venerdì 31 maggio 2013

Ancora sulla Fìzica.


Per rispondere all'interesse mostrato da alcuni, sul post Bati la fisica, oggi mi tocca questo ris-post (come li definisce l'amico Dottor Divago). Grazie al paziente lavoro di Franco Castelli, sono riuscito ad avere il testo completo della poesia di Rapetti sull'argomento e ve la ripropongo tal quale, con traduzione verso per verso dello stesso Castelli, in quanto il dialetto di Villa del Foro (l'antica Forum Fulvii) è particolarmente ostico e duro da comprendere, pur nascendo a pochi chilometri da Alessandria. Qui si capisce bene come l'espressione Battere la fisica, coinvolgeva tutti i fatti misteriosi di cui erano capaci streghe e maghi. Un pericolo pauroso in cui erano coinvolte e capaci di svolgere, solo le persone che avevano studiato nei libri "grossi" ed in particolare i preti, che il volgo contadino di ogni parte d'Italia ha sempre visto con la diffidenza e la poca stima a prescindere, un po' come oggi la gente pensa ai politici. Questi personaggi sono sempre stati visti come capaci, grazie alla loro supposta cultura, di approfittare delle donne del paese quando i mariti sono lontano e di ingannare la gente a loro vantaggio, utilizzando le peculiarità del loro ministero. In fondo questa storia delle mogli e figlie che si vanno a confessare, non è mai andata giù e l'identificazione del grasso curato furbacchione, severo con i poveracci ed ossequiente verso i potenti, tipologia incarnata dai vari Don Abbondio letterari, con il prestasoldi è di pratica comune. Ecco dunque questa meravigliosa Ra fizica, dove emerge la figura di Don Paulon, che immaginiamo grasso e rubizzo intento a suscitare malefici paurosi per poi risolverli con magici anatemi al fine di mantener un potere ed una autorità sui contadini della sua parrocchia che lo temono e devono tenerlo buono con offerte e devozioni.

Ra fizica.

Diz che don Paulon batijs ra fizica
ch' il divu 'r Bringiuten-ni, 'n gir sta mizica
ra cà tacà ra gìazia, fnèstri suta
cor ratarauri rj' ombri sòrt na gnuta.
Cucdein ch' l' à ra muruza t' al cunzivi
cullà che 'r va zì pschè dar pas 't capivi
ma l' iss sarà, er fnèstri, cà e stala
dùai ùagg quacià 'ns u lìacc, na micia-gala!
Capì ch' is favu vighi, 't spauentavu
'nt er stali, da maznà, i vègg quintavu
fa dì na mesa ai mòrt, o du, sparisu
'r prèvi l' à u libi, chil se 'r vùa parisu.
'Nt ra fnèstra è don Paulon,'nt l' ombra, pisava
'r vasìa alvà u spargein, l' òm gras, bifava
va 'n cà scumpar ra streja, l' èl, l' èl nèinta
l' indman fan dì sta mesa e ra scarvèinta.
Dìotu 'r "Puntarùa", su fiùa 'l diz, Mariu
vist chil, avli sentì, 'r memòrii variu
d' amson, scariavu 'r cùav,' n cà ch’i mangiavu
"Er fùa, curì, 'nt ra curt 'd Verzon !",crijavu.
Sidlein an man, baston, cujcòz ch’ u ciama
l' avghivu tur au scagn, tit lèingui 'd fiama
sòrt don Verzon da 'n cà, fa 'n sign ant l' aria
sparis er fùa, csé 't dizi, vat te 'n paria?
Fan vighi 'n can, lìon, n' afè ch' aj smeja
ien avstì 'd bianc, long a ra strà, cèr meja
rivè dèj na randlà diz ch’ u spariva
s' l' è 'r prèvi pre 'n pò 'd tèimp pì nein l' avghiva.
Pinètu, rèj an Bèrb, er pscava in ombra
mulava zì spariva, l' èua zgombra
tirava, turna andrèinta, dl' ombra viva
da drìa l’ ava ra len-na ch’ al nuziva.
Na nùacc, mni cà mèz ciuc, dau simitìari,
atur quant balaren-ni, fausi o vìari
tucà balè con lur, fin chi sparivu
l' indman truvà ‘n caudrein, o gèint, l' avghivu!
In auter caratìa, bargìa cme chili
va zì 'nt cul fòss, ‘n bòt 'd nùacc, nein a squitili
tucà scariè e cariè, e tira e bita
camp-sant pein 'd gèint nèint truvè ien ch' al jita.

