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lunedì 24 maggio 2010

Lettere dalla Kampuchea 18: Cavoli nordcoreani.


Eccoci tornati alla base, con la fretta degli ultimi giorni prima della partenza. La furia di aver dimenticato qualcosa, la frenesia degli ultimi acquisti ai mercatini, il rammarico di quanto non si è riuscito comunque a vedere, a partire dai ragni di Skun, e per non aver programmato qualche giorno in più, la sottile malinconia di lasciare i nuovi amici appena conosciuti. Così si va per un'ultima cena d'addio al ristorante Nord Coreano, una chicca da non perdere. Infatti, pare che questo paese, un po' chiacchierato abbia pensato bene di fare una operazione di immagine, aprendo questo ristorante dove viene servito un menù tipico, circondati da tutte le bellezze del paese. Una gigantografia del monte innevato più alto della Nord Corea campeggia sul fondo e una serie di cameriere veline, volteggia qua e là con grazia orientale. I clienti sono tutti Coreani del sud, in giro per affari che affollano rumososamente i molti tavoli dell'ampia sala. Il re del pasto è il famigerato kimchi, ovvero il cavolo fermentato, che accompagna tutti i piatti tipici del paese; Pare che sia un ottimo disinfettante naturale per lo stomaco, che fornisca vitamine e sali minerali in abbondanza e che prevenga il cancro, quindi kimchi a gogo. Abbiamo poi avuto germogli di soia e verdure, deliziosi agnolotti fritti, un bel pescione grigliato con patate e melanzane e gran finale con un pollo talmente carico di peperoncino da far gonfiare le mucose tenerelle degli occidentali disabituati. Intanto le tenere camerierine, che le malelingue dicono esser tenute strettamente segregate all'interno dell'albergo, scelte accuratamente dopo lunghe selezioni, per avvenenza e fedeltà al regime, cessano la loro funzione di amabili servitrici e salgono sul palco per esibirsi in uno spettacolino di musica e karaoke apprezzatissimo dai presenti. Pensate dunque alla mia sorpresa quando quattro sorridenti e gioiose fanciulle cominciano ad intonare un assolutamente inatteso Happy birthday dear Enrico, tra gli applausi che il folto pubblico, con gli occhi, che fiumi di birra e vino di riso avevano ormai ridotto a fessure indistinguibili, rivolti verso di me, mi indirizzava con calore. Gli amici, dispiaciuti che avessi passato il mio genetliaco solo e disperso tra le jungle del nord, hanno pensato di farmi questa improvvisata che un po', devo dire, mi ha commosso. Lo spettacolo è poi proseguito fino al gran finale in cui si inneggia alle bellezze del paese e si rimarca il fatto che la nazione è una e una sola, mostrando a tutti il dito indice alto verso il cielo. Seratina deliziosa. Cerco così di vincere l'affanno immotivato dell'ultimo giorno. Si passa qualche ora sul lungo fiume, dove il Tomle Sap incontra il Mekong, per diventare un immenso mare ancora prima di cominciare il delta. Qui la vita scorre serena, i venditori di cibi di strada passeggiano tranquilli; vicino, piccoli templi dove signore ben vestite pregano e offrono bastoncini di incenso, prima di andare da un ragazzino accoccolato con una grande gabbia stipata di uccellini. Per una piccola mancia se ne prendono uno tra le mani, rivolgono gli occhi al cielo e poi lo lasciano andare, donandogli la libertà. Un tenera illusione, certo anche loro sapranno che i volatili, addestrati, torneranno presto dal loro carceriere, in una sindrome di Stoccolma animalesca, ma questa illusione di liberare un' anima, ha comunque un prezzo e forse risponde ad un bisogno interiore che non è necessario giudicare. Un ultimo salto alla collina del Wat Phnom, il tempio della città, nel cui giardino, una gran folla si raduna a vedere spettacoli, a sentire musica, a giocare al tradizionale volano coi piedi e dove molti vanno a pregare. La cima della collina è dominata dall'alto stupa bianco e seduto sotto gli alberi, respiri l'ultima aria di Phnom Penh, circondato da monaci arancioni, che ti paiono così giovani, così concentrati, così assorti nella loro meditazione, da non accorgerti quasi che la maggior parte di loro sta muovendo velocemente i pollici per digitare SMS sui cellulari che tengono distrattamente, anche se discretamente, appoggiati tra le pieghe dei grandi mantelli arancioni.

