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venerdì 10 febbraio 2023

Terre tormentate

 

Diyarbakir - agosto 1981


Continuano a scorrere immagini terribili, di mura sbriciolate e vite spezzate e dei molti, molti di più naturalmente. che oltre a piangere i loro morti, avranno davanti a sé anni di disgraziato sopravvivere, sempre che ce la facciano. O se saranno costretti, i più in forze almeno, a percorrere la via dell'esilio in cerca di fortuna, quella che la loro terra gli nega. Aiuti di certo ne avranno ben pochi, sono in aree dove i loro governi opprimono più che aiutare, con scuse varie, giudicati spesso nemici dalla loro stessa gente, destinati già prima alla sofferenza di chi non si piega, figuriamoci quando basta un tweet sbagliato o di lamentela per richiamare l'attenzione sui problemi da risolvere, per essere messo in galera come "disfattista". Già qui al mattino se qualcuno bussa alla tua porta, più che la mezzaluna rossa che ti porta un pasto caldo, più probabilmente è la polizia politica che ti viene a carcerare. Gli aiuti internazionali, arriveranno certo, ma con il contagocce e intercettati da mani avide ed adunche, che ne faranno altro destino. ed i morti rimarranno lì sotto a lungo, quelli non schiacciati dalle mura crollate, uccisi con calma dalla morsa del gelo. Questa è terra di terremoti, inutile negarlo, da sempre devastanti ed implacabili. Qui vicino, le cime del Nemrut Dagi, dove la tomba di Antioco Commagene è una intera montagna, con le sue statue colossali e i suoi altari giganti, sono state tutte via via devastate nei secoli da terremoti così tremendi da far rotolare teste di due metri di diametro giù per i fianchi del monte come fossero birilli, testimonianza inequivocabile di quello che succede qui ogni tanto e che dovrebbe essere di monito a chi voglia costruire case e palazzi, soprattutto se li fa con la sabbia e poco cemento. Ma quelli sono luoghi dove è già molto avercela una casa, prima di discuterne la qualità. Quella delle foto era Diyarbakir nel 1981, con l'acquaiolo in cerca di clienti nel mercato pieno di gente a fare compere. Nessuna donna in giro, già allora era Anatolia profonda, carica di antichi modi di vita, lontana come oggi dall'Europa. Il confine vicino ma teorico, questa era in fondo terra kurda, come si affrettavano a dirti quando avevi un contatto qualunque. Anche per questo dall'una parte e dall'altra, oggi, l'interesse ad intervenire attivamente è tiepido, molto tiepido, mentre i morti si accatastano e per i vivi non ci sono neppure le tende. Un qualche dio se ne ricorderà prima o poi. 


Diyarbakir - il mercato

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martedì 7 febbraio 2023

Le mura di Diyarbakir

Mura a Diyarbakir


 Mio Dio che orrore! Dallo schermo emergono immagini raccapriccianti. Senti pronunciare nomi lontani che gli stessi speakers pronunciano con difficoltà e che arrivano corrotti, riemergendo dal nulla e ti si confondono nella testa mescolandosi a ricordi ormai lontani nel tempo. Gaziantep, Adana, Urfa, Malatya, Diyarbakir, città perdute in quel Kurdistan turco che percorrevamo in quella caldissima estate del 1981, dopo aver lasciato le acque blu del lago Van e le case termitaio di Harran lungo il confine siriano. Una terra torrida e assolata eppur popolosa e povera che ha edificato nei millenni queste città, che allora vivevano una specie di pausa senza tempo, in attesa di rimesse di emigranti in terra di Germania, dove tutti andavano in cerca di fortuna. Non c'era tempo allora per conflitti etnici o peggio religiosi e tutto evidentemente rimaneva lì, a covare sotto la polvere calcinata dal sole, a marcire e a putrefarsi in attesa di tempi migliori per potere finalmente deflagrare. Stavamo davanti alle nere mura di basalto di Diyarbakir, ciclopiche e colossali, con i cilindri enormi delle torri di guardia che si levavano contro il cielo a distanze regolari come a scandire i millenni. Nera terra vulcanica, di fosco presagio, per luoghi che questa storia avevano già evidentemente vissuto molte e molte volte prima. All'interno della città vecchia, strette strade con molti locali poco popolati, solo di vecchi che sorbivano caffè dai pentolini di rame ed erano intenti a interminabili partite di tavli, il backgammon turco oppure ad una specie di dama dalle regole differenti dalla nostra. 

