Gli occhi di un bimbo vedono le cose in modo differente, un adulto, direbbe deformato. E' come una specie di filtro che modifica l'immagine, la trasforma, la altera, in genere la ingigantisce e la rende irreale e magica. A distanza di anni tutto sfuma in un ricordo che si è perso di vista le cose e mantiene piuttosto quelle emozioni. Forse avevo sette od otto anni e dall'orto di mio papà, che se lo coltivava con gran cura, inclusi i dieci chilometri andata e ritorno, in bicicletta d'epoca, pesantissima, che si faceva per raggiungerlo, arrivavano borsate di pomodori rossi ed enormi, patate e montagne di fagiolini ai quali poi alla sera la mia mamma pazientemente, toglieva le punte a cui rimaneva legato il filo e poi, chissà perché spezzava in due con un colpetto secco della mano, mettendoli in un grande grilletto bianco. Mi rimane ancor vivido quel colore bianco e lo snap della cornetta, allora le chiamavamo così, ritmico ed inconfondibile. Mi ricordo anche il sapore inconfondibile di una varietà di fagiolini che adesso non si trovano più, che invece di essere lunghi e dritti erano completamente ricurvi, un vero minuscolo uncino e che avevano un sapore tutt'affatto diverso dagli altri, decisamente più farinosi, ti impastavano la bocca non come una verdura, ma quasi come un prodotto a base di farina. Di sicuro sarebbero la gioia di un moderno vegano, come lo erano allora solo quelli che per necessità non si potevano permettere mai neppure una fettina di carne alla settimana.
Ho ancora in mente la frase con cui mia mamma definiva una signora considerata molto ricca, credo la moglie di un dottore: - A l'è abituaia a mangè i pulaster - cosa che di certo la inquadrava come appartenente al ceto più abbiente del circondario. Si raccontava, tra la meraviglie delle vicine, che in uno dei negozi di alimentari più chic di via del mercato avesse chiesto con molta nonchalance - Madamén, cam daga an po' 'd fëti 'd rosbìf - lasciando tutte le altre clienti con la curiosità e l'invidia malcelata, a parlottare tra loro, malignando sulla esotica novità. Mio papà aveva tentato di allevare un po' di conigli, ma poi, vuoi che sia stata la mancanza di esperienza o la difficoltà di una cura costante, data la distanza, era arrivata la mixomatosi e mi sembra che non fossimo riusciti a mangiarne neanche uno. Però, un giorno di quel novembre di oltre sessanta anni fa, se ne arrivò a casa con la bici che cigolava sotto il peso della sua borsona nera di similpelle un po' sbocconcellata ai lati, piena di una enorme zucca gialla, che gli aveva dato lo zio Enrico che aveva l'orto accanto al suo. Credo che abbia fatto una certa fatica a portarla su dai tre piani di scale, perché io me la ricordo davvero enorme. Forse non l'avevo mai vista una zucca così, perché mi colpì moltissimo. Forse non la collegai neppure al fatto che potesse diventare cibo. Passai tutto il pomeriggio a guardarlo mentre col suo trincetto affilato da ciabattino, la tagliava di sotto incidendola con cura e poi scavandola adagio adagio per non romperne le pareti.
Staccava grossi pezzi di polpa gialla che intanto mia mamma, più realista, ritirava e provvedeva a dividere in fette per farne miglior uso. Alla fine, della zucca, decisamente alleggerita, rimaneva soltanto la dura scorza esterna. A questo punto furono fatti due fori quadrati, uno, un po' più sotto triangolare e infine una larga apertura da cui fu resegata una doppia fila di denti aguzzi. Anche a lavoro non finito, la faccia gialla dentata era pienamente riconoscibile e ormai avevo capito il senso dell'operazione. Anche il corto pezzo di gambo secco che spuntava al di sopra, in mezzo al testone, sembrava una virgola di capelli come quella che si faceva Stanlio quando era perplesso. Era ormai sera e quando mio papà accese uno dei lumini da cimitero che erano stati presi per la bisogna, l'effetto fu spettacolare. La mettemmo sul davanzale della finestra e io stavo lì a rimirarmela orgoglioso, sicuro che qualche bambino del vicinato stava lì con tanto d'occhi a rosicare di quanto io fossi un bambino fortunato ad avere una cosa così. Non mi ricordo niente altro, se non le fette di polpa di zucca che il giorno dopo la mia mamma aveva fatto abbrustolire sulla stufa, così dolci e un po' bruciacchiate. Non avevo idea e credo che nessun bambino del mio giro sapesse qualche cosa di Halloween, però, guarda un po', le zucche vuote, giravano già allora.
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