
...e BUONE FESTE A TUTTI....
Chissà se è poi così vero che l'aggressività della specie umana sta tutta nella sua componente maschile? Questo è, quanto meno quello che si dice e la maggior parte dei fatti della storia lo conferma. Non c'è avvenimento tragico ed efferato del cammino umano che non ci racconti di impettiti uomini in divisa o di biechi personaggi acquattati nei loro palazzi a programmare stragi e violenze di ogni genere. Anche l'uomo singolo, il maschio, quando è solo, è quasi sempre aggressivo o comunque inquieto e si muove apparentemente senza senso alla ricerca di equilibrio o di un senso di completezza. La lingua cinese fa proprio questo concetto e lo definisce con il carattere Ān che significa: pace, serenità, quiete e come forma verbale: tranquillizzarsi, calmarsi. L'ideogramma è costituito dal segno di Tetto, sotto il quale vi è il segno che ormai vi è ben noto di Donna. Quindi: quando nella casa di un uomo c'è una donna, questo si calma, la smette di correre di qua e di là, diventa meno aggressivo; la sua serenità particolare si generalizza nella pace della comunità (a cui evidentemente non vengono più insidiate altre femmine). Questa attribuzione al genere femminile della responsabilità della serenità universale, forse è sopravvalutato, ma qualche cosa di vero ci dovrà pur essere, se nella progressiva maschilizzazione che il nostro modello di sviluppo attribuisce alle donne, questo lato diventa sempre più sfumato o per lo meno più trasversale. Attendo inferocite contestazioni a conferma di questo assunto.
"La place rouge était vide..." un ritornello che non riusciva ad andarsene. Che notti, quelle d'inverno a Mosca. Cominciano alle tre del pomeriggio a fine dicembre. Che pace andare a piedi verso la Piazza Rossa, dopo cena, da solo, con le suole spesse che fanno scricchiolare la neve nella immensa piazza deserta, mentre sotto i denti sentivi il gusto di ferro del freddo e dei fiocchi che non ce la facevano a cadere. Solo qualche sfarfallio, di tanto in tanto, a ricordare con qualche puntura sul viso la durezza morbida di quel mondo. Giravano pochi turisti allora e se ne stavano tutti rintanati all'Inturist, quando non se li trascinavano su vecchi torpedoni al Bolschoy o a Novodievicy. Sul grande spazio della piazza qualche guardia lontana, infagottata nel feltro sotto la shapka di ordinanza a far finta di non sentire il freddo, ad impedire che si attraversasse, chissà perchè, il grande spazio aperto. Sulla destra i magazzini GUM, che avevano chiuso appena uscita dalle sgangherate porte da cui usciva un soffio potente di calore teletrasportato, l'ultima truppa di matrioske che si erano aggirate tra i negozi che esponevano le ultime produzioni sovietiche, magari in fotografia , da prenotare. Il Cremlino incombeva sulla destra, quasi nascondendo l'incongruo mausoleo di Lenin dove le code di visitatori silenti si erano man mano diradate negli ultimi tempi, con la sua presenza silenziosa ma ammonitrice. Sull'alta torre Spaskaija, come mi ricordava sempre chi conosceva bene le cose, brillava comunque e forte la stella di rosso rubino. Ogni tanto si apriva lentamente il portale , le guardie si ponevano sull'attenti e dopo poco una Volga nera coi vetri scuri arrivava a velocità folle (chissà perchè poi) e si infilava senza rallentare sotto la torre scomparendo nei meandri del Politburò, forse a discutere dello sfacelo incombente, mentre i gerontocrati rimanevano fermi con l'occhio fisso ed il sorriso imbalsamato che li avrebbe dissolti. Che senso di immobilità statica nella grande piazza. In fondo, le cupole di San Basilio gigioneggiavano, fiamme multicolori a ballare il sabba dell'attesa di un evento prossimo. Poi, sazio, me ne tornavo al mostro ipertrofico del Rossia, una ferita inguaribile aperta poco lontano sui cadaveri di piccole chiesette ortodosse, percorrendo a piedi i larghi spazi deserti. Non serviva guardare attorno prima di attraversare; non passavano auto, non c'erano auto.
