lunedì 23 luglio 2018

Etiopia 32 - Il Sanetti plateau


Lupo rosso Etiope



Sanetti Plateau 
Lasciamo Robe di primo mattino, una breve sosta al baracchino all'angolo per un bel piatto di uova strapazzate e avocado e poi la strada sale subito decisa. Quando imbocchiamo la pista verso il Sanetti plateau attraversiamo una foresta di conifere fitta ed oscura, le coltivazioni hanno già lasciato spazio ai pascoli. Di tanto in tanto greggi di capre o gruppetti di bovini lontani, brucano nelle radure sempre più rade. Ci siamo fermati prima, quando Lalo ha notato due donne accucciate sul lato della pista con qualche cosa da vendere in un cesto rigonfio. Vendono frutta e miele di montagna. Entusiasta è saltato giù ed è tornato dopo una breve trattativa col bottino avvolto in un foglio di giornale. Si tratta di frutti di anona (Annona squamosa), una magnoliacea presente in molti paesi attorno all'oceano indiano, che qui chiamano Gishtà e gli inglesi custard apple mentre per i francesi è la pocanelle. Così grandi, come grossi meloni verdi, non li avevo mai visti e per di più sono maturi al punto giusto, tanto che una volta aperta la squamosa scorza verde, il frutto visto dall'esterno non è per nulla invitante, mostrano una polpa bianchissima e morbida che devi addirittura raccogliere col cucchiaio. Ha un profumo straordinario e messa in bocca sprigiona mille sapori, dolcissimi ed esotici al tempo stesso, ti sembra di riconoscere, pesche ed albicocche, ma anche manghi e durian, cannella e spezie d'oriente e tanti altri che non sapresti riconoscere. Te la sciogli in bocca di gusto sputando i piccoli semi neri sulla strada. Davvero una prelibatezza di cui indovini tuttavia la vita brevissima e apprezzi la fortuna di averla potuta cogliere in quel suo momento perfetto. Un attimo prima acerba ed inespressa, un momento dopo dolciastra e marcescente.

Oltre a ciò, stando ai racconti di Lalo è stata riconosciuta, anche a livello scientifico, come una vera e propria panacea irresistibile, che cura molti mali contenendo elementi dalle certe proprietà anticancerogene e chi più ne ha più ne metta. Insomma bisognerebbe mangiarne a gogo. Intanto queste se ne vanno in un attimo e con rimpianto non rimane che la inutile buccia verde da gettare fuori dal finestrino. Intanto per manifestare la sua gioia, visto che i tornanti per arrivare al plateau si fanno sempre più ripidi e stretti, il nostro Abi, spara a palla gli ultimi successi del folk roker etiope più noto del momento, il famoso ed osteggiato, anche per i suoi temi critici del regime, Tewaderos Kassahun, che per questo si è fatto anche un paio d'anni di galera ed il ritmo quasi ossessivo della sua accattivante Semberé (Ci vediamo), sarà un po' la colonna sonora del nostro viaggio, anzi dato che l'ho trovata su youtube, ve la allego qui sotto per farvi partecipare del ritmo travolgente con il quale tutti i componenti dell'auto hanno continuato per un mese a muovere spalle e braccia, ripetendo in coro, il compulsivo ritornello. Ad un certo punto quasi contemporaneamente alla diminuzione della vegetazione anche la strada si fa più piana e prosegue in semplici ondulazioni di curve lunghe e continue. Quando gli alberi sono completamente spariti lasciando spazio ad una infinita distesa ondulata ricoperta di cespi di elicrisio dai microscopici fiorellini, capisci di essere ai quattromila metri del plateau. L'aria è fina, anche la macchina sembra in debito di ossigeno ed arranca con maggiore fatica. 