La fisica.

Si dice che don Paolone battesse la fisica
che lo dicevano le Bringiottine, in giro 'sta musica
la casa vicino alla chiesa, finestre sotto
coi pipistrelli e le ombre esce una ghigna.
Qualcuno che ha la morosa lo conoscevi
quello che scende a pescare dal passo lo capivi
ma l' uscio chiuso, le finestre, casa e stalla
due occhi accovacciati sul letto, una gatta…..!
Capito che si facevano vedere, ti spaventavano
nelle stalle, da bambini, i vecchi lo raccontavano
fai dire una messa ai morti, o due, spariscono
il prete ha il libro, lui se vuole appaiono.
Nella finestra è don Paolone, nell' ombra, pisciava
il vaso levato l' aspersorio, l' uomo grasso, sbuffava
va in casa e scompare la strega, lo è o non lo è
l' indomani fan dire una messa e la scaraventa.
Dìotu il "Puntarùa", suo figlio lo dice, Mariu
ha visto lui, aveva sentito, le memorie variano
d' estate, scaricavano i covoni, in casa che mangiavano
"Il fuoco, correte nel cortile di Verzone !" gridavano
Secchiello in mano, bastone, qualcosa che serve
lo vedevano intorno allo sgabello, tutte lingue di fiamma
esce don Verzone di casa, fa un segno nell' aria
sparisce il fuoco, che ne dici vai in pari ?
Fan vedere cani, leoni, un affare che gli somiglia
uno vestito di bianco lungo la strada, lumi nessuno
arrivare a dargli una randellata dicono che spariva
se è il prete per un po' di tempo più nessuno lo vedeva.
Pinetu, reti in Belbo, pescava un’ ombra
mollava giù spariva, l' acqua sgombra
tirava, di nuovo dentro, dell' ombra viva
dietro aveva la luna che lo ammaliava..
Una notte, tornato a casa un po’ brillo, dal cimitero,
intorno quante ballerine, false o vere
gli è toccato ballare con loro finchè sparivano
l' indomani trovato un pentolino, o gente, lo vedevano !
Un altro carrettiere, lattaio come lui
va giù nel fosso una notte, nessuno a soccorrerlo
gli tocca scaricare e caricare, e tira e metti
il camposanto pieno di gente, nessuno che lo aiuti.


Par di sentire i racconti di streghe e di morti, la sera attorno alla lanterna delle veglie nelle stalle. Cose assolutamente sicure e provate, come quelle del pescatore Pinetu ammaliato dalla luna, che continua a gettare le reti nel Tanaro tirando su solo ombre o quel passare vicino al cimitero dove era stato costretto a ballare tutta la notte con ballerine fantasma fino  a quando queste non avevano deciso di andarsene o del carrettiere, certo piuttosto rotondo dopo la serata in osteria, finito nel fosso, che aveva continuato, novello Sisifo a caricare e scaricare tutta la notte, mentre a fianco, quel camposanto pieno di gente immobile a guardarlo senza aiutare. Su tutti giganteggia il timore reverenziale verso Don Paulon, che batteva la fisica suscitando, forse lui stesso fuochi tra i covoni per poi spegnerli con misteriosi segni nell'aria, facendo così pari. Preti di campagna capaci di far comparire animali strani e paurosi e bianche figure avvolte in lenzuoli bianchi che giravano tra le case di notte, magari a trovare le parrocchiane ingenue. Qualcuno, più sospettoso e pieno di malizia, come in fondo lo sono i contadini, vinta la paura, gli aveva dato una bastonata in testa e poi stranamente per qualche giorno il curato non si era più visto in giro. Un racconto così vivido e naif da fare innamorare. Che grande poeta Rapetti!


giovedì 30 maggio 2013

Tristi amori.