Il Tai Ji Quan è una tecnica del corpo derivata da un’arte marziale cinese. Viene chiamata anche “meditazione in movimento” in quanto la serie di tecniche che vengono eseguite in sequenza, coordinate alla respirazione, sono finalizzate a dare al corpo equilibrio fisico e mentale e armonia di pensieri e di movimenti, secondo uno schema consueto in tutto l’Oriente, che non disgiunge mai l’attività fisica da quella spirituale. Il Tai Ji è una scansione continua di respiro e dinamica. Una simulazione di tecniche di lotta che nella realtà servono ad esercitare armonicamente ogni muscolo ed articolazione del corpo senza forzature o traumi. Ma il Tai Ji è anche uso simbolico della antiche armi cinesi. Nei luoghi dove era vietato portare armi, come nei palazzi imperiali, il guerriero teneva comunque con sé il ventaglio da guerra, uno strumento di cortesia trasformato in un’arma micidiale con stecche d’acciaio, fornita di lame affilate. Una cultura vecchia di millenni che ha sempre privilegiato la ricerca del'armonia fisica e mentale per raggiungere la serenità interiore, contrapposta ad un'altra cultura che ha messo al primo posto lo sviluppo, l'approccio analitico ai problemi, il benessere materiale e per questo è risultata vincente, tanto che ha travolto la prima avvolgendola in un abbraccio mortale. Ma se il benessere complessivo dell'individuo ne viene in effetti diminuito? Nei parchi delle città cinesi, solo anziani alle 6 del mattino praticano le forme del Tai Ji, abbarbicati per abitudine, non per convinzione, all'antico; forse irrisi dai giovani rampanti tesi a scalare le conquiste dei loro coetanei d'oltremare. Ma , Graecia capta ferum victorem cepit, e quindi un caldo grazie alle ragazze dell' Accademia Ohashikai ed alla loro Maestra Kinoué, che ieri sera, allo spettacolo organizzato dall' Associazione Il Melograno hanno dimostrato con grazia e tecnica il loro credere in una visione più completa della ricerca umana, muovendo con perfezione il ventaglio Shan, non per colpire alla gola un nemico reale, ma per affrontare e sconfiggere la parte oscura che è dentro di noi.
"Il rosso è il colore del corallo, è il colore della gioia, della bellezza. Di questo colore devono essere le labbra di una donna. E deve avere la bocca piccola, gli occhi rotondi e delicati piedi minuscoli." Questo mi ripeteva sempre Chen, a Xi An, quando andavamo a cena tra le bancarelle del mercato notturno. Guardava le ragazze, dietro i banconi con l'occhio pensoso del mandarino che sceglie le concubine per il figlio. Aveva conosciuto la fame, Chen; era piccolo durante la grande carestia che uccise in Cina più di trenta milioni di persone e mi raccontava di sua madre che andava lungo i fossati, in campagna a cercare erba e radici da far bollire per dare una minestra alla famiglia, catturando se aveva fortuna, qualche rana o altro che si muovesse tra le canne. Erano stati anni terribili, per questo guardava con occhi sereni e compiaciuti l'abbondanza di cibi e di merci che traboccano da tutti i mercati cinesi. Era magro, con le guance incavate e gli occhi lievemente inespressivi, imperscrutabili. La fame antica non lo aveva reso vorace come capita a molti che hanno avuto questa esperienza di vita, ma mangiava poco e lentamente, senza il consueto rumoreggiamento di risucchi; guardandosi intorno, osservando, apparentemente indifferente, con le labbra atteggiate ad un leggero sorriso. Orgoglioso, ma pacato, con un atteggiamento di nobiltà nei modi e nella postura che non si impara, ma ci si porta dalla nascita. Parlava un italiano perfetto, con termini ricercati e precisi ed una pronuncia inusuale per un cinese, senza confondere la r con la l, imparato in una dura scuola e proseguita in anni trascorsi all'Ambasciata in Italia con compiti sfumati. Sceglieva le parole con cura e le diceva a voce bassa e suadente, guidandomi nella tortuosità dei contatti e dei complessi schemi di cortesia del suo paese. Rideva, ma sommessamente, dei miei tentativi di compitare qualche semplice carattere o mentre modulavo le diverse tonalità della pronuncia cinese. "Hai detto cavallo, non madre, signor An Li Ke." e mi correggeva con delicatezza. Sembrava sorridere della mia frustrazione di aver speso giorni in una estenuante trattativa per un impianto per produrre yogourth non andata a buon fine. Era come estraneo alla concitazione del business ed alla furia affaristica che percorreva il paese. Troppo nobile per farsi coinvolgere, troppo Tao per agitarsi per gli insuccessi. Lo turbava solo la bellezza delle foglie giovani del bambù, la nebbia azzurra che saliva sulle colline lontane, il pallido sole del tramonto, le carpe dalle scaglie dorate del lago, il rosso corallo delle labbra ed i piccoli piedi delle ragazze. Rimase poco con noi, di corsa in un mondo che gli apparteneva poco. Aveva mani lunghe e sottili Chen di Xi An.
