicini si guardano intorno con occhi bassi e un brontolio sordo che gorgoglia in fondo alla gola, pronti ad attaccare alla gola chiunque voglia penetrare il loro territorio e tu vagli a dire che non sei un lupo ma un cristiano. Intanto facciamo ancora un po' di chilometri e il cielo si rischiara. Adesso la steppa si è appiattita e di tanto in tanto compaiono gruppi di animali al pascolo. Lontanissime vediamo anche alcune gazzelle, che tuttavia mostrano di non fidarsi troppo della presenza degli umani e filano via a grandi balzi. Evidentemente è carne di qualità ben conscia della possibilità di finire nella migliore dlele ipotesi, su una griglia. 

Intanto siamo quasi arrivati al parco di Bayazag, un'altra delle meraviglie naturalistiche di questo paese, situata nel deserto di Bulgan, che tecnicamente fa ancora parte del Gobi. Ci fermiamo davanti ad un paio di gher, dove una famigliola ha allestito anche una specie di banchetto che offre qualche collanina ai turisti che passano, inclusi un po' di cristalli, rocce e piccole parti di fossili, perché da queste parti si sono trovati giacimenti imponenti di animali preistorici e altra roba che risale a decine di milioni di anni fa, tra i quali esemplari perfetti di velociraptor e uova di dinosauro, adesso conservati nel museo della capitale. Gli compriamo qualche cosa anto per far girare il business e poi via verso il parco dove arriviamo poco dopo. Dopo  l'ingresso ci incamminiamo per il sentiero che conduce ai cosiddetti flaming cliffs, una serie di dirupi in cui il terreno si frange verso la piana sottostante, prodotti dalle erosioni in una roccia estremamente plastica e friabile. Subito si entra un una sorta di piccolo canyon circondati da pareti rosso fuoco dalle forme fantasiose. Attorno a te si allineano pinnacoli e torri, ognuna delle quali con il suo cappello di roccia grigia più dura e resistente che ne ha determinato la formazione stessa. 

Più avanti maestosi calanchi hanno scavato i fianchi della collina e mostrano una serie di fenditure parallele come se le le grandi unghie di un drago si fossero accanite a ferire il monte alla ricerca di un tesoro nascosto. Si procede nel tortuoso sentiero per quasi un chilometro, di belvedere in belvedere, ammirando la selva di funghi e di guglie che ci circondano. Di certo tornare qui a distanza di anni significherebbe vedere uno spettacolo ancora diverso, tanto appare tenera la roccia che, sottoposta alla forza del vento e della pioggia che se pur scarsa, di tanto in tanto arriverà, e degli altri elementi naturali come l'escursione termica che sbricioli ancor di più le superfici per lasciarne i frammenti alla furia di Eolo, che se li porti lontano scoprendo nuove forme, nuove costruzioni fantastiche. Per premiare la nostra costanza è uscito pure un poco di sole che infiamma le pareti incavate delle rocce, formando chiaroscuri delicati ed artistici. Bisogna concludere che il posto merita la sfacchinata per arrivarci. Quando ce ne andiamo è ormai passato mezzogiorno e procediamo abbastanza velocemente verso nord nella piattezza dell'altopiano dove non riesci ad orizzontarti per mancanza di punti di riferimento. Solo di tanto in tanto qualche gher lontana e la pista che si snoda in larghe curve ed infiniti rettilinei. 

Ci sono ancora all'incirca 170 km per raggiungere la città templare di Ongiin Khiid o almeno quel che ne rimane e per arrivarci ci mettiamo quasi quattro ore. Questo doveva essere un complesso decisamente maestoso, del tipo delle città monastiche del Gansu e del Tibet, sorto attorno al 1600 con almeno tre gruppi separati con decine di templi che sorgevano in diversi punti tra le colline attorno al fiume che scorre più in basso e che ospitava oltre mille monaci nel momento del suo maggior fulgore. Tutto fu completamente distrutto dalla furia devastante del dittatore Choibalsan nel 1939, che ispirandosi alle direttive staliniane, non solo le prendeva alla lettera, ma per voler essere più realista del re, ne amplificava se possibile, le direttive. Fu un vero e proprio massacro oltre alla devastazione di un patrimonio artistico di notevole importanza, così di questa vera e propria città, rimase solo una massa di rovine fumanti, alcune centinaia di monaci furono uccisi, gli altri dispersi nelle steppe. Oggi dello splendore passato non rimane che qualche rudere di muro smozzicato e qualche moncone di stupa completamente distrutti. 

