Disegno di G. Gemme. |
La nostra città è un po' lo specchio del paese. Da decenni sta, in pratica perdendo i pezzi. Ad uno ad uno i giovani se ne vanno in altre città ad inseguire il loro difficile futuro ed anche i vecchi seguendo i ritmi della natura se ne vanno (al cimitero). Pare che se ne stiano andando anche i cinesi, che non è un buon segno. Oggi è stata organizzata addirittura una caccia al tesoro alla ricerca di luoghi storici della memoria della città, scomparsi da tempo, come quello di cui vi ho parlato ieri. Forse sarà incluso anche il più celebre bar della nostra città. Ma qui la storia è diversa. Baleta non era un bar, ma un luogo speciale di cui vi ho già fatto cenno più volte. Una istituzione cittadina da cui si passava, se eri maschio quasi obbligatoriamente, dal momento in cui iniziavi le scuole superiori e che si continuava a frequentare per tutta la vita. Anche quelli che se ne andavano, quando ricapitavano in città non mancavano mai di passare un attimo, per ritrovare un'atmosfera unica e indimenticabile. E quando il proprietario Gino Gemme si è ritirato per godersi la meritata pensione, non è riuscito a trovare qualcuno a cui passare il testimone, ricevuto da suo padre, che non snaturasse l'atmosfera particolare del luogo, ha deciso con la morte nel cuore di lasciare così lo spazio ad una delle miriadi vendite di vestiario, piuttosto che ad un banale bar che avrebbe soltanto ampliato l'agonia della perdita. Una ferita enorme per la città e per lo stuolo dei frequentatori che continuano dopo anni a passeggiare sperduti per la vicina piazzetta, rinverdendo episodi e ricordi di decenni passati. Si è già detto che non era un comune locale, ma una specie di club, frequentato esclusivamente da uomini, che ci entravano per la prima volta da studenti e non lo lasciavano più.
Era un centro di alessandrinità assoluta, dove spesso il dialetto degli avventori storici la faceva da padrone, aperto in effetti a tutti ma terribilmente esclusivo, in cui un estraneo, il cosiddetto turista, entrato per caso, spiccava come una mosca bianca. Qui nascevano tormentoni, discussioni infinite, qui ti sentivi comunque a casa. Ancora oggi dopo anni, si ricordano le figure più note che hanno popolato il bar negli anni e nell'apposito gruppo di Facebook, che il buon Gino, che da tempo ha superato il gap del digital devide, posta continuamente foto d'epoca per rinverdire l'amarcord degli aficionados. Essendo anche un grandissimo disegnatore, da un po' ha cominciato a pescare nel suo sterminato archivio, una serie di disegni che descrivevano tipologie di avventori e situazioni che si erano consolidate nel locale e d'accordo con altri amici si è deciso di ripresentarle con qualche commento per dare un po' di spazio alla nostalgia un po' amara che ci permetta di spostare l'attenzione su qualcosa a cui pensare con affetto e con sentimenti positivi. Voglio cominciare dunque dalla figura che caratterizzava il senso del bar: il cosiddetto abitué. Questo era lo zoccolo duro del locale, che l'abitué aveva cominciato a frequentare fin dalla più giovane età, al mattino quando faceva magno da scuola, rifugiandosi nella sala biliardi per sfuggire all'interrogazione, fino alle età successive quando passava ai tavoli delle carte o alla sera nel cenacolo della sala della televisione, dove le interminabili discussioni si protraevano fino a tarda notte.
C'era comunque una sorta di gerarchia tra i frequentatori, data appunto dalla anzianità "di servizio" o dal carisma del personaggio, riconosciuta comunque senza parole e attribuzioni ufficiali, ma che ognuno si prendeva automaticamente, sedendosi al tavolo di spettanza. Come bene esplicita il disegno, l'abitué considerava il bar un po' come casa sua; entrava a qualunque ore come persona attesa, si guardava attorno per controllare chi c'era, si portava al "suo" tavolo e cominciava la chiacchiera con i presenti, riprendendo l'argomento della sera prima, fosse il calcolo del peso dell'aquila o la triste situazione dei Grigi, la nostra squadra locale, sempre in ambasce, tranne qualche raro sprazzo di gloria. Quando se ne andava, salutava col classico -Segna Gino- e spariva nel vicolo attraverso la porta a vetri. Gino annotava sul quadernetto sotto la cassa, la colonna infinita delle consumazioni, una pagina, un nome a matita. Gli scontrini erano ancora di là da venire. L'abitué passava sempre dal vicolo per accedere direttamente al bancone, l'altro ingresso dal portone del cortile era invece appannaggio degli studenti che dominavano la zona flipper e poteva venir considerata come una diminutio. Era un po' come se avesse davvero le chiavi del bar in tasca.
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2 commenti:
Qualcosa del genere ci fu anche dalle mie parti, ma... ancora nessun Gruppo o Pagina di sorta su Facebook!
@Adri - Prendi tu l'iniziativa. Questa di alessandria ha già più di 400 membri!
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