Erano appena avviati i fabulous sixties. Ma com'è che avevamo tutti quell'aria da James Dean, da gioventù bruciata? (io un po' meno per la verità, c'era già una lieve tendenza alla pinguedine e i grassi non sono mai maledetti). Qualcuno aveva sentito per la prima volta She loves you e diceva che la musica era cambiata anche se quando andavamo a ballare c'era l'orchestra (non si chiamavano ancora "complessi"), che Arturo Testa aveva una bella voce, ma stava passando. In effetti si avvertiva che qualcosa stava cambiando, che tirava un'aria diversa, ma chi poteva immaginare i cinquanta anni successivi. Se penso alle giornate passate seduti su una panchina a quello che si diceva dei giovani di allora, a tutte le nequizie che si pensava avrebbero commesso; vien da ridere. Gli anziani sono sempre gli stessi e dicono le stesse banalità da duemila anni. Ripetiamo oggi le stesse parole di Seneca e siamo convinti di dire grandi verità. Forse noi non abbiamo saputo cogliere l'occasione morale che veniva dal dopoguerra. La voglia di fare e di fare bene si è tramutata in una generazione che ha ammirato e praticato la furbizia come dote, ma il mondo andrà avanti come prima. Passerà la crisi, molti piangeranno, altri faranno soldi, a meno che il Grande Impero non decida di risolvere il problema, come sempre in passato, con una Grande Guerra, sperando di sistemare i suoi debiti con una colossale svalutazione. Del fatto che voleranno le atomiche, a chi comanda non frega molto. Anche dopo quelle, comunque il mondo in qualche modo andrà avanti e ci saranno sempre i ragazzi come te, Lauro, che passavano ore ad aggiustarsi il ciuffo e a farsi ammirare dalle ragazze. Per inventare Fonzie hanno copiato il tuo format.
In Cina in tutte le formule di saluto viene usato questo carattere, che significa "buono", un po' come da noi "salve", insomma un augurio o un auspicio che la persona che si saluta stia bene, fisicamente e moralmente. Dovunque andrete in Cina, vi sentirete sempre rivolgere con un sorriso un Ni hao (tu buono), un cordiale saluto valido per tutti. E' interessante esaminare l'ideogramma, che è composto da due caratteri più semplici. Quello a sinistra che abbiamo già visto (nǔ) significa "donna", mentre il secondo (zǐ ) significa"bambino". Ed in effetti che cosa c'è di più bello di una donna con un bimbo in braccio, due piccoli segni per illustrare la positività, che diventa augurio, serenità, tranquilla gestione di una quotidiana accettazione dell'essere. Affrontare il presente senza paure, reali o precostituite da chi ha interesse ad averci pavidi ed impauriti per poterci meglio imbavagliare. Forse proprio dalla tanto vituperata Cina, che peraltro ha situazioni e atteggiamenti per noi inaccettabili, ma assolutamente congrui ed indifferenti per la quasi totalità dei suoi abitanti, arriverà l'aiuto e la sponda per tirare fuori dal guano chi con spocchia e disprezzo aveva spiegato al mondo ignorante ed ossequioso quali devono essere le corrette procedure economiche.