Non una donna alla vista. Neppure giovani in verità, forse lontani a cercar fortuna. Pure ci fermammo in uno di questi locali tra la cordiale approvazione degli avventori, seduti in cerca di ombra. Le strade erano polverose e tutto sembrava talmente calmo e immobile, così letargicamente addormentato, da non poterne prevedere risveglio. Ce ne andammo in cerca di quell'ovest che aveva allora una promessa di novità e di progresso non troppo lontano. Eppure qualche decennio dopo proprio lì e appena al di là del confine artificioso fissato un tempo da uomini vincitori a tavolino, si sono scatenati i cavalieri della morte. Per la verità maggiormente al di là di quel tenue confine, di quella linea diritta disegnata su una carta, dove ogni cosa, ogni casa, è stata con metodo rasa al suolo, lasciando scheletri smozzicati di mura sfondate, dalle bombe, dai missili, dai gas e grandi cimiteri da un lato e nuove città fatte di tende sdrucite e altrettanto polverose dall'altro lato a macinar sofferenze inaudite, mentre si inneggiava a questo o a quell'altro Dio, o meglio allo stesso, ma con seguaci diversi, magari parenti mai così serpenti come in questo caso. Così quando ieri notte quest'altro cavaliere della morte perverso ed ingiusto ha battuto con zoccoli pesanti e nuovamente, tutto questo mondo, sganciando dal sotto della terra le sue bombe più potenti ancora di quelle di prima, ecco che la distruzione si è presa anche quelle case e quelle mura che erano rimaste in piedi o quelle che l'uomo fiducioso aveva nel frattempo rimesso in ordine, rialzandole ancora, perché questa è la natura dell'uomo, ricostruire sempre e comunque, anche quando la realtà ti mette di fronte a cose che fiaccherebbero qualunque volontà. 

Ho visto grandi palazzi di quella Diyarbakir afflosciarsi come castelli di carta nella notte, mentre alte colonne di fumo si innalzavano verso il cielo, come animali bruciati sulle pire dei sacrifici, mentre intorno la gente rimaneva muta, senza neppure la forza di urlare il loro dolore o la loro furia contro il destino che li ha costretti a nascere lì, oppure in attesa di sentire i gemiti dei moribondi e dei sepolti vivi, che chiedo un disperato aiuto. Adesso ci penserà il gelo atroce a completare l'opera, seppellendo magari tutto con un sudario di neve, perché naturalmente dove in estate sei ucciso dal caldo insopportabile, d'inverno ti aspetta un gelo altrettanto innaturale e spietato. Sempre lì accade, perché sembra che ci siano posti del mondo segnati dal destino con una matita nera che ne disegna la sorte per sempre. Guerre, carestie, terremoti, pestilenze, accadono sempre negli stessi luoghi, come fossero naturalmente predestinati. In altri mai, come se ci fosse uno speciale talismano che li proteggesse e li rendesse immuni da questo insulto, destinato a genti colpevoli soprattutto di essere poveri. Intanto le mura nere di Diyarbakir, sono sempre lì, troppo ciclopiche per essere toccate, mute testimoni della storia che intanto si ripeterà all'infinito. Di certo per chi crede nella reincarnazione, queste genti devono essere stati davvero molto malvagi, nelle loro esistenze precedenti per meritarsi tutto questo. Attorno intanto, altre tendopoli cresceranno coperte dalla brina, in attesa di casse di aiuti, medicine che arriveranno lente e diminuite dalle razzie lungo e prima di incominciare il viaggio, melting pot per i nuovi odi, le nuove guerre, di cui il demone umano si deve nutrire.


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sabato 12 ottobre 2019

Una sera lontana in Kurdistan

Il lago Van (1981)


Un caldo agosto di tanti anni fa. Era il 1981 e le strade dell'Anatolia sudorientale erano secche e malandate. La mia 127 con sulle spalle 100.000 km le percorreva con una certa lentezza, sollevando nuvole di polvere. Un paesaggio arido ed aspro, solitario e spesso privo di punti di riferimento. Avevamo lasciato da un centinaio di chilometri le mura nere di Diyarbakir e le case bianche della rocca di Mardin ad un passo dal confine siriano, dopo aver visto le abitazioni termitaio del villaggio di Harran e stavamo arrivando alla sponda meridionale del lago Van, la perla blu di questo angolo estremo della Turchia. Questo grande specchio d'acqua, che i raggi violenti del sole dipingono di un colore acceso ed aggressivo, incongruo nella scala di ocre e di verdi pallidi che lo circonda, si staglia immobile in un paesaggio quasi innaturale di rive deserte dalla presenza dell'uomo, tali da farti sentire in un pianeta sconosciuto se pur con sembianza terrestre, ma prepotentemente diverso, forse senza vita. Ci fermavamo di tanto in tanto ad ammirarne gli scorci formati dalle quinte di piccole penisole che ne scandivano la riva contorta e totalmente priva di villaggi o anche di case isolate. 