Oggi, ancora una lirica di Yu Xuen Ji, la poetessa triste, dove ritroviamo un topos comune alla poesia classica elegiaca greca e latina, il παρακλαυσίθυρον, il lamento davanti alla porta chiusa, qui illustrato all'inverso, visto cioè dalla parte della fanciulla che, incurante del giovane, l'exclusus amator, che si strugge invano per lei, sogna invece, inappagata, il suo amore lontano da tempo:

旦夕醉吟身,相思又此春。
雨中寄书使,窗下断肠人。
山卷珠帘看,愁随芳草新。
别来清宴上,几度落梁尘

Fino al tramonto, ubriaca, recito i miei versi,
malata d’amore ad ogni nuova primavera.
Sotto la pioggia, un messaggero ha una lettera,
sotto la finestra un uomo con le viscere a pezzi.
Se alzo le cortine di perle, posso vedere le montagne,
le pene si rinnovano come l’erba profumata che rinasce.
Da quando ci siamo divisi, ai banchetti
quanta polvere è caduta dal soffitto.


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Peonia appassita

mercoledì 29 maggio 2013

Gli argenti di Marengo.



Quella di oggi è una storia affascinante e piena di misteri, così intrigante da farla sembrare una favola o una trama di romanzo. Il racconto comincia nel III secolo dopo Cristo, epoca in cui l'Impero Romano mostrava i primi scricchiolii, un periodo turbolento in cui i primi barbari Alemanni ne tentarono l'invasione. Le strade divennero insicure e bande di predoni, dato il diminuito controllo del potere imperiale, si aggiravano nelle campagne a razziare le ricchezze sparse ovunque nel un periodo opulento che stava finendo, aprendo la strada alla decadenza. Nei pressi di Derthona, importante centro imperiale all'incrocio della via Postumia, Emilia e Fulvia, doveva esserci un grande santuario che nei secoli precedenti aveva accumulato ingenti ricchezze e donazioni. Una di queste bande ne tentò una razzia, penetrando forse di notte e cercando di prendere ogni oggetto prezioso conservato nel tempio. Possiamo quasi vederli all'opera, in una notte buia e senza luna, immobilizzare i custodi, afferrare con avidità busti, coppe, divellere dai mobili lamine e piastre, tutto l'argento che riuscivano a trovare e di cui il sito era particolarmente ricco. Lo stipano alla meglio in un grande baule di legno, ammucchiando senza ordine, schiacciando e martellando senza cura, le opere d'arte, per meglio appiattirle e far loro occupare meno spazio, poi forse disturbati dall'arrivo della legalità, prendono la fuga verso Forum Fulvii, verso ovest, inseguiti, braccati. Forse la notte successiva capiscono di non riuscire nell'intento e allora seppelliscono il tesoro in un campo vicino alla strada. 

Affannosamente proseguono nella fuga, ma forse non raggiungeranno mai le sponde della Bormida, che scorre solo a pochi passi. I centurioni li circondano, li catturano, li uccidono tutti. Così il bottino scompare nell'oblio dei secoli e della storia. Sul luogo, il passare degli eserciti si alterna al lavoro dei contadini, troppo superficiale per arrivare alla profondità in cui è stato occultata la cassa. Passano 17 secoli, sulla piana alessandrina, terra di mandrie e di messi e nello stesso luogo, dove cento anni prima Napoleone aveva fortunosamente conquistato la porta dell'Italia, in quei campi dove si trovano con frequenza, palle di fucile, fregi austriaci e qualche piccola moneta francese, nel 1928, un agricoltore che arava con decisione, in profondità, il suo campo vicino alla strada, davanti alla cascina Pederbona, incontra un intoppo che i due bianchi buoi che tirano il pesante aratro non riescono a smuovere. Dalla buca emergono i resti della cassa il cui legno è ormai marcito e disfatto e non riesce più a contenere il mucchio di argento ammassato in un unico blocco confuso. Il materiale, prelevato con ogni cura, viene portato a Roma e affidato ad uno dei massimi argentieri dell'epoca, Brozzi, amico di D'Annunzio, che lo restaura con perizia, riportando gli sbalzi e  le statue a tutto tondo alla loro splendida tridimensionalità originale. Si comprende subito che il ritrovamento è di eccezionale valore. Fregi, coppe, statue, busti di una forse unica bottega di altissimo valore artistico che vanno dal secondo al terzo secolo, l'età d'oro della Roma imperiale, raccolti con cura. 

