Mura a Diyarbakir |
Mio Dio che orrore! Dallo schermo emergono immagini raccapriccianti. Senti pronunciare nomi lontani che gli stessi speakers pronunciano con difficoltà e che arrivano corrotti, riemergendo dal nulla e ti si confondono nella testa mescolandosi a ricordi ormai lontani nel tempo. Gaziantep, Adana, Urfa, Malatya, Diyarbakir, città perdute in quel Kurdistan turco che percorrevamo in quella caldissima estate del 1981, dopo aver lasciato le acque blu del lago Van e le case termitaio di Harran lungo il confine siriano. Una terra torrida e assolata eppur popolosa e povera che ha edificato nei millenni queste città, che allora vivevano una specie di pausa senza tempo, in attesa di rimesse di emigranti in terra di Germania, dove tutti andavano in cerca di fortuna. Non c'era tempo allora per conflitti etnici o peggio religiosi e tutto evidentemente rimaneva lì, a covare sotto la polvere calcinata dal sole, a marcire e a putrefarsi in attesa di tempi migliori per potere finalmente deflagrare. Stavamo davanti alle nere mura di basalto di Diyarbakir, ciclopiche e colossali, con i cilindri enormi delle torri di guardia che si levavano contro il cielo a distanze regolari come a scandire i millenni. Nera terra vulcanica, di fosco presagio, per luoghi che questa storia avevano già evidentemente vissuto molte e molte volte prima. All'interno della città vecchia, strette strade con molti locali poco popolati, solo di vecchi che sorbivano caffè dai pentolini di rame ed erano intenti a interminabili partite di tavli, il backgammon turco oppure ad una specie di dama dalle regole differenti dalla nostra.
Non una donna alla vista. Neppure giovani in verità, forse lontani a cercar fortuna. Pure ci fermammo in uno di questi locali tra la cordiale approvazione degli avventori, seduti in cerca di ombra. Le strade erano polverose e tutto sembrava talmente calmo e immobile, così letargicamente addormentato, da non poterne prevedere risveglio. Ce ne andammo in cerca di quell'ovest che aveva allora una promessa di novità e di progresso non troppo lontano. Eppure qualche decennio dopo proprio lì e appena al di là del confine artificioso fissato un tempo da uomini vincitori a tavolino, si sono scatenati i cavalieri della morte. Per la verità maggiormente al di là di quel tenue confine, di quella linea diritta disegnata su una carta, dove ogni cosa, ogni casa, è stata con metodo rasa al suolo, lasciando scheletri smozzicati di mura sfondate, dalle bombe, dai missili, dai gas e grandi cimiteri da un lato e nuove città fatte di tende sdrucite e altrettanto polverose dall'altro lato a macinar sofferenze inaudite, mentre si inneggiava a questo o a quell'altro Dio, o meglio allo stesso, ma con seguaci diversi, magari parenti mai così serpenti come in questo caso. Così quando ieri notte quest'altro cavaliere della morte perverso ed ingiusto ha battuto con zoccoli pesanti e nuovamente, tutto questo mondo, sganciando dal sotto della terra le sue bombe più potenti ancora di quelle di prima, ecco che la distruzione si è presa anche quelle case e quelle mura che erano rimaste in piedi o quelle che l'uomo fiducioso aveva nel frattempo rimesso in ordine, rialzandole ancora, perché questa è la natura dell'uomo, ricostruire sempre e comunque, anche quando la realtà ti mette di fronte a cose che fiaccherebbero qualunque volontà.
Ho visto grandi palazzi di quella Diyarbakir afflosciarsi come castelli di carta nella notte, mentre alte colonne di fumo si innalzavano verso il cielo, come animali bruciati sulle pire dei sacrifici, mentre intorno la gente rimaneva muta, senza neppure la forza di urlare il loro dolore o la loro furia contro il destino che li ha costretti a nascere lì, oppure in attesa di sentire i gemiti dei moribondi e dei sepolti vivi, che chiedo un disperato aiuto. Adesso ci penserà il gelo atroce a completare l'opera, seppellendo magari tutto con un sudario di neve, perché naturalmente dove in estate sei ucciso dal caldo insopportabile, d'inverno ti aspetta un gelo altrettanto innaturale e spietato. Sempre lì accade, perché sembra che ci siano posti del mondo segnati dal destino con una matita nera che ne disegna la sorte per sempre. Guerre, carestie, terremoti, pestilenze, accadono sempre negli stessi luoghi, come fossero naturalmente predestinati. In altri mai, come se ci fosse uno speciale talismano che li proteggesse e li rendesse immuni da questo insulto, destinato a genti colpevoli soprattutto di essere poveri. Intanto le mura nere di Diyarbakir, sono sempre lì, troppo ciclopiche per essere toccate, mute testimoni della storia che intanto si ripeterà all'infinito. Di certo per chi crede nella reincarnazione, queste genti devono essere stati davvero molto malvagi, nelle loro esistenze precedenti per meritarsi tutto questo. Attorno intanto, altre tendopoli cresceranno coperte dalla brina, in attesa di casse di aiuti, medicine che arriveranno lente e diminuite dalle razzie lungo e prima di incominciare il viaggio, melting pot per i nuovi odi, le nuove guerre, di cui il demone umano si deve nutrire.
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