Cosa conduce un gruppo di over ... a sfidare le intemperie, le nevi della nuova glaciazione, ad abbandonare le tranquille serate accanto al caminetto con la copertina sulle ginocchia per ritrovarsi e raccontarsi il piacere di rivedersi di tanto in tanto? Certo qualcuno si dà malato, qualcun altro non si ricorda qual è la sera giusta (è vero che gli anni passano). Forse, però, è tutto racchiuso nelle parole che mi ha scritto l'altra sera Gian Maria e che vi riporto tal quale:
Sono sempre stato attratto dagli scambi, dalla trattativa, dal fascino del mercato in quanto tale e dalla mentalità mediorientale che lo accompagna. Forse un'altra delle mie vite precedenti mi ha lasciato questo imprinting. Ero nato vicino alla costa in quella che i Romani, i nuovi padroni del mondo, chiamavano Arabia Felix. In realtà non ne sapevano quasi nulla e immaginavano che da noi venissero tutte le spezie che amavano molto e ci compravano in quantità. Io due volte all'anno risalivo la costa del mar Rosso con una piccola carovana carica di incenso che scambiavo con mercanti in arrivo da isole lontane dell'Oriente di cui i Romani non sospettavano neppure l'esistenza. Era autunno o primavera quando arrivavo a Petra. Che sensazione; si dormiva fuori città. Poi il mattino, fresco e pulito, con il mio vestito più bello, attraversavo il lungo sif di roccia che conduce all'ingresso e facevo il mio ingresso nella città davanti alla mia piccola carovana come un principe che arrivasse d'oltremare. Credo che fosse uno dei più grandi mercati del mondo ed era tutto un brulicare di mercanti, di faccendieri, soldati, profeti e adepti di sette religiose che fermentavano da quelle parti in maniera mai vista. Tutti predicavano la Verità, altri, i più scaldati del momento ce l'avevano con noi, i mercanti, che ci interessavamo più di affari che di filosofia. Ma di questa gente ce n'è sempre stata, mi diceva mio nonno, poi ogni tanto si decidono, ne fanno fuori qualcuno e non se parla più per un po', fino a quando non salta fuori un altro matto, che si tira dietro un po'di sfaccendati. Quella volta aspettai due giorni prima di incontrare Rufus Macrinus. Era sveglio, più degli altri Romani e non aspettava sulla costa l'arrivo delle merci, ma saltando un passaggio, arrivava fino a Petra ed era da anni il mio migliore cliente. Parlavamo la lingua franca del Mare Nostrum, ma lui intendeva perfettamente anche il Nabateo, anche se faceva finta di non capire. Ogni volta cercava di farmi raccontare da dove arrivava il mio incenso, poi faceva finta di credere alla storia che lo coltivavo io stesso nelle mie terre a sud di un deserto impossibile da traversare e non tirava neanche troppo sul prezzo e mi versava con sussiego aurea argenteaque sextertia (nel lavoro, se non ficchi qualche parola in latino qua e là, non sembri aggiornato, così, ut mercaturam adiuvare, facillime latinam linguam loquor). Non amano la trattativa questi Romani, hanno fretta di concludere, vogliono tornarsene a Roma. Questa città deve essere ben straordinaria, 50 volte più grande di Petra; mah, Rufus ama esagerare, specialmente quando racconta della sua città, dell'imperatore, delle ricchezze, dei palazzi e delle genti di ogni paese che la popolano. Vuole concludere in fretta caricare i sacchi di incenso sugli asini e raggiungere la costa e la nave che lo aspetta per tornare a tuffarsi nella confusione cosmopolita della sua terra. Cerca sempre di portarmi nelle nuove taverne di moda, che servono tutti cibi elaborati con quello schifo di garum che piace tanto ai Romani. Non apprezza il lento scorrere del tempo, bere con me l'infuso nero, amaro ma forte e profumato delle bacche di Kava che viene dalla mia terra e parlare un po' del senso della vita, prima di trattare le merci. Non apprezzerebbe certamente la solitudine del deserto del sud, delle grandi dune sabbiose con le sfumature di colori del tramonto che si perdono all'infinito. Le notti sotto il cielo stellato davanti al fuoco tra racconti di avventure e ricordi di mondi lontani e di ricchezze ancora da scoprire. Lui ama il fasto della città, mi racconta di grandi spettacoli, di arene con uomini che si combattono e si uccidono per il piacere della folla che urla, di eserciti che partono alla conquista del mondo, di dame carichi di gioielli che arrivano da luoghi che non ho mai sentito, vestite di damaschi e di tessuti costosissimi che arrivano dai Sini. Nel nostro ultimo incontro mi ha fatto capire che presto arriverà anche qui un grande esercito e che questa terra di teste calde sarà finalmente pacificata per sempre. Basta con questo bailamme di religioni che portano solo caos. Pax romana per tutto il mare nostrum e mai più teste calde in Palestina. Un gran sognatore, Rufus, intanto mi ha pagato l'incenso il doppio di sei mesi fa. Con la crisi che gira, il lusso tira sempre.