Un piastra iscritta di un comandante legionario, Marcus Vindius Verianus, dedicata alla dea Fortuna che, evidentemente, lo ha preservato dalle insidie della guerra facendolo arrivare al massimo dei gradi, un vero e proprio ex-voto, fa propendere per l'ipotesi del tesoro di un santuario. Per la verità nel passaggio da Roma al Museo di antichità di Torino, una parte dei reperti, evidenti, nel numero, anche se schiacciati, in una foto eseguita subito dopo il ritrovamento, scompare di nuovo misteriosamente. Il furto era forse nel karma di questi oggetti. Qualcuno insinua siano ricomparsi in qualche importante asta straniera di argenti romani, ma di fatto la trentina di pezzi rimasti sono di straordinaria fattura e fascino e rimangono bene esposti, ma in fondo poco apprezzati a Torino dal 36 fino ad oggi, momento in cui sono stati mandati in trasferta a farsi apprezzare a Roma e, sulla via del ritorno, eccoli tornati nella loro casa d'origine, solo per qualche mese, purtroppo, a far bella mostra di sé nella cornice del Palatium Vetus, l'antico broletto di Alessandria, il cui restauro a cura della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, opera di Gae Aulenti, è stato appena completato. Il pezzo forte è naturalmente il busto di Lucio Vero, imperatore a metà con Marco Aurelio, per otto anni dal 161 al 169 d.C. Fu la prima diarchia nell'Impero Romano e il nostro Lucio è stato un po' dimenticato, messo in ombra dal più ingombrante e famoso compagno e fratello adottivo. Pare comunque che fosse grande combattente e amatissimo dalle folle alle quali offriva giochi e divertimento, i media dell'epoca. Amante della crapula e delle cene eleganti, che metteva insieme in ogni occasioni anche nelle campagne militari, amava circondarsi di attori, musici e favoriti, che poi compensava lautamente con cariche varie. 

Famosi erano i copiosi banchetti che teneva, invidiatissimo eppure osannato, soprattutto da quelli che beneficava, nelle sue favolose dimore. Morì d'infarto o di veleno al ritorno da una campagna in Germania, lasciando spazio completo, finalmente alla grandezza di Marco Aurelio, che portò Roma ai massimi fasti. Un icona di personaggio comune anche in altri periodi storici. Il busto in argento è di una bellezza ammaliante. La perfezione veristica dei particolari, i ricci dei capelli, la barba fluente, il leggero strabismo che ritrae l'imperatore pensoso ma deciso, parlano di un artista dalle doti tecniche davvero straordinarie. La lorica, con la figura centrale di Gorgone è sbalzata in ogni più minuto particolare, dai fregi alla fitta coperture di foglie, cosparse di sottili venature. Davvero un'opera che lascia stupiti per la perfezione dell'esecuzione. Straordinari anche, il pulvino di spessa lamina d'argento, la deliziosa testina di Venere, naturalisticamente espressa con le rughe del collo ben evidenti, le fasce con divinità o a motivi vegetali, il cratere a foglie di acanto, il frammento che raffigura le armi di eserciti stranieri, forse ammassate per un trionfo, tutti con la rifinitura degli sfondi a puntinatura fine, come si confà ad una manifattura particolarmente raffinata, non per niente Alessandria è rimasta la città degli argentieri. Fossi in voi, ci dedicherei un'oretta in compagnia di una bravissima guida che vi illustrerà, ogni pezzo con cura, approfittando dell'occasione per poter vedere l'interno del Palazzo, normalmente non aperto al pubblico.  Fino al 31 luglio 2013, con prenotazione dalle 11 alle 12 e dalle 16 alle 17, dal martedì al venerdì e udite udite, dono ad una città in dissesto, ingresso gratuito.


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martedì 28 maggio 2013

Una ricorrenza.



965 anni fa, proprio alla fine di maggio, a Nishapur, nell'Iran settentrionale ai confini con Turkmenistan, nasceva Ommar Khayyam, uno dei grandi poeti dell'umanità. In realtà fu poeta per sbaglio, o semplicemente a tempo perso, per diletto personale, insomma, un dilettante della letteratura, pensa un po' se ci fosse messo sul serio! Viveva in tempi difficili e pericolosi, le invasioni turche e gli sconvolgimenti sociali, non gli lasciarono mai la giusta tranquillità per dedicarsi a quella che era la sua vera attività, lo studio della matematica e l'astronomia. A Samarcanda pubblica il suo Trattato sulla dimostrazione dei problemi di algebra e affronta il problema della soluzione delle equazioni cubiche legandole all'uso delle coniche, propone una soluzione per approssimazione e dimostra che il problema non è risolvibile con riga e compasso, risultato confermato solo 750 anni dopo. Studia a lungo il passaggio dei problemi geometrici alla forma algebrica. Affronta tematiche studiate solo secoli dopo come i coefficienti binomiali e il triangolo di Pascal e precede con intuizioni geniali dimostrazioni di geometria non euclidea e sulle frazioni continue. 

