dal web |
Ukraina amarcord. Davanti agli occhi ho una carta dell'Ukraina, con i confini ben segnati e i nomi delle principali città scritti in maiuscolo in nero. Vicino alla maggior parte di essi ci sono piccoli segni di scoppi o di carri armati. Non è diversa da una delle tante cartine che abbiamo visto di Siria, Yemen, Etiopia, Afganistan e di tanti altri luoghi dove adesso le guerre, approfittando di questa situazione di cambio di punto di vista, si sono rinfocolate con grande vigore, con distruzioni e morti, che però diventano, proprio perché sono andati fuori dalle telecamere, automaticamente meno importanti, anzi non esistono più. Più che mai vale oggi l'assunto: appari in TV, quindi esisti. Ma riguardando quella carta, io mi trovo in una situazione particolare, quelle scritte per me non sono semplici nomi di città lontane, ma luoghi reali, vissuti e calcati sulla terra per quasi quindici anni della mia vita, in cui molte volte ho percorso quelle rotte. I grandi corsi di Kiev, adesso deserti, che brulicavano di gente vogliosa di nuove esperienze, (l'URSS si era appena dissolta) che sognava un futuro radioso, con in mano i cuponi di carta straccia che sembravano i soldi del Monopoli, di cui ho ancora la collezione completa da 1 a 200.000, perché in sei mesi, proprio questa era stata la variazione del cambio contro dollaro. Quello che nei decenni a venire avrebbe portato solo sofferenza e altre privazioni. Valentino e la sua compagna che mi accompagnavano con una torta in mano attraverso i giardini bellissimi e fioriti da una primavera precoce e mi assicuravano che tutti i problemi dell'economia erano risolti e che stava uscendo la Grivna, una nuova moneta forte e salda, che poi perse l'80 per cento del suo valore in pochi mesi.
Le sponde verdi del fiume con il monastero che scendeva verso la riva. La splendida cattedrale. Quel ristorantino che un italiano aveva aperto previdente e speranzoso, dove passavamo le sere. Il negozio di apparecchi fotografici dove Eugenio mi accompagnava in cerca della mitica Kiev 88 e dei suoi spettacolari obiettivi. Ne comprai uno da un ragazzo che sognava di andare in Germania. Oggi avrà cinquanta anni e forse invece è la con un mitra in mano o saràa manifestare allaporta di Brandeburgo. Poco più in là, sulla cartina sono solo quattro dita, Karkhov, allora non la chiamavano ancora Karkiv in ukraino, con le sue chiese azzurre. Alexander, stretto in un cappotto nero e liso, con una barbetta incolta e la voce bassa e roca, che ne faceva un personaggio uscito da un romanzo di Dostojeski, un Raskolnikov sui generis, in cui lui sembrava sempre sul punto di consegnarsi alla polizia, dietro alla cattedrale dai colori pastello. Lui i cuponi li chiamava karbovanzi, il vecchio termine con cui si indicavano i soldi, forse sotto lo zar, ma ne portava sempre un po' di piccolo taglio, da dare in elemosina alle file di vecchiette con la pensione da 5 dollari che stavano appostate fuori dalle chiese. Mi portò a teatro a vedere la Traviata cantata in Ukraino, dove i lieti calici diventavano schashlivi bakàli. Le signore erano tutte vestite con cura e nella hall si cambiavano i gambaletti, fuori c'era la neve, con scarpe col tacco alto. Scomparì negli anni successivi Alexander, mi dicono che mise su una catena di farmacie con la moglie, collaborando con affaristi tedeschi.
Se c'è ancora di sicuro verrà utile in questi momenti. E Lugansk e poi Donetz, una città che ricordo così buia di notte, dove per mangiare trovavi solo locali misti, con forti sentori di mafia, dove il ristorante era su una balconata e sotto si ballava, mentre sul palco si esibivano ballerine discinte, con perizomi ristretti che poi scendeva tra i tavoli, disposte a togliersi anche quelli, pagando se del caso, s'intende. Sopra accanto a noi, signore e mariti del tutto avulse dalla scena come se fossero alla trattoria della Sora Lella che ordinavano balìk, blinì e caviale rosso, come si mangiava ieri a Mosca, dato che era festa, così almeno mi manda l'illustrazione il mio amico, che non mi parla più della situazione politicada qualche giorno, ma mi manda solo messaggi subliminali, con pesca della trota con il bico nel ghiaccio dei laghetti vicino a Domodiedovo. Poco più in basso Mariupol, che sembra un punto chiave, circondato da una campagna ferace, di ciernosiòm neri e produttivi. Erano coperti di frumento quando sono stato qualche giorno nel kolcoz Rodina, lì vicino, dove potevi misurare tutto lo sfacelo di una gestione statalizzata completamente fallimentare, perché sulla carta tutto è perfetto, etico e funzionale, ma poi subentra l'animo umano, il naturale egoismo, la voglia di fare quello che ti pare, non vuoi dividere col vicino sempre ubriaco di vodka Gorilka o di samagòn fatto in casa con le bucce di patate e tutto il castello si sfascia.