Gli Urali del Sud non sono che alte colline dai profili arrotondati e coperti di fitti boschi di bianche betulle. In una valletta laterale, appoggiato al crinale, il gigantesco parallelepipedo sovietico dello Yangantau Sanatorij domina la gelida esse d'argento della doppia ansa del fiume, pietrificata dai -25% di un gennaio spalmato di perestroika. Il vento teso della Bashkiria è cessato e passeggiare nei boschi illuminati dal sole pallido è piacevole anche se la pelle è un po' intorpidita, anestetizzata. Eravamo arrivati la sera prima, per concludere un contratto per l' imbottigliamento dell'acqua mineral-solfo-ferro-iodo-radioattiva, comunque più miracolosa di quella di Lourdes, che sgorgava dalla sorgente termale della zona e a cui faceva capo un centro di "vacanza e benessere" zeppo di lavoratori meritevoli che trascorrevano lì la loro quindicina di riposo (in russo, essere in vacanza e riposare si traducono con la stessa parola). Dovevamo essere ricevuti dal direttore del complesso per avere l'autorizzazione ad imbottigliare la preziosa acqua, convincendolo che non sarebbe stato turbato l'equilibrio dell'ambiente. Così dopo un'abbondante colazione a cetrioli e panna acida, nella dacia di legno odoroso che ci aveva ospitato, io ed i colleghi ci avviammo verso l'ufficio del luminare, attraversando prima i giardini coperti di neve, poi la piscina terapeutica e l'ampio salone dove gruppi di matrioske insaccate in grandi divani di similpelle, ci guardavano passare con simpatia. "Balshaija Italijanskaja delegazija" mormoravano, commentando tra di loro l'inusuale avvenimento di cui l'intero complex era al corrente. La Delegazija, nell'URSS, dava sempre una sensazione di grande importanza ai fatti ed agli avvenimenti, che venivano di norma sanciti da grandi documenti con abbondanza di vistosi timbri, preferibilmente rossi e rotondi, con un finale di brindisi e abbracci. Lo scienziato aveva un assoluto fisique du role, magro e allampanato, barba imponente e occhio infuocato, dostoievskiano direi. Ci ricevette in un ufficio semplice, da studioso che ha dedicato la vita all'indagine dei benefici effetti che la Sua Acqua dava ai corpi malati. Lo lasciammo parlare a lungo con aria grave e convincente, gli demmo le necessarie rassicurazioni, ma prima di concederci il benestare, volle che, senza indugio ci sottoponessimo ai trattamenti idroterapici offerti dalla casa. Pur essendoci già dichiarati assolutamente convinti, non potemmo sottrarci alla prova e fummo quindi condotti in uno scantinato sulfureo dove scorreva l'acqua benedetta. Io, avendo ingenuamente dichiarato dolori ricorrenti alla schiena, fui sottoposto prima alla vista del figlio dello scienziato, studioso anch'esso e specialista di schiene, che mi manipolò a lungo, scrocchiandomi rumorosamente la colonna e sentenziandomi un futuro difficile con la necessità di costante terapia termale. Il mio collega, a cui era stato esaminato con cura un ginocchi dolente, fu quindi avvolto in candidi panni e introdotto in una sorta di lavatrice da cui uscivano vapori sulfurei, mentre io venni inserito nudo in una bara di similplexiglass, in cui veniva pompata dalle profondità della terra un soffio bollente e medicamentoso. Fummo abbandonati lì per circa un'ora, mentre il collega si lamentava di tanto in tanto e solo le nostre teste emergevano dai loculi danteschi, scambiandoci occhiate interrogative. Fummo infine liberati, il documento stilato, i timbri opportunamente apposti, forti abbracci e baci suggellarono la cerimonia. Terminammo la serata nella dacia con sashliki ben grigliati e una selva di bottiglie di vodka vuote e mentre Robert, il dolcissimo e gentile ingeniere (un vero amico) che sarebbe stato responsabile dell'impianto, che aveva ormai gli occhi sbarrati ed inespressivi dietro le spessissime lenti, ci guardava senza vederci. Lo mettemmo a letto e finalmente ci addormentammo. Il mattino dopo, mentre i raggi del sole doravano la crosta gelata del sottobosco, pur lamentandosi per il fortissimo mal di testa postsbronza, Robert ci accompagnò nella valle all'ufficio postale, dove avevamo prenotato 24 ore prima la telefonata in Italia per comunicare l'accordo. Versammo i 200 rubli pattuiti per tre minuti ed alle 9:30 come previsto, l'enorme addetta, una autentica Tamara Press della cornetta, ci indicò con gesto stanco una cabina, dove tentammo inutilmente di avere la linea. Delusi, tentammo di farci restituire il denaro, ma Tanija ci spiegò che noi avevamo pagato la "possibilità" di telefonare e se non c'era la linea non era certo colpa sua. Tornammo alla dacia con calma, i telefonini e Skype erano ancora di là da venire.
E' scesa ancora la neve. Cosa c'è di più piacevole che trascorrere la domenica con persone care che ti hanno preparato con affetto cibo e compagnia. Perchè l'età che avanza, alla maggioranza delle persone, invece della serenità della consapevolezza, induce tristi rimpianti di giovanilismo e splendori passati spesso sopravvalutati?