Le case termitaio di Harran (1981)
C'era come un silenzio innaturale in questo deserto non deserto, nel quale non vedevi neppure animali, neppure semplici capre selvatiche, per non parlare delle greggi che spesso si incontrano in questi territori asiatici dai confini teorici. Ci fermammo in un punto particolarmente piacevole con una sorta di spiaggetta a mezzaluna che bordava l'acqua, mossa soltanto dal fremito di un'onda, così piccola da essere impercettibile all'occhio. Si respirava un senso di solitudine e di pace infinita, quello di una terra dove la mancata presenza dell'uomo era di per se stessa ragione di una assenza di contrasto, della turpe condizione di perenne contrapporsi di gruppi, di religioni, di posizioni prevaricatorie, di bramosia di poteri. Tuttavia ascoltando il silenzio, divenne subito avvertibile un qualche movimento, uno sciabordare d'acqua che avveniva dalla parte estrema della spiaggia. Tra le frasche che ne nascondevano l'angolo più a destra dove si allargava una sorta di piscina naturale in cui l'acqua si faceva più verde e trasparente, qualcuno stava nuotando vicino alla riva e notata la nostra presenza, si avvicinò verso di noi che lo stavamo osservando uscendo dall'acqua come una sorta di deità lacustre disturbata dalla nostra innaturale presenza che aveva invaso quell'Eden solitario. 

L'uomo, che poi era un giovane sulla trentina con una gran barba nera ed un bel fisico scolpito venne per un po' verso di noi, le brache sdrucite grondanti acqua, poi si fermò ad una cinquantina di metri su una specie di monticello sopraelevato che ne metteva ancor più in evidenza lo sguardo fiero e la statuaria presenza. Ci osservò per un attimo, certamente identificandoci come estranei al suo mondo, poi rivolse verso di noi un grido forte e probabilmente liberatorio, che ci arrivò chiaro e netto: - Here is Kurdistan, not Turkey! - rimarcando con forza l'ultima parola che scivolò via, rotolando decisa sulla superficie del lago. Poi alzò un braccio, forse un ribadire il concetto, forse in un estremo segno di saluto, si voltò e tornò nell'acqua scomparendo subito tra i cespugli della riva. Non lo vedemmo più. Su un isolotto al largo, le mura giallastre delle rovine di un antico monastero cominciavano a colorarsi di rosso. La cittadina di Van all'estremità orientale del lago era ancora lontana e la sera stava per calare sull'orizzonte cupo e sempre più scuro.

Il posto di frontiera a sud di Mardin (1981)


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venerdì 9 aprile 2010

Il Milione 10: Il lago di Van.

Benché non sia trascorso ancora il primo anno di viaggio (ne restano solo altri 22), siamo già arrivati alla decima puntata e ormai la carovana ha girato decisamente verso Oriente, ma rimane ancora molta strada per arrivare alla Persia. I territori montuosi ed aspri allora chiamati Grande Armenia che occupavano tutto l'est anatolico fino al Caucaso, benchè sotto signoria Turcomanna, erano costellati di chiese e monasteri Armeni o Cristiani, dove la gente viveva pacificamente.
Cap. 22
…nella provincia hanno castella assai ed è tutta piena di grandi montagne…. e sonvi cristiani iacopini e nestarini con chiese assai…e quivi è lo monasterio di santo Leonardo, che d’una montagna viene uno lago dinnanzi a questo munisterio e lo lago non mena nissuno pesce se non di Quaresima (oggi il lago di Van).
Marco, che peraltro riporta le credenze locali, senza commentarle, da buon mercante che non vuole criticare troppo, non si stupisce certo di questa convivenza priva di problemi, allora c'era molto pragmatismo ed un senso di tolleranza forse oggi giudicato anomalo, ma di certo come me, sarà rimasto affascinato dalla bellezza del lago di Van, uno zaffiro blu incastonato tra le montagne, che nascondono in valli solitarie monasteri di straordinario fascino, abbarbicati agli anfratti dei costoni, seminascosti dal bosco per sfuggire a persecuzioni più antiche, quando erano i cristiani stessi a combattersi tra di loro per far trionfare l'una o l'altra delle fazioni, come quello di Sumela, che emerge tra gli alberi alto ed inaccessibile all'apparenza, con gli splendidi affreschi salvati in parte alla furia degli iconoclasti. Oppure il monastero di pietra dorata sull'isoletta al centro del lago, dalla cupola ottagonale, tipica dello stile armeno come quelle della vicina Ani, sul confine Georgiano (il regno di Giorgens per Marco). Nell'80 ci aggiravamo per questa città morta cosparsa di monumenti ben conservati. La vicinanza al confine, allora invalicabile, (che invidia nei confronti di Marco) rendeva obbligatoria la presenza di un militare armato che però sembrava soltanto interessato ad "aiutare" mia moglie a salire le strette scale spingendo sempre soltanto sulle stesse parti del corpo. Poi tornammo al lago dalle rive solitarie. Mentre riposavamo guardando lo spettacolo del sole che poco a poco scendeva tra le montagne, un ragazzo uscì dall'acqua, quasi completamente vestito e ci salutò con calore augurandoci buon viaggio ma aggiunse: "Ricordatevi che questo è Kurdistan e non Turchia". Ce ne andammo al vicino paese, in una piccola taverna. Non so se davvero, come riporta Marco, nel lago Van i pesci si pescano solo in tempo di Quaresima, ma noi mangiammo trote alla griglia saporitissime, melanzane e yogurth assieme a tutta la classica serie di mezé della cucina turca, prima di una monumentale fetta di anguria. Pagammo il solito conto irrisorio e uscimmo nella notte piena di stelle. Il mercante non deve mai mostrare stupore per il livello dei prezzi, solo valutare, paragonare e scegliere il meglio.