Dell'oro delle guglie, del biancore accecante dei chorten e delle pagode, solo il ricordo portato lontano dal vento teso della steppa. Solo, isolato su un rilievo, negli anni duemila si è tentata la ricostruzione di un piccolo tempietto che tuttavia non riesce neppure lontanamente a riportare la memoria del passato splendore. All'interno un bambino che sta lì con compiti di guardiania e che si preoccupa soprattutto che si paghi il biglietto di ingresso, infatti appena ci vede comparire sulla soglia, corre a chiamare qualcuno, che poi risulterà essere la madre bigliettaia, non sia mai che scappiamo via senza pagare, visto che questo sarà forse l'unico magro introito familiare della giornata. A fianco un basso locale, una stanzone o poco più che conserva poveri oggetti ritrovati nel sito, tankhe sbriciolate, tracce di sculture in legno corroso, simulacri di pietra più resistenti alle ingiurie del tempo e degli uomini. Una sensazione di abbandono e di tristezza infinta, in un paesaggio popolato dagli spettri del passato. Ce ne veniamo via con lo spirito acciaccato scendendo lentamente l'erta sassosa. Adesso ci aspetta ancora una lunga strada per raggiungere la meta di stasera. Ma al nostro mezzo invece ci attende una sorpresa. Il nostro Nyamkaa sta trafficando attorno ad una gomma. Accidenti abbiamo bucato e qui comincia l'Odissea.

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giovedì 20 novembre 2025

Seta 53 - Le dune che cantano

Khongoryn Els - Parco del Gobi - Mongolia - giugno 2025 - (foto T. Sofi)

Le dune sono lì davanti ai nostri occhi, immense, altissime, di certo oltre i 200 metri, ai nostri fianchi si allungano a perdita d'occhio, una sfilata di colline ripide color oro, che all'infinito diventano giallo chiaro che sfuma nel bianco, colori resi ancora più intensi dal cielo grigio piombo. Nell'anfiteatro che sta davanti a quelle che probabilmente sono le più coreografiche e spettacolari, c'è parecchia gente, convenuta evidentemente dai tanti campi di gher che ci sono nella piana sottostante. Per accedervi siamo risaliti un poco, scavando profonde tracce nella sabbia, tuttavia abbastanza solida da consentire di arrivare fino ai piedi di quella che da sotto appare come l'erta scoscesa di una montagna che non è così semplice scalare. La maggior parte dei convenuti si disperde intorno, decisa unicamente a scattarsi selfie per immortalare il momento. Non c'è vento, cosa da un lato favorevole, perché consente di girare qua e là senza doversi preoccupare di mangiar troppa sabbia, dall'altra però non avremo probabilmente l'opportunità di sentire quello che viene chiamato il canto delle dune, visto che è proprio il vento che facendo rotolare i granelli gli uni contro gli altri, crea l'effetto. Quantomeno questa è la spiegazione scientifica del fenomeno. 

In queste, pare che, proprio perché qui la dimensione dei granelli è molto diversa, si odano una serie assai disparata di frequenze, tali da simulare davvero la sensazione di voci che chiamano i viandanti trascinandoli alla perdizione, facendoli definitivamente smarrire tra le dune. Mi incammino con calma verso la salita, cercando di capire dove è possibile per me arrivare. Il primo tratto è costituito da una serie di avvallamenti dove la sabbia ha una certa consistenza sotto i piedi e consente di camminare abbastanza regolarmente. Qua e là ci sono addirittura cespi stentati ma coriacei di erbe aridofile, che hanno anche un effetto di contenimento del terreno. Poi, a poco a poco la salita aumenta e ci metto un po' di tempo per risalire una grande duna che costituisce una sorta di anticima della catena principale tanto da farti arrivare ad un vero e proprio belvedere, dal quale la vista sulla piana in basso e sulla catena, adesso giallo chiara, è davvero notevole. Ancora un tratto quasi in piano e poi comincia la salita vera  e propria. Qui la sabbia cambia consistenza diventa più morbida, leggera, quasi impalpabile e cede decisamente sotto il peso del corpo che cerca di procedere. 

E anche qui, possiamo dire che non sono avvantaggiato. pazienza. Il piede affonda decisamente ed ogni passo in avanti comporta uno sforzo per disincagliarlo. Dopo un po', ho le scarpe completamente piene di sabbia e comincio ad arrancare con una certa fatica. Vedo altri disperati che stanno tentando la scalata, sono orientali, Coreani e Giapponesi, decisamente più attrezzati, hanno quasi tutti speciali calzari che avvolgono tutto l'arto inferiore, legati al ginocchio, rossi e tutti uguali, forniti evidentemente dalla loro organizzazione, questi dell'estremo oriente sono sempre molto forniti di ogni gadget necessario. Questo consente loro di procedere con meno fastidio, ma altrettanta fatica, perché affondano nello stesso modo. Forse ci vorrebbe qualcosa di simile alle racchette da neve. Bisognerebbe pensarci. Comunque capisco subito che non ce la potrò mai fare. Questa che è la parte più semplice della salita, mi ha già messo ko, ma vedo che superando anche l'ultima duna preliminare comincia l'ultimo tratto della salita, oltre cento metri, che si ergono quasi verticalmente lungo il fianco della duna principale, dove si è creata una fila di scalatori che procede quasi a tentoni, scavando un vero e proprio sentiero nella sabbia. 