Semberé - Tewaderos Kassahun


Kniphofia
Superata la baracca che segnala l'inizio del parco, la distesa cespugliosa che appare come un seguito di cuscini morbidi e rigonfi, è punteggiata dagli alti steli di Kniphofia, una liliacea endemica di queste quote le cui infiorescenze fusiformi giallo aranciate, appaiono come presenze aliene lanciate dall'alto per configgersi in quel tappeto, segnandolo con le loro orifiamme smaglianti che ondeggiano al vento teso dell'altipiano. Questo nuovo territorio è davvero diverso da tutti quelli che abbiamo visto fino adesso. Il cielo terso e blu scuro e la vegetazione estrema, ti segnalano  una quota assolutamente inidonea per le normali forme vegetali a cui sei abituato. Queste invece hanno foglie pelose dal colore argentato  che ridisegnano il tono del paesaggio, rendendolo diverso dalle tante sfumature di verde alle quali sei ormai abituato. All'interno di questo nuovo habitat, compare qua e là, fino a disegnare un orizzonte unico, uno skyline nuovo, costituito dalle Lobelie giganti (Lobelia rhinchopetalum) con il loro tronco scabroso e il ciuffo di foglie grasse e spinate, quasi una palla incongrua che ne orna la cima, come fossero palme malformate e piegate a questo aspetto da un clima severo e costringente, invece sorelle prossime di altre piccole campanulacee dai fiorellini viola intenso che bordano di solito le nostre aiuole. Ma oltre al paesaggio straordinario, siamo arrivati fin quassù, anche per cercare di avvistare una fauna del tutto particolare e specifica di questo ambiente, il rarissimo lupo etiope rosso (Canis simensis), il canide più raro del pianeta, che sopravvive qui in meno di 400 esemplari.


Procedendo sulla pista, che gira attorno a mucchi di rocce giallastre arrotondate dalla forza dei venti arriviamo ad uno specchio d'acqua che il sole rende blu scuro come la notte senza stelle. Qualche oca egiziana sguazza nella polla, mentre appollaiati su tronchi secchi di lobelia che sembrano puntaspilli giganti, rapaci in agguato ed in attesa di qualche preda di passaggio, in generale piccoli topolini. Giriamo un poco, seguendo tracce e linee scoperte fuori dai sentieri, nella speranza di vedere qualcosa. Poi d'un tratto, dietro un gruppo di massi, tra l'argento dell'elicrisio, ecco un lampo rosso che sguscia qua e là nascondendosi tra i cespi più alti. Poi si ferma e si gira verso di noi, circospetto e vigile, ma abbastanza tranquillo di essere a distanza di sicurezza, tanto da fermarsi e continuare a compiere il lavoro a cui si stava dedicando. Tra le fauci che attraverso il teleobiettivo vedi rosse di sangue fresco, un coniglio, o meglio parti di esso, che con cura l'animale sta sbranando in porzioni più piccole ed inghiottibili. Poi posa la preda e continua a divorarla con calma, un occhio sempre rivolto nella nostra direzione, per tranquillità. Noi rimaniamo immobili per non turbare quel momento. Il mantello rossiccio risalta al sole, le orecchie aguzze girano nelle varie direzioni per carpire segnali di pericolo, non tanto noi animali inutili e non concorrenti, ma forse di altri simili invogliati a partecipare al banchetto. Per questo bisogna fare in fretta a buttare giù i bocconi, è la legge della sopravvivenza, comune a tutti i predatori. Poi, forse avendo fiutato qualcosa, avendo ancora sollevato il muso verso l'alto come ad aspirare il vento dell'altopiano, con ancora in bocca l'ultima parte dello sventurato coniglio, in quattro balzi scompare tra i cespi più alti.



Rituali di accoppiamento
Non abbiamo ancora finito di festeggiare la nostra fortuna, quando, quasi in mezzo alla strada, ecco altri due lupi arrivare rincorrendosi, sono chiaramente un maschio ed una femmina in rito di corteggiamento; ora si mordicchiamo, lui la insegue, lei si ritrae quasi a scacciarlo, poi si lascia invece avvicinare e avvinghiare in un girotondo inconscio di quanto succede intorno, tanto da poterci avvicinare più di quanto si potesse pensare. Poi filano via a ricominciare il gioco più avanti. Ne vedremo ancora diversi di questi animali, eleganti e veloci, qualcuno a zampettare lontano seguendo sentieri di caccia, altri fermi al bordo della pista quasi a volersi a bella posta mostrare alla macchina di passaggio, altri ancora fermi a puntare tra i cespugli una probabile preda. In effetti la conformazione del territorio, assolutamente spoglio di vegetazione di alto fusto tra cui nascondersi, facilita moltissimo questi avvistamenti che infatti sembra siano quasi sicuri da ottenere. E' pur vero, mi direte voi, che si tratta alla fin fine di un animale dalla forma abbastanza usuale, in fondo potresti scambiarlo per un cane randagio della peggior specie, ma il suo muso aguzzo, il suo colore fulvo, viene infatti anche chiamato red wolf, una sua certa postura elegante quando si ferma ad osservare il territorio circostante, lo rendono un avvistamento davvero interessante. Adesso la pista attraversa diritta un lunghissimo avvallamento. Picchi conici dalle balze digradanti con asindoti regolari si stagliano lontani all'orizzonte, tranne uno, più contorto e rilevato degli altri, è il Tulu Dimtu, la seconda cima montuosa del paese.