Un responsaiile che passava il suo tempo a trastullarsi nei ricordi dolci e carichi di rum di quando faceva il "consigliere" a Cuba, le attività agricole, dall'allevamento dei maiali che pareva un condominio di tre piani bombardato, alla fabbrichetta di patatine, con tutte le attrezzature e le macchine in rovina, ma senza un soldo da investire per rinnovarle per destinarle poi ad una successiva rovina. Micha che occhieggiava la segretaria che gli dava retta solo perché ansiosa di andare a Mosca, dove stava per scoppiare l'eldorado e avevano addirittura aperto un McDonald, sogno di tutta la gioventù locale. Uno del kolcoz ci era stato e come prova aveva portato a casa i sacchetti dell'Гамбургер (hamburger) come prova per timore di non essere creduto e aveva parlato di 800 metri di coda all'esterno, ed era febbraio con -15°. I campi intorno erano vuoti e quell'anno non si erano seminati per mancanza di sementi. Le strade del Donbass erano dritte e senza fine, l'occhio arrivava all'orizzonte lontano tra terre nere e senza confini e girasoli in estate. Quando poi le pianure si mutavano in lunghe colline ondulate vedevi il segno azzurro di qualche monastero sulle sommità. A Poltava, dalla balconata della piazza cebtrale si respirava solo la tranquillità di una miseria accettata come pena accessoria per essere nati lì, nelle campagne sotto il mirino di ogni potente che era arrivato da quelle parti negli ultimi mille anni.
Sulla costa invece tirava un'aria piu' mondana, la Crimea è sempre stata un luogo privilegiato, paesi che si potevanpo dire turistici, bianche costruzioni bunker che invece erano i cosiddetti sanatorij dove trascorrere le putjiovke, le vacanze premio che ogni fabbrica assegnava ai lavoratori benemeriti, perché nell'URSS, ma anche tra gli odierni epigoni, non c'è mai la normalità della vita, ma o il menefreghismo assoluto che conduce tutto al disfacimentosupposto cliente che aveva mirabolanti progetto o il sacrificio estremo, l'eroismo stakanoviano, in cui l'eroe non si cura della sua vita e entra a Chernobil senza tuta, perché qualcuno lo deve pur fare. I paesi della costa, la Forteza genovese, che aveva conservato da 800 anni questo nome, il mar dAzov, Sinferopoli, la capitale con i manifesti che consigliavano di mantenere l'igiene e disinfettarsi le mani a causa dei casi di peste bubbonica registrati nele ultime settimane, che comunque da quelle parti era endemica. Valentino che mi accompagnava sulla sua Pabieda del '39, desideroso di venderla a "ricco collezionista di Occidente", per risolvere definitivamente il problema della sua pensione di colonnello dell'esercito di 20 dollari al mese e quando mi portava da qualche cliente che proponeva mirabolanti progetti per impianti alimentari, alla mia perenne domanda dinghij iest (ci sono i soldi?) volgeva gli occhi al cielo come scusa per avermi fatto perdere tempo.
E ancora Odessa, la multiculturale, la folle, la maliarda, crogiolo di tutte le razze caucasiche che l'hanno popolata da sempre. Incrociavi turchi, greci, bulgari, rumeni, russi e facce che venivano da oriente, a mescolare affari misteriosi e intrighi di mafia locale, mentre il nostro cliente, orgoglioso nel suo capannone disastrato sfornava milioni di tappi per le acque minerali che comparivano finalmente sulle tavole dell'impero crollato. Dall'alto della scalinata ti sembrava di vedere ancora la carrozzina che scendeva a balzi un gradino dopo l'altro. Tutto questo adesso è in questa carta geografica che ho davanti. La gente piena di speranze, liberatasi dal cappio sovietico, in fondo non odiava affatto i russi, solo il sistema che aveva mostrato la sua sconfitta storica e, credo non pensava certo che i suoi figli dopo trenta anni, girassero per le strade di Kiev con le molotov in mano. Chiedo pietà vera per questa gente, non chiamata alle armi, come pietà per quei soldati, mandati a combattere su quelle file di carri e di camion a cui forse è stato detto che sarebbero stati accolti come liberatori da fiori e ragazze sorridenti. Non gioite del fatto che la gente di Ukraina si dia al martirio, nessun paese DEVE aver bisogno di eroi. Ogni giorno qualcuno dall'esterno, soffia sul fuoco, vi getta altra benzina e alza un pochino l'asticella fino a quando un uomo forte (quello che tanti vorrebbero anche a casa loro), folle e sventurato come lo sono tutti i tiranni, metterà la mano sul bottone rosso. Alzate ancora un po' quell'asta e il bottone sarà schiacciato, subito dopo ne sarà schiacciato un altro e infine non ci sarà piu' bisogno di eroi da nessuna parte del mondo.