Tiziana, con Gianluca e Lucy cominciano a salire, ma vedi subito che si procede come i gamberi, un passo avanti e poi se non sei più che attento, due indietro, nel bordo che sprofonda e non consente di appoggiare l'arto per risalire. Pure la fila, lentamente procede verso l'orlo superiore della duna che si stende orizzontale ed ondulato come la lama di una scimitarra turcomanna, abbandonata lì da qualche gyn, i geni malefici che abitano i sottosuoli dei deserti e che odiano essere disturbati specialmente dagli esseri umani, fastidiosi e malaccorti. A questo punto capisco che per me diventa impossibile andare oltre, bisogna riconoscere ed accettare i propri limiti, inutile farsi illusioni e quindi rimango lì a contemplare lo spettacolo, le ondulazioni magistrali degli strapiombi, i colori e le sfumature dalla sabbia, quelle del verde della piana dove lontano indovini i meandri del fiumiciattolo che si perde tra i pascoli. Si ferma vicino a me un Giapponese, neppure tanto giovane, che, completata la fatica, sta discendendo. Le fessure dei suoi occhi si allargano un poco, quando cerca di raccontarmi lo stupore e la meraviglia, per il mare di ondulazioni che si possono ammirare al di là dalla cresta. Mi vuol far sapere che ha 56 anni ed è molto orgoglioso dell'impresa, per la quale è ancora un po' affannato. così si siede vicino a me e mi mostra un po' di foto sul telefonino, contento di avercela fatta.  

Un distesa infinita di dune delle quali non riesci ad intravedere la fine e che illustra nel modo più esaustivi il concetto di deserto, quale di solito lo immaginiamo. Onde di sabbia che seppur lentamente si muovono spinte dal vento da milioni di anni. Tuttavia un velo di rimpianto c'è anche nel suo sguardo, oggi poco o niente vento, dunque nessuna canzone, né concerto di voci di spiriti gementi, oggi tra le sabbie, anche Ulisse deve rimanere deluso, le Sirene oggi dormono o semplicemente non hanno voglia di fare il loro lavoro, bisogna accettarlo. Poi se ne va con la caratteristica andatura a balzelloni che si usa quando cerchi di non sprofondare. Intanto i miei compari, che vedo ormai lontanissimi, continuano a procedere. Poi Tiziana, arrivata ai due terzi della rampa finale cede e torna indietro. Troppo faticoso e difficile continuare a tentare a salita. I due ragazzi invece con la gamba dei trentenni e anche meno, continuano a salire come cerbiatti ed in una mezz'oretta li vedo, puntini neri, che hanno raggiunto la meta e spariscono dietro la cresta. Anche loro mi parleranno di spettacolo indimenticabile, va be', si fa quel che si può, non pretendiamo l'impossibile, oltretutto avevo anche un polso rotto (senza saperlo naturalmente), che tenevo appoggiato come un bimbo addormentato sulla panza prominente e che, anche se non si  lamentava, tuttavia, mi era di un certo impedimento alla camminata regolare e ad un procedere più spedito. 

Sono stato un'oretta a godere di tutte le variazioni di luce mentre il sole scendeva alle mie spalle e dietro la grande duna. Basta mettersi un poco a lato, dietro un monticello, tra i ciuffi di erba e la gente chiassosa sparisce alla vista e anche dalle orecchio. Neanche più ti accorgi della schiera di ragazzotti che, muniti di padellini di plastica, gli stessi che si usano sulle piste da sci, di cui evidentemente si sono appositamente attrezzati, si lasciano scivolare a precipizio lungo il fianco della duna, acquistando via via sempre maggiore velocità fino ad arrivare al fondo dove rotolano felici in una nuvola di polvere gialla. Accidenti, di certo Marco Polo non se li sarebbe immaginati questi epigono del Catai o di Zi Ban Guo, che si scatenano senza paura in questo mondo che a lui pareva così sperduto nel nulla. Neanche si sarebbe immaginato che tra un paio di giorni questi saranno già comodamente a casa loro, mentre lui ci avrebbe messo un paio d'anni a fare lo stesso percorso. Come cambia il mondo. Noi allora ritorniamo alla nostra gher, a trascorrere una notte tranquilla senza il timore di essere trascinati dai gym, a perderci nel deserto. Il cielo è completamente coperto di nubi Neanche questa notte si potrà vedere la stellata che come una coperta trapuntata di luci, vegliava la notte dei pastori erranti nell'Asia.

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25 - A Xining






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