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giovedì 6 maggio 2010

Lettere dalla Kampuchea 5: La camicia di seta.

E' arrivata l'ora di lasciare Phnom Penh. Abbiamo in mano i biglietti di un bus della Capitol e in un tuk tuk carico di valige e sacchi fendiamo il flusso di motorini, facendo segno con la mano di svolta a sinistra, tanto per aiutare l'autista, per raggiungere la stazione, in realtà un negozio all'angolo di un mercatino, gremito di aspiranti viaggiatori. Il pulmann per Kampong Thom è in orario, ma servirà il nastro isolante per bloccare la bocchetta di aria condizionata che mi spara a palla sul collo, per il resto saranno tre ore tranquille. Ma che ci andiamo a fare a Kampong Thom? Il fatto è che il mio amico è stato invitato ad un matrimonio importante, nella provincia dove ha messo su l'acquedotto e io mi sono aggregato, imbucato ufficioso, ma con regolare invito nominativo. Però mica si può far la figura del cioccolataio, così per mettermi al pari del mio amico già attrezzato, avevo via mail ordinato una apposita camicia/giacca cambogiana da cerimonia. E' vero che le decine di misure richieste, le ho dovute reinviare due o tre volte riconfermandole, specialmente quelle del giro pancia (che non credessero ai loro occhi?); fatto sta che appena arrivato, la sarta appositamente convocata per la bisogna mi attendeva per la prova definitiva che ha necessitato solo di alcuni piccoli ritocchi nei punti dove "faceva difetto". Si sa che noi falsi magri siamo difficili da vestire, ma stamattina il capo splendido di pesantissima seta bordeaux con fodera nera, che mi è stato consegnato, calzava a pennello, pronto per la cerimonia che, vi anticipo, durerà due giorni e di cui parleremo domani. Sono proprio contento, però un cruccio mi è rimasto. Con questa storia, camicia, stoffa, sarta, misure e compagnia bella, ho fatto perdere un sacco di tempo ad una persona molto speciale, di cui vi voglio parlare adesso e che di tempo da perdere ne ha proprio poco. Quando si gira per il mondo, si incontrano molte persone speciali e questa si chiama Elisa, ma tutti la chiamano Lieke ed è una ragazza belga che dedica la sua vita a dare una mano agli altri e non è una cosa da poco. Dalle Filippine alla Cambogia, nei momenti più neri e più difficili, sempre ad organizzare e a cercare di far partire progetti per gente senza speranza, in situazioni che sembrano senza speranza, ma che, anche con il suo aiuto, oltre a quello di tante altre persone di buona volontà, alla fine, un po' di speranza riescono ad intravederla. Fame, malattie, mine, acqua fetida sono i piccoli problemi da affrontare ogni giorno ed io le ho aggiunto anche il mio problema, quello della camicia cambogiana da cerimonia. Sì, un po' mi vergogno, ma che piacere stare con questa ragazza, sempre di corsa ed indaffarata, che sembra fare ogni cosa con gioia, anche se i problemi sono tanti. E poi non basta mica voler fare le cose, voler aiutare la gente. Non basta farsi ore di camionetta per andare a vedere se i pozzi funzionano, traversare kilometri di risaie per controllare, verificare, seguire i corsi alle donne sull'uso dell'acqua potabile e delle regole fondamentali dell'igiene. Bisogna sapersi anche muovere nei posti giusti, negli uffici adatti, sapere le strade della burocrazia, conoscere le persone che ti possono aiutare a dare le autorizzazioni, convincere, trattare. Adesso vanno di moda gli abusi sui minori, c'è meno attenzione al problema dell'acqua pulita. Dunque parlare, convincere, ancora prima di cominciare a fare. E' per questo dunque che voglio ringraziarla di cuore, questa ragazza dall'allegria contagiosa, per avermi accolto come un amico e per il suo tempo prezioso che mi ha dedicato ed è per questo che voglio farle i miei migliori auguri, sono certo anche da parte di tutti voi che mi seguite, perchè tra pochi giorni Lieke compie 76 anni e con tutto il da fare che c'è, non so se li potrà festeggiare come si conviene.