Successivamente, per quasi venti anni ad Isfahan, è responsabile dell'osservatorio astronomico e in base ai suoi calcoli viene riformato il calendario con una precisione di molto superiore a quella del calendario gregoriano, ma quando il suo protettore viene ucciso dai famosi ashaisin, la setta di sicari prezzolati, guarda un po', finiscono i fondi per lo studio e la cultura e il nostro Ommar, duramente attaccato dagli estremisti religiosi sunniti,  se ne va a Merv, in Turkmenistan dove continua i suoi studi matematici. Un genio, un precursore insomma, eppure trovava il tempo, tra una equazione e l'altra , di scrivere centinaia di quartine di straordinaria efficacia. I suoi temi, l'elogio del vino, l'amore, il timore della morte e dell'invecchiamento, l'impotenza dell'uomo ad abbracciare tutta la conoscenza, la critica corrosiva verso il bigottismo ignorante ed il potere che ha in spregio la cultura, la scienza e l'arte.  Un elogio continuo del "carpe diem", per vincere la tristezza ed il dolore della consapevolezza della caducità delle cose. Da leggere con cura dopo aver sentito un dibattito televisivo sul commento alle elezioni amministrative che spiega sagacemente come i risultati possono essere influenzati dalla concomitanza del derby.

Non ricordare il giorno trascorso
e non perderti d'animo sul domani che verrà:
non pensare a passato e a futuro,
vivi l'oggi e non perder nel vento la vita.


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Rosa bruciata


lunedì 27 maggio 2013

Bàti la fisica.

Sentire l'amico Franco Castelli che parla di miti, leggende, modi di dire e della cultura contadina che permea la nostra vecchia città fin dalle sue origini, è davvero un piacere unico. L'altra sera alla Gambarina, si è davvero superato con un excursus che partiva da Gelindo, attraverso tutte le storie alessandrine, la regina Pedoca, Baudolino e la Fia du Sendic di'Ort, fino ad arrivare alle glorie del Bar Baleta e delle Borsaline. Tra i tanti cenni che la sua sterminata cultura sull'argomento, ha riportato a galla nei nostri ricordi, ho ritrovato un modo di dire, davvero curioso che avevo dimenticato, avendolo sentito da mia mamma solo una sessantina di anni fa o più. Come Franco ha riccamente illustrato in un articolo del 1997 sul mensile La città, Alessandria e soprattutto le sue campagne erano, come la maggior parte degli altri luoghi contadini, pervasi da leggende e racconti paurosi, che i vecchi raccontavano nelle veglie nelle stalle, la sera, prima di andare a dormire, scaldandosi al fiato delle mucche e che i bambini  ascoltavano con gli occhi spalancati e pieni di paura. 

Racconti di streghe e di fantasmi, come combatterli e come tenerli sapientemente lontano, magari buttando in mezzo all'aia gli arnesi da camino (le molle e 'l barnass) in forma di croce, che per soprappiù durante i temporali potevano riparare anche dal fulmine, calamità assai pericolosa, tanto che il proverbio: uarti da la lësna, da u tròn e da cùi chi àn 'l culùr du savòn (guardati dal fulmine, dal tuono e da quelli che hanno il colore del sapone, i tubercolotici, pericolosi infettivi) la cui terza parte ha dato luogo ad innumerevoli varianti in rima  (famosa quella: d'l'asichiratùr Bausòn, ad esempio). Eventi naturali o stregoneschi, che avvenivano a causa delle forze primigenie della natura, ma anche procurati, dai sapienti, dagli istruiti, preti in prima fila, cùi chi àn stidià (quelli che hanno studiato), che per il popolino hanno sempre un lato maligno e pericoloso e che utilizzano queste capacità, oggi diremmo questi skills, soprattutto per gabbare la povera gente. 

