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Tribù Hadzabe. |
Sono le quattro del mattino. E' notte fonda a Karatu. Una manciata di stelle spunta tra le nubi, l'Orsa maggiore è al contrario e bassa sull'orizzonte, la Croce del sud è quasi nascosta dalla collina. Non c'è luna stanotte e con la mia pila cinese, faccio fatica a trovare il sentiero per arrivare alla Toyota che aspetta col motore già acceso. Venite con me, stamane e non rimarrete delusi. Ernest sa che la strada di oggi è difficile e non vuole perdere troppo tempo. Si è avvolto nel mantello rosso, c'è ancora umidità e fresco nell'aria notturna e il giorno è ancora lontano. La pista si inerpica subito verso nord attraverso un bosco sempre più fitto. I fari illuminano appena i bordi dove qualche coniglio selvatico rimane fermo come istupidito da quella luce improvvisa. Dietro una curva una genetta si ritira tra i cespugli mostrando solo per un attimo il suo mantello maculato che la luce diretta fa apparire ancora più gialla. La pista diventa più difficile e tribolata, guadi secchi da superare, avvallamenti di terra e carrarecce lasciate da qualche camion nel fango delle ultime piogge. Due ore interminabili prima di arrivare ad un gruppo di case di fango, apparentemente deserto. Sono quasi le sei e rimaniamo fermi poco lontano a motore spento. Nel cielo appena un chiarore diffuso, ma attorno a te distingui solo quinte scure non catalogabili. Ad un tratto una grande ombra nera si materializza dietro l'auto. E' Julius, un omone gigantesco che fatica ad entrare e a sedersi di fianco a Ernest. Gli fa qualche cenno, poi ripartiamo per un sentiero nel bosco fitto. Ancora una mezz'ora, poi, mentre le ombre cominciano a mostrare colore, si arriva ad una grande radura ai piedi di una collinetta. Tra gli alberi, un cerchio di basse capanne di rami e foglie.
Un piccolo gruppo di ombre è seduto sotto una grande acacia. Julius li aveva cercati nei giorni precedenti avvisandoli del nostro arrivo. Un'ombra si alza e viene verso di noi, parlotta un po' con Julius, poi si volta e mi tende la mano. Slakwa è molto piccolo e ha una età indefinita, pur essendo evidentemente un anziano. Porta solo un paio di pantaloncini sdruciti e qualche collanina di perline colorate. Mi porta vicino al gruppo degli uomini seduti. Uno di loro sta accendendo il fuoco. Sfregando le mani vorticosamente, gira un lungo bastoncino sottile su un legnetto incavato che dopo un attimo comincia a fumare, un po' di erba secca ed è subito una fiammella viva a rischiarare il cerchio che osserva. Sono sei uomini, tutti giovani a parte Slakwa e mi invitano a sedere con loro. Sono Hadzabe , uno dei pochi gruppi rimasti al mondo di cacciatori raccoglitori. Non più di trecento, vivono una esistenza nomade in una dozzina di piccoli agglomerati di capanne e si spostano continuamente a seconda delle stagioni, in un'area remota della Rift Valley, attorno al lago Eyase, loro territorio di caccia, da almeno 10.000 anni, tempo in cui sono arrivati migrando dal'Africa del sud. Riconosci subito la piccola statura e la pelle più chiara tipica dei Boscimani, anche se non sentissi i continui click della loro parlata piena di schiocchi, come solo hanno gli idiomi dei gruppi San. Non hanno riti o particolari credenze religiose, salvo un timore/rispetto per il cielo, visto come una sorta di protettore universale. I morti vengono lasciati nel bosco agli animali. Raccolgono miele e bacche nel
bush e cacciano animali di ogni taglia, scambiano carne e pelli quando incontrano gli altri popoli stanziali della valle, con farina di mais, sale e attrezzi di metallo come coltelli, punte di frecce, recipienti.