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martedì 4 maggio 2010

Lettere dalla Kampuchea 3: Spettri e sorrisi.

Le strade di Phnom Penh , polverose e gremite di motorini, biciclette e tuk tuk, sono un forno caldo già la mattina presto. Però sono tutti in movimento vorticoso e tu vieni trascinato via facilmente da questo flusso ininterrotto di uomini e mezzi. Scendo dall'albergo, in una stretta via laterale e subito mi vengono incontro i conducenti di tuk tuk in attesa del primo cliente, che stazionano fissi, giocando a carte per ingannare l'attesa. Ma non c'è la fastidiosa aggressività per accaparrarsi il passeggero delle vie di Bangkok, tutto avviene in maniera più rilassata, anzi nei giorni successivi, ci si comincia a conoscere, evidentemente le postazioni sono fisse, e ci si scambia un saluto allegro anche se poi te ne vai via a piedi. Se no, una breve contrattazione e poi salti sul carrettino, il motorino trainatore si mette in moto e faticosamente ci si butta nel traffico. Il primo giorno ovviamente lo dedico a Palazzo Reale e alla pagoda d'argento con i suoi splendidi giardini. Sempre a passo lento, inseguito dal sole a picco. I turisti sono pochi; come suggeriscono le guide, aprile è un mese da evitare, così ci si può concentrare sulla massa dei Cambogiani che rappresentano la quasi totalità della gente che si incontra. Una popolazione giovane e giovanissima, a prescindere dalle condizioni, dall'aria allegra e serena. Difficilmente, rivolgendoti o semplicemente guardando qualcuno non ricevi un sorriso di risposta. Eppure al di là del fatto che questo è un paese poverissimo, dove le condizioni sanitarie sono difficili, la storia recente della Cambogia, è un tale concentrato di orrori e di fatti inaccettabili, da rendere incredibile questo atteggiamento. Certo le poche persone anziane che si incontrano sorridono meno. Loro forse hanno difficoltà a cancellare o a rimuovere le immagini della loro vita, le indelebili istantanee che ognuno di loro ha di certo vissuto in prima persona. E' difficile anche capire come, in un paese privo di risorse strategiche e in una posizione geopolitica tutto sommato ininfluente, si siano potute scatenare la furia e la violenza della disumanità più feroci del secolo scorso. Invece, benché formalmente neutrale durante la guerra del Vietnam, fu corridoio di passaggio er i Vietkong, cosa che diede motivo agli Stati Uniti di rovesciare sull'est del paese migliaia di tonnellate di bombe e di napalm, ma in modo "non ufficiale". Morirono circa mezzo milione di persone che avevano la disgrazia di stare da quelle parti, gli altri rinforzarono le file dei Khmer Rouges che cominciavano la guerra civile. Così finito il Vietnam e filati via gli americani, gli Khmer Rouges presero il potere e comincia uno dei più spaventosi genocidi della storia. In pochi giorni viene abolita la moneta e la proprietà, le città vengono chiuse e la popolazione in parte uccisa e deportata nelle campagne a coltivare la terra di un paese ormai alla fame. Il maoismo più teorico viene applicato alla lettera nel tentativo di creare l'uomo nuovo, senza legami col passato, che deve essere totalmente cancellato, i bambini tolti alle famiglie ed allevati in comune, tutti in un lavoro agricolo di quasi schiavitù, nutriti con un brodo di riso due volte al giorno e null'altro. Qualunque sospetto di intellettualismo o di legame col passato, ad esempio portare gli occhiali, significava essere ucciso. Torture e violenze di ogni genere venivano comunemente perpetrate secondo la regola che era meglio uccidere dieci innocenti che rischiare di lasciare libero un possibile controrivoluzionario. Dopo tre anni, dieci mesi e venti giorni (tutti ricordano come un mantra questo numero) e circa tre milioni di morti arrivano i Vietnamiti che fanno fuori gli Khmer Rouges e il paese allo stremo, si avvia ad una difficile pacificazione, in una situazione di carestia totale che provocò un nuovo consistente numero di vittime. Dopo il ritiro dei Vietnamiti ricominciano le lotte che conducono nella metà degli anni novanta ad una ulteriore guerra civile in cui quattro diverse fazioni si combattono ferocemente, oltre a disseminare il paese di mine, in gran parte fornite da noi e dai cinesi, con un ulteriore tributo di vite umane. Finalmente questo fiume di sangue soffocò, annegandoli, gli odi incrociati e gli spiriti del male sembra abbiano finalmente lasciato in pace questo paese da una dozzina d'anni, ma i segni sono difficili da cancellare, le ferite dure da rimarginare. Nel paese c'è tanta voglia di dimenticare, di voltare pagina, per lo meno negli occhi di chi ed è ormai la maggioranza, quelle cose non le ha viste direttamente. E' la forza rigeneratrice dei paesi giovani, che vogliono solo andare avanti. Ma quando arrivi in qualcuno dei tanti luoghi della memoria, per ripassare quello che in fondo già sai, vieni aggedito da un'onda di tale devastante ferocia, da rimanere senza fiato, senza capacità di dare una spiegazione logica a quanto passa davanti ai tuoi occhi. Così intorno alla scuola Tuol Sleng, diventato il carcere S-21, con 17.000 persone, rinchiuse, fotografate metodicamente prima e dopo la tortura e quindi uccise nei modi più barbari, gli affitti sono insolitamente bassi. Pochi vogliono vivere lì attorno, temono che gli spiriti di quei morti non li lascino in pace, perchè di notte, quando tira forte il vento da sud, si sentono le loro grida affievolite, in sintonia con la regola numero 6 del manuale del prigioniero, secondo la quale durante la bastonatura e gli elettroshok, non si poteva gridare forte, ma era concesso di emettere lamenti a bassa voce. E anche il monsone, per quanto forte e violento non riesce a lavar via tutto quel sangue. L'interno della scuola ti afferra duro alla gola, con la sua serie di foto orribili, gli ambienti, gli strumenti di tortura, le celle di un metro per tre, le catene, gli slogan appesi. La stessa situazione di degrado in cui vive il museo stesso, con i suoi ambienti scrostati e sporchi, le foto ingiallite, strappate e cadute o malamente penzolanti dai muri, l'immondizia abbandonata negli angoli, contribuiscono ad aumentare l'angoscia spaventosa che ti accompagna nella visita, nel seguire il percorso di tanta gente che poi andava a terminare la propria esistenza nelle fosse comune dei killing fields, con le loro montagne di crani e di ossa, con l'albero dei bambini, dove, presi per i piedi, venivano sbattuti contro il tronco per non sprecare pallottole, la cui corteccia non riesce più a rimarginarsi.
Esci annichilito, con un groppo alla gola e hai difficoltà a trattare il trasporto con il conducente di tuk tuk che ti aspetta allegro al di là dell'ingresso, mentre ti offre una coke presa dalla ghiacciaia di plastica rossa. Ti sorridono tutti. Soltanto le rare persone che vedi oltre i 50/60 anni, sorridono poco, anzi in generale non sorridono affatto, sembra quasi che abbiano una sorta di piega amara sulla bocca. Qualcuno ti parla in francese. E allora anche tu rimetti in moto il cervello annichilito ed assente e cominci a chiederti, ma costui come mai è ancora vivo, quale è la sua storia, da che parte stava allora, ma capisci che in questo modo non c'è futuro accettabile e sei contento che tutti quegli altri occhi giovani che ti guardano, abbiano imparato a sorridere.
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