Sul Tulu Dimtu

Attorno a questa punta si stendeva durante l'ultima glaciazione una grande calotta di ghiaccio di 200 km2 che, ritirandosi fino a scomparire, ha levigato con queste linee dolci e arrotondate il plateau fino a dargli la forma attuale. La montagna si eleva proprio in mezzo alla landa desertica e noi proprio lì stiamo andando. Ci si arriva quasi sotto, attraversando la valle, poi un'ultima rampa, un sentiero più malandato ed eroso guadagna gli ultimi trecento metri di quota fino ad arrivare alla cima che si rivela essere un panettoncino arrotondato e coperto di rocce corrose dal tempo e disegnate dai licheni, che culmina in un mucchietto più elevato, aggiustato evidentemente da mano umana con un grande cartello scolpito: Tulu Dimtu mt. 4377, messo a bella posta giusto per fare le foto di rito. Insomma sempre una bella soddisfazione, non fosse che ti giri e vedi una specie di costruzione di pietra che prima confondevi con le rocce della cima, sormontata da un gruppo di malefiche antenne di telecomunicazioni. Vuoi mettere il progresso, intanto se vuoi, da qui puoi anche chiamare casa, eventualmente. Un ragazzotto arriva a dare un'occhiata; lui sta qui, è incaricato di sorvegliare che non succeda niente, in pratica il guardiano; ha anche un po' di capre da guardare tanto per non dare di testa e sembra che una volta la settimana qualcuno della famiglia dal villaggio venga su con un asino a portargli qualcosa da mangiare. Vita tranquilla comunque, anche se forse un po' solitaria. La nostra visita sembra sia stato un bel diversivo. Intanto a te non rimane che, senza muoversi troppo che l'aria è poca, girarsi intorno e spaziare fin dove arriva l'occhio, davvero una bella sensazione.


Cavalieri
Il vento sibila con una certa violenza dopo aver passato tutto l'altipiano senza trovare ostacolo, niente pareti contro cui frangersi, solo un fischio forte che il microfono della telecamera registra come un frastuono sordo che copre un silenzio invece assolutamente innaturale. Più in basso, la pista comincia a perdere quota gradatamente, rivedi ancora qualche lupo e rapaci di tante specie diverse che girano alti nel cielo. Poi da lontano, arrivano alla spicciolata dei cavalieri, avvolti in mantelli colorati su cavalli piccoli e pelosi o pony alti, dipende dai punti di vista. Sono pastori che solo così possono percorrere le grandi distanze che separano i miseri villaggi che sono più a valle e raggiungere gli armenti che pascolano in quota. C'è anche qualche donna ancora più dei primi, avvolta e scura con la stoffa che la avvolge completamente salvo mostrare un rigonfio sospetto dietro alle spalle, un bimbo piccolo completamente protetto. Ti passano vicino alzando su viso il mantello che ne protegge tutto il corpo. Mostrano solo gli occhi, sguardi interrogativi ma tranquilli, non fosse per la sicurezza che conferisce il mitra che gli uomini si portano a tracolla. Sfilano via al passo, riparandosi dalla polvere che stai sollevando, sei tu l'intruso, è vero, ma si sa che alla fine te ne vai via per sempre. Il cielo sembra un pavé di cobalto, l'argento dell'erba splende sulla piana, il giallo corroso dei licheni sembra un graffito sulla roccia. La bellezza lascia sempre senza fiato o forse sarà l'altura.

Una valletta





Elicrisio
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