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mercoledì 7 aprile 2010

Il Milione 8: Raki e narghilè.


Accidenti, ci siamo presi qualche giorno di vacanza e mentre noi riposavamo oziosi, la nostra carovana dei mercanti, che non ha tempo da perdere (ci vorranno altri tre anni per arrivare al Grande Kane), se ne è partita in tutta fretta verso nord est, che il tempo è denaro. Hanno cinque giorni di vantaggio, ma cercheremo di raggiungerli in via, dato che i ritmi di viaggio di quel tempo erano piuttosto blandi e noi siamo in macchina, una 127 bianca scalcagnata, con la quale nell'80 attraversammo tutta l'Anatolia in lungo ed in largo.
Cap. 19
Egli è vero che son due Arminie, una Picciola e una Grande. Sappiate che sopra il mare è una villa ch'ha nome Laias la quale è di grande mercatantia e quivi si sposa tutte le spezierie che vengono, e li drappi di là e tutte le altre care cose e li mercatanti che vogliono andare infra terra prende via da questa villa.
Già si era visto che Alessandretta (Laias) era il punto di partenza per la via della seta e in questa grande concentrazione di mercanti e di affari, Genovesi e Veneziani si disputavano le merci orientali dalle preziosissime (per la cucina europea) spezie ed i famosi tessuti. Di qui le carovane procedevano attraversando l'Armenia che allora indicava tutti i territori orientali dell'Anatolia. La Piccola corrispondendo alla Cilicia, Cappadocia e nord della Siria, mentre la Grande si può identificare con l'area del Kurdistan fino al sud del Caucaso ed al Mar Caspio. Di certo i nostri amici attraversarono l'antico ponte romano sul Tigri nelle vicinanze del Nemrut Dagi, la montagna mausoleo di uno dei generali di Alessandro Magno, luogo di grande suggestione. Sta lì da duemila anni con la sua colonna a segnarne l'ingresso e tu calpesti le stesse pietre percorse dagli zoccoli di infiniti armenti e dai sandali di soldati che andavano a conquistare l'oriente frammisti ai mercanti di ogni tempo. Gli stessi odori e sapori, diresti, le stesse facce indurite dal sole forse oggi più povere di allora. Già a quei tempi però, era una zona abitata da genti dal carattere fumantino da cui era bene guardarsi, cercando di non correre grandi rischi.
Quivi or son tutti cattivi uomini, solo gli è rimasta una bontà, che sono grandissimi bevitori.
Ci misero tutti in guardia infatti, dall'attraversare queste zone, sempre in contrasto col governo centrale, desiderose di totale autonomia e mal sopportanti un'autorità esterna. Certo le facce non promettono bene, ma nella realtà trovammo sempre grandissima cortesia e gentilezza. A Dyarbakir, nelle vie del bazar popolato esclusivamente di uomini, ci fermammo in un locale e fummo subito invitati ad unirci ad un gruppo per bere un raki (il vizio di bere molto è senza dubbio rimasto) e ci fu offerto un narghilè alla rosa, mentre giocavamo a tavli sotto gli occhi divertiti del baffuto padrone del locale. Quando ce ne andammo, ci esortarono invece a stare attenti a quei farabutti di Turchi, a loro dire gente infida e traditora, visto che tornavamo verso Istambul. Il tuo vicino è sempre il peggior nemico.

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