Le donne con i bambini sono accoccolate dietro le altre capanne tra gli alberi e ci osservano da lontano commentando tra di loro. Slakwa vuol dire Nato tra i cespugli; sua madre lo partorì mentre il gruppo si trasferiva verso nord durante le piccole piogge, ma non sa dire quanti anni fa. Non c'è concetto di anni o di mesi presso gli Hadzabe. Nella loro lingua non ci sono altri numeri dopo il tre, poi viene il concetto di "molti". Comincia ad albeggiare, la luce si fa strada tra gli alberi e tre giovani si riscuotono dal torpore. E' l'ora di andare a caccia. Ognuno di loro prende il proprio arco e qualche freccia; lasciano però al villaggio quelle con la punta di metallo grande coperta di veleno ricavato da una grande pianta grassa che essuda un latice denso, che serve solo per gli animali di grossa taglia, grandi antilopi o bufali. Oggi sarà una caccia breve di due o tre ore e non si prevede di incontrarne. Se vi va possiamo andare con loro, ma cercate di non rimanere indietro, nel bosco non c'è sentiero e dopo qualche passo perdi ogni riferimento. Seguo i tre ragazzi che si sono preparati e un bambino di non più di dieci anni. Ha lo sguardo duro e compreso del suo compito e regge in mano un piccolo arco ornato di striscioline di pelle di impala e un paio di frecce. Bordesha (Nato in un albero) è decisamente il capo. Ha una corta tunica di pelle di gazzella bordata di perline bianche attraverso le spalle e un fascio di collanine intrecciate arancio attorno al collo. Si incammina deciso e fa la strada tra gli alberi con decisione. La luce è ancora fioca e fatichi a vedere dove metti i piedi, mentre cerchi di evitare i rami spinosi che cercano di strapparti i vestiti al passaggio.
I quattro marciano decisi, guardandosi continuamente attorno, Bordesha sembra fiutare l'aria sottovento prima di decidere la direzione, gli altri si accodano. Ogni tanto, per fortuna, rallentano la marcia; siamo nel fitto del bosco, attorno solo alberi bassi e colline lontane. Non senti rumore, i passi procedono nell'erba, solo un leggero fruscio, nessun ramo spezzato, nessun richiamo, solo sguardi di intesa. D'improvviso Bagatha, quello con la fascia colorata attorno alla fronte si ferma e guarda tra i rami di un albero. Gli scivoliamo attorno silenziosi, tutti guardano in su, poi di scatto Bordesha tende l'arco e scocca. Un fruscio di fronde e un tonfo tra i cespugli. Il bambino sposta i rami spinosi e si china; ecco la freccia recuperata che ha trapassato la massa grigia di un colombaccio che ancora scuote le ali. Lo prende tra le mani, lo porta alla bocca e con un morso gli stacca il collo. Poi lo consegna al cacciatore che se lo appende alla cintura. Il sole ormai si è alzato e i rami disegnano ombre al fianco degli spazi aperti. Si marcia spediti quasi di corsa, sempre senza una parola, un rumore. Eccoci attorno ad una serie di cespugli spinati e apparentemente impenetrabili. Di certo c'è qualche cosa che si nasconde là sotto. I ragazzi si spostano adagio, curvi in avanti, gli archi tesi, pronti a scoccare. Poi, dopo un tempo interminabile, una, due, tre frecce. Un grande topo dalla pelliccia grigia si dibatte, colpito inesorabilmente. Anche lui finisce appeso alla cintura. Di tanto in tanto, tra gli altri, un albero diverso, ricoperto di piccole bacche gialle, numerosissime. I ragazzi si fermano attorno, archi e frecce stretti tra le gambe incrociate e le mani veloci che staccano le più grandi e morbide, mangiandosele velocemente. La sosta ti dà tempo di rifiatare, ma è subito tempo di andare.
Ancora si rallenta il passo, il tempo di lasciar partire un altro colpo verso un albero alto, lontano una ventina di metri. La freccia rimane tra i rami, sembra perduta. Subito si prendono da terra rami secchi e pesanti smozzicati e si cominciano a lanciare tra le fronde dell'albero. Dopo qualche tentativo a vuoto, ecco che qualcosa viene giù. E' la freccia perduta che ha trafitto però un piccolo uccellino giallo. Un tiro davvero eccezionale a quella distanza. Sul volto di Bordesha spunta l'ombra di un sorriso. Non è il capo per caso. Forse pensa a quando andrà a scegliersi una donna da qualche gruppo vicino, ma in questo caso dovrà portare in dono una preda davvero importante, un bufalo o un grande kudu dalle corna ritorte, per convincere la famiglia. Si arriva ad un avvallamento. Sono le rive di un torrente quasi in secca. Scendiamo lungo la balza che le acque hanno scavato nel periodo della grandi piogge, quando il corso d'acqua doveva essere davvero impetuoso e largo; adesso è solo un rivolo contorto che ancora scava nella terra rossa. Dopo l'ansa, una pozza fangosa di acqua marrone. Sul bordo i ragazzi, posati gli archi, si inginocchiano e bevono come gazzelle. Hai perso ormai la dimensione temporale. Come centomila anni fa, ti stai muovendo nella foresta in cerca di cibo, pensando solo a quanto potrai fare nella giornata. Il resto non conta nulla, non esiste, solo la speranza che questa sia una buona giornata di caccia, niente altro. Il sole adesso è già alto e la temperatura comincia a riscaldarsi. Anche il passo veloce a poco a poco rallenta. Ancora soste, agguati, frecce lanciate ed altri piccoli trofei da appendere alla cintura. La sete comincia a farsi sentire. Un altro piccolo corso d'acqua in cui il rivolo scorre scarso e contorto nella sabbia. Bagatha si inginocchia e scava una buca a lato. Dopo un poco l'acqua filtra sul fondo. Uno dopo l'altro i ragazzi si chinano e coi palmi a conca ne raccolgono un poco, bevendola in fretta prima che se scorra via tra le dita magre.
Risaliamo l'arginello e siamo di nuovo tra i cespugli. Ormai hai il respiro corto e ansimi in continuazione, cercando di tener dietro al gruppo che fila veloce sull'erba bassa. Il bosco è sempre uguale e sempre diverso, non ce la faremo più a trovare la strada, le capanne dovevano essere a sud, dietro quella collina ormai lontanissima, irraggiungibile certo. Adesso bisogna deviare tenendosi lontani da quel gruppo alto di rocce bianche. Di solito lì ci stanno i leopardi ed è meglio cercare di mantenere lo status di cacciatore piuttosto che quello di preda. Io credo che ci siamo perduti. Ancora qualche passo, oltrepassiamo una serie di siepi spinose e di cespugli fitti, poi laggiù, del tutto inaspettate, le capanne con al centro il fuoco acceso che scoppietta. Gli uomini si fanno incontro, i ragazzi mostrano il risultato della caccia, sei o sette tra uccelli e topi di diverse taglie, che vengono subito aperti e gettati sul fuoco ad abbrustolirsi. Mi siedo stanco sotto un albero dove sono appese pelli di dikdik e di altri piccoli animali, sotto si scorge quella maculata di una genetta o di un gatto selvatico. La carne cuoce in fretta, mi offrono il topo più grasso, ma rifiuto con cortesia, non ho molta fame in verità e forse la stessa offerta è solo un atto di obbligo verso l'ospite. Ai ragazzi viene subito preparata una pipa da fumare. E' una ganja che cresce sulle pendici dei crateri. Per gli uomini la giornata è finita. Il bambino che evidentemente, a pieno titolo fa parte del gruppo dei cacciatori, ripone il suo arco con cura. Vado a fare un giro tra le capanne, sono alte al massimo un metro e venti, tondeggianti, la base formata da cespi di piante verdi che proseguono in alto con rami curvi ricoperti di foglie secche e null'altro. All'interno ci si sta a fatica raggomitolati in una o due persone.
Le donne ti guardano in silenzio come a misurare con gli occhi la tua immensa pancia. Due, più anziane, sono in piedi, devono essere appena arrivate dal bosco, forse a raccogliere erbe medicinali, in una piccola sacca di pelle, ce n'è anche una specifica che abbassa la febbre della malaria. Anche i pochi bambini stanno muti, quasi senza muoversi, seri e imbronciati a valutare, forse con paura, la tua estraneità a questo luogo, quel tuo essere diverso non soltanto fisicamente, ma nella tua espressione mentale. Bagatha e Bordesha, hanno fumato, sembrano più di buon umore e con l'occhio liquido, vogliono insegnarmi i segreti dell'arco. E' durissimo da tendere e le braccia tremano prima che la freccia scocchi via. Grandi feste quando dopo un buon numero di tentativi riesco finalmente a colpire il tronco bersaglio a una ventina di metri. Anche se la caccia non è stata eccezionale, dopo un po', tutto il gruppo comincia a ballare in circolo seguendo il ritmo segnato dalla voce della donna più anziana. Quando ce ne andiamo tutti gli uomini vogliono salutarti stringendoti la mano. Questo rimane l'unico punto di contatto con un mondo così antico e lontano da sembrare appartenente ad un altra specie; hai vissuto qualche cosa di completamente alieno eppure, non dimenticare, da qui siamo venuti. Qui si vive in questo modo da sempre, anche se non c'è memoria del passato, anche se c'è conoscenza di un altro vivere, in fondo non lontano, ma rifiutato e forse temuto. Julius mi racconta che a questi gruppi era stata offerta la possibilità di stanziarsi in un'area vicina ai territori di caccia in piccole case di mattoni stabili. Gli anziani si sono riuniti, hanno discusso, poi hanno rifiutato. I nostri bambini - ha detto uno di loro al rappresentante dell'amministrazione - vogliono dormire sotto le stelle, altrimenti muoiono. Bisogna rielaborare questa esperienza con calma, d'altra parte la strada verso sud è ancora molto lunga. Vi assicuro però, che difficilmente riuscirete a dimenticare questa giornata.
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