venerdì 13 maggio 2016

Timbuctu 52 giorni

Marocco - Valle del Dra - agosto 1984

Scommetto che anche le mie fan più appassionate faticheranno a riconoscermi in questo bel pivello di 32 anni fa (ed altrettanti chili fa). Beh il cappellino è rimasto lo stesso anche adesso, assieme allo sguardo perso nel vuoto e un po' assente, segno di intelligenza scarna anche se essenziale. Insomma un ometto del deserto che sognava Timbuctù e la sua famosa biblioteca in cui scoprire la poetica di Aristotele tradotta da qualche sufi arabo dell'X secolo, insomma un sogno per mettere in crisi il mio concittadino che solo 4 anni prima aveva pubblicato Il nome della rosa. Il deserto mi aveva sempre attratto morbosamente ed in seguito avrei avuto modo di calcarne altri, ma questo, il più grande e smisurato del mondo, divenne presto terreno via via più difficile e impervio fino a diventare impossibile. Chissà se mai potrò avere un'altra opportunità? Quelle dune immense, a volte rosse o gialle o grigie o ancora di altri mille colori e sfumature, un Pantone che il muoversi del sole rende così ricco e infinito da apparire ingannevole. 

Quelle tende nere vicino ad un palmizio rado e spelacchiato, con uomini schivi seduti attorno ad un fuoco a bere thè alla menta. Come si muove in fretta il mondo. Timbuctù regina delle sabbie, regno irraggiungibile con quei 52 giorni trasformati in un mai esistenziale, fatto di violenze e di soprusi in nome di Dio, come mi sei mancata in questi anni. Un ragazzino di forse dieci anni, Jussuf, spuntato dal palmeto alle mie spalle, con in mano una manciata di datteri freschi enormi, zucchero fatto frutto per il ristoro del passeggere, mi indicava la strada, lì dove lo strettissimo pezzo di asfalto era finito, che si inoltrava sinuosa tra le dune ancora basse in fondo alla periferia del paese per perdersi dietro una duna immensa giallo ocra, dalla cresta ondulata e gentile, invitante come una sirena che ti chiama a perderti dentro di lei. Chissà cosa è diventato oggi che avrà più di quaranta anni, una vittima, un carnefice, un uomo in fuga alla ricerca di una vita migliore o un grasso spettatore della ruota che gira, seduto all'ombra corta della casa di terra bianca, tenendo tra le mani datteri ancora uguali a quelli che teneva suo nonno e il nonno di lui, di certo meno saporiti di quelli della sua infanzia. Qualcuno mi sa dire se c'è ancora questo cartello a Zagora, lo spartiacque tra case e deserto, limine estremo dell'avamposto della vita?


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5 commenti:

Luisa ha detto...

ma che belle gambette!!

Pierangelo ha detto...

Propi in bel fanciot.

Enrico Bo ha detto...

@Luisa - Nel mio piccolo...

Pier - Appunto come sopra---

b ha detto...

ci sta, ci sta, come i captcha.... :)

Enrico Bo ha detto...

Grazie dell'info homezero

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