E’ probabilmente l’ultimo romanzo
scritto dalla Buck nel 1973 poco prima della sua morte ed è forse quello che
più degli altri rappresenta una sorta di compendio della sua vita. Dalla storia
della famiglia MacNeil, si indovinano larghi tratti autobiografici, la vita
trascorsa a Pechino e quella successiva in terra d'America. Ma a colpire è non solamente la vicenda pratica
dell’emigrante di ritorno, con tutte le difficoltà insite nel rientro e nel
doversi riadattare ad una vita ormai dimenticata o per i figli nati all’estero,
affatto nuova e diversa. Lungo tutto il libro infatti, serpeggia la condizione
terribile che spesso attraversano coloro che si trovano a vivere questa
vicenda, stranieri in tutti i luoghi, pur avendo due patrie entrambe amate. Il
dramma di trovarsi americani in Cina e cinesi in America, consapevoli di
appartenere convintamente a due tradizioni diverse, che si comprendono entrambe e
che dovrebbero solo arricchire invece di provocare continuamente sensazioni
dolorose e nostalgie insoddisfatte. E’ però soprattutto la totale
incomprensione di chi li circonda a rendere il tutto più difficile e
pericoloso, quando si vorrebbe solamente spiegare la complessità delle
situazioni a gente a cui invece non interessano i distinguo, ma vorrebbero solo
spiegazioni e soprattutto soluzioni semplici, come quell’ascoltatore che alla
conferenza in cui Malcolm cerca di spiegare le motivazioni dell’affermarsi del
comunismo in Cina, gli ribatte che sarebbe certo meglio, invece di fare tante
chiacchiere, buttare un bel paio di bombe atomiche per risolvere tutto.
Non
devono stupire questo tipo di semplificazioni che sono proprie non solo degli
americani, molto disinteressati, si dice, a comprendere il mondo esterno a loro,
ma ogni giorno dobbiamo constatare come sia più facile generalizzare e proporre
soluzioni semplicistiche, di fronte ai problemi che ci pone continuamente la
realtà e la storia. Sull’immigrazione, sulle crisi economiche, sull’affermarsi
dei fondamentalismi, in generale la gente ha sempre un punto di vista molto
semplificato e non riesce a capire come mai non vengano prese decisioni così
facili e semplici da capire. Basterebbe mitragliarli sulla riva o tirare
qualche bella bomba come dico io o rimandiamoli tutti a casa, è così semplice
no? Si sente dire ogni giorno al mercato o al bar davanti al cappuccino. E’
troppo complicato cercare di capire la galassia delle differenze tra sciiti e
sunniti, tra alauiti e wahabiti e così via. Questa frustrazione che dovette
essere propria della stessa Buck nel periodo maccartista, in cui il fatto di
avere vissuto in Cina rendeva la cosa di per sé sospetta, dovette pesarle molto
e la chiusura tutto sommato ottimista del libro va forse messa in relazione
alle caute aperture che in quel periodo si prospettavano verso l’Oriente, con
l’inizio di cauti contatti extradiplomatici e lo storico incontro avvenuto appena un anno prima tra Nixon e Mao con la famosa politica del ping pong. Interessante proprio per i temi
davvero universali che propone.
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2 commenti:
Domenica 1° marzo 1896 il Generale Vittorio Emanuele Dabormida ne era apoditticamente sicuro: «Ai butuma quat granade e a l'è faita». Gli Abissini erano dei selvaggi da spazzare via senza fatica. A sera si era consumata la sconfitta di Adua.
All'indomani della battaglia essa venne definita di Abba Garima, corretta qualche anno dopo in Adua, quando fu evidente che la prima località aveva punto a che vedere con il teatro del combattimento. Ma neppure questo toponimo è esatto: infatti Adua venne vista dai soldati italiani prigionieri e non combattenti. Quindi neppure si possedeva contezza sul luogo del combattimento.
Chi fu sicuro delle ragioni della propria vittoria furono gli etiopi, gli italiani avevano impegnato battaglia di domenica e, per di più, nel giorno in cui si onorava San Giorgio cavaliere di Cristo. E proprio il Santo aveva guidato la cavalleria Galla nella carica.
Semplificare è sempre rischioso...
grazie della precisazione
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