La mia mamma, quando non andavo ancora a scuola, mi portava sempre con lei a fare la spesa e al lunedì, giorno di mercato c'era sempre una certa confusione nelle vie del centro alessandrino, non come adesso che pare la città dei morti, percorsa solo dalle ombre curve degli anziani che la popolano, sempre meno numerosi. Allora c'erano banchi di ogni genere, compresi quelli che vendevano la colla tedesca miracolosa, che affascinava mio padre, il cinese che offriva le cravatte o quello che mostrava le peculiarità di panacea universale del Grasso di tigre, che altro non era che il Tiger Balm che già allora arrivava dall'Oriente e che ritrovai tanti anni dopo ad Hong Kong (che già allora il mio destino volto ad est, fosse segnato?). 

Un giorno in via Dante, si era formato un capannello di gente che guardava incuriosita un tizio, un po' misterioso ch'el fava balè i buratén (faceva ballare i burattini). Probabilmente mediante fili di nylon nascosti , muoveva due figurine dagli arti snodati che parevano camminare, muoversi, fare inchini a comando e che davvero, a me bambino meravigliato, parevano muoversi di vita propria e comandati a saltellare dagli ordini di un mago misterioso. Forse la gente allora era ancora dotata di una candida ingenuità, ma stavano tutti incantati a guardare il balletto fatato, che poi il mago vendeva in scatole in cui, assicurava, c'erano tutte le spiegazioni per ripetere a casa propria il miracolo. Io ero incantato a guardare, ma la mia mamma mi teneva la manina con una presa forte e sicura, trattenendomi lontano e quasi subito mi disse: Andiamo via, ch'isi i sòn gent chi batu la fisica (che quelli sono gente che battono la fisica). Un modo di dire curioso, in cui è racchiuso tutta la meraviglia mescolata al timore verso coloro che studiano nei libri spessi, pieni di segni misteriosi, appunto i libri di fisica, preparandosi con la loro sapienza a fregare il prossimo. 

(vedi la bella poesia di Rapetti il poeta dialettale di Villa del Foro: Ra fisica, materia associata dal volgo alla stregoneria e al mondo dell'al dil à, di cui vi riporto una quartina:
Capì ch'is favu vighi, 't spauentavu / 'nt er stali, da maznà, i vègg quintavu / fa dì na mesa ai mòrt, o du, sparisu / 'r prèvi l'à u libi, chil se 'r vo parisu.
Capivi  che  erano apparizioni spiritiche,  ti  spaventavano  / nelle  stalle, da bambini, i vecchi raccontavano / se fai dire  una messa o due ai morti, spariscono /ma  il prete ha il libro, lui  se vuole li fa apparire) 

Quante volte lei lo avrà sentito nella stalla del cascinotto in cui, bambina, passava le sere senza altro che i racconti dei vecchi, alla luce fioca di una lanterna. Storie che certo aveva dimenticato, ma che le avevano inculcato questa importanza vitale di appropriarsi del sapere, il potere dei "libri", che ha cominciato a comprarmi fin da piccolo, lei che aveva fatto solo la terza elementare, quantomeno perché in futuro non mi facessi fregare da chi lo possedeva, il sapere. Questa fisica misteriosa che dava poteri, e chissà perché si doveva "battere". Una necessità assoluta che ha preteso almeno per suo figlio, ponendo come priorità assoluta proprio quella che studiassi, a costo di ogni suo sacrificio. Che un giorno anche il suo bambino fosse tra quelli ch'i batu la fisica, forse lo ha sempre sognato; così, col tempo, me ne sono appropriato un po' anch'io della fisica, anche se alla fine non mi è servita per fregare nessuno.

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domenica 26 maggio 2013

Chi ha inventato Twitter?



Ma sarà poi proprio vero che i cinesi hanno inventato tutto prima di noi? Intanto loro lo sostengono a spada tratta. Quando parli con un cinese, questa tesi viene sostenuta con convinzione e subito il tuo interlocutore parte con la sfilza degli esempi. Si parla di cucina e via con l'elenco, gli spaghetti, i ravioli, la pizza, loro li avevano già da secoli quando è arrivato quel furbacchione di Marco Polo a fregar loro l'idea, scopiazzandola anche male; la buona pizza infatti, dovrebbe essere chiusa come il calzone e non sfacciatamente aperta come fanno da Pizza Hut che ormai imperversa in ogni città cinese. Non parliamo della carta moneta, lì, quando il buon Marco lo raccontava, da noi lo prendevano per pazzo, eppure il buon Kubilai la usava con profitto da decenni, senza svalutazione almeno così pare e senza che nessuno cercasse di farsela in casa senza il permesso dell'imperatore, anche perché se no lo sottoponevano alla tortura delle mille morti. Se poi andiamo alla polvere da sparo, la carta, i fuochi artificiali, e mettiamoci pure la bussola per soprannumero, non c'è discussione. Nelle esplorazioni infine pare fossero in Aamerica secoli prima dei vichinghi, anzi le hanno addirittura popolate le Americhe; quanto a Roma una delegazione ci è arrivata durante il regno di Antonino Pio (An Tun per le cronache cinesi), che non li ha neanche ricevuti per la verità, aveva altro da fare che occuparsi di una delegazione di barbari capaci solo di copiare. Però sembra che questa serie di attribuzioni continui implacabile. 

E' di pochi giorni fa, come rileva nel suo blog Partecinesepartenopeo, l'amico Sinonapoletano, la notizia che diversi blogger cinesi hanno posto l'attenzione su un fatto che è sfuggito ai più. Chi è il vero inventore di Twitter? Forse il suo omologo cinese Wei bo? Ma neanche per sogno. Gli abitanti dell'impero di mezzo sanno bene che Wei bo è un succedaneo di successo dell'uccellino cinguettante, solo a causa della censura che impedisce ai social network mondiali di penetrare la Cina. L'inventore del sistema, all'apparenza modernissimo, con la sua sintesi estrema e con l'uso di un linguaggio estremamente scarno e giovanile, in realtà è ben più antico. Sul web cinese si fa notare infatti che questa filosofia di concisione e semplicità, unita alla popolarità rapida ed efficace, è stata inventata 2500 anni fa proprio dal più tradizionalista dei filosofi cinesi, Confucio. Apparentemente conservatore e rigidissimo, in realtà fu un grande innovatore della comunicazione, lanciando le sue massime racchiuse poi nei cosiddetti "Dialoghi" attraverso il paese. Questi pensieri, concetti e dichiarazioni, espressi appunto con parole semplici, ma di grande impatto, perché potessero raggiungere tutti, non superano appunto il format dei 140 caratteri, sono espressi in un linguaggio nuovo e moderno per l'epoca ed ebbero un successo fulmineo e impensato, tanto che il buon Confucio, raggiunse una popolarità straordinaria tra tutti gli uomini di pensiero dell'epoca e di conseguenza presso il popolo. 

Considerando che allora quasi nessuno sapeva leggere, il fatto che in breve abbia raggiunto oltre 3000 followers, è da considerarsi straordinario. Le sue idee, espresse così con frasi ad effetto erano cinguettii talmente forti e potenti, che sono ancora oggi ben presenti e continuamente riportati e il suo pensiero, permea profondamente la società cinese. Qualche maligno insinua che questa teoria, sia una specie di cavallo di Troia per permettere alla lunga, una liberalizzazione nel paese dei social network, visti oggi come un pericoloso strumento di troppo libera circolazione delle idee e soprattutto delle critiche al potere; il fatto che il sistema possa essere basato invece sulla filosofia confuciana così sostenitrice della assoluta necessità di non contrastarlo, anche quando sbaglia, per non turbare l'armonia generale, unica via di mantenimento della pace sociale e quindi della felicità del popolo, potrebbe lasciare qualche spiraglio per il futuro. Ne sanno proprio una più del diavolo 'sti cinesi.


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venerdì 24 maggio 2013

La nave dei folli.


C'era una volta tanto tempo fa, una nave bellissima e felice, che in ogni porto in cui si fermava era oggetto di grande ammirazione per il suo valore e per l'intelligenza di cui era portatrice, che, a poco a poco, col passare degli anni l'ingordigia, l'ignavia e la bramosia dei suoi passeggeri, aveva mandato alla rovina. Le fiancate erano ormai scrostate e piene di buchi, le vele a pezzi e mal rammendate, il timone poi era tenuto insieme malamente da pezzi di cartone marcio. Invece di riunirsi per cercare di salvarsi dal disastro, tutti i passeggeri continuavano a litigare tra di loro, dandosi la colpa l'un l'altro ed accusando soprattutto il capitano che loro stessi si erano scelti, mentre per scaldarsi continuavano a bruciare pezzi della nave stessa allargando sempre di più le pericolose falle che si aprivano sul mare procelloso. Il buon Dio degli Oceani ebbe pietà di quella gente, un tempo felice e decise di dare loro una possibilità. Così impose loro di scegliesi un nuovo comandante che li salvasse dall'inevitabile naufragio. 

Diede quindi la scelta tra un incapace che pensava di vincere comunque grazie allo scontento dei passeggeri, un pazzo che voleva affondare la nave, ritenendo più sicure le zattere da costruire col fasciame rimasto, un farabutto scampato al capestro, interessato solo ai suoi loschi affari e infine una persona seria e capace che spiegava agli altri quale era la situazione reale e quale l'unico modo di salvare la nave e gli uomini assieme, anche se col duro sacrificio di tutti. I marinai votarono e scelsero con grandi ovazioni, non uno dei quattro, ma tutti i primi tre assieme e scartando il quarto tra sbeffeggiamenti e vituperi. Subito dopo tutti ripresero furiosamente a litigare. Il buon Dio degli Oceani allora sorrise, capì che era inutile cercare di salvare chi vuole precipitarsi nel dirupo, fece spallucce e si voltò andandosene lontano, perché non voleva prendersi tutti gli schizzi della burrasca perfetta che tra nubi nere e lampi fortissimi, si stava inesorabilmente avvicinando.


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giovedì 23 maggio 2013

Haiku nuvoloso.





Morbide gemme.
Risalendo la Valle
bramo l'estate.



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Tarda primavera.

mercoledì 22 maggio 2013

Mì shū.

mì shū

Accidenti, ma come sono complicati questi cinesi. Secondo la nostra linea di pensiero hanno proprio una mentalità distorta e farraginosa. Ma sarà poi vero? Giudicate voi. Vi propongo oggi l'esame di una parola apparentemente semplice e vedrete quali arzigogoli di ragionamento dovremo fare per arrivare a spiegarne la complessità degli ideogrammi che rappresentano il concetto. Partiamo dal secondo carattere, per fortuna molto semplice: Shū - 书 , che significa Libro. Si vede chiaramente la serie delle pagine, piegate da una parte, con un bel segnalibro che immaginiamo rosso, il colore della bellezza, che le attraversa e la piccola gocciolina in alto a destra, forse a indicare il polpastrello che gira le pagine stesse. (In realtà qui ho volato di fantasia, in quanto, quando è stato creato il carattere, i libri erano sotto forma di rotoli e quindi meglio si attaglia una descrizione del bastone verticale centrale attorno a cui i rotoli stessi erano arrotolati e le due linee orizzontali con voluta, simboleggiano proprio due giri avvolti, mentre il segnetto potrebbe essere un prezioso sigillo di chiusura. Ma veniamo al primo carattere. Di norma questo è parte di una parola moderna bisillabica, Mì Mì - 秘密, i cui due caratteri, il primo composto di due ideogrammi più semplici, il secondo da tre, più o meno dallo stesso significato, si rafforzano l'un l'altro per meglio chiarire il concetto. 

Veniamo al primo. Il radicale di sinistra (quello che serve a fare la ricerca sul dizionario), da solo si pronuncerebbe Hé - 禾 -Pianta di cereale, di riso. Il segno orizzontale è la linea del suolo, sotto ci sono le radici, la verticale è lo stelo e sopra si vede la spiga, graziosamente chinata perché ormai matura, pronta a diventare cibo essenziale, spesso unico, in Cina, ecco perché in questo segno è racchiuso anche il concetto di importanza, cosa senza la quale è impossibile vivere. Il secondo Bì - 必, è un cuore (si vede la forma dell'organo con le tre goccioline di sangue sopra) cancellato, barrato da un segno diagonale tracciato con forza, come a voler dire che bisogna scordarsi dei sentimenti, dimenticarli e infatti significa: Obbligo, dovere, necessariamente, essere obbligato a, bisogna che (notate sempre che ogni segno rappresenta un concetto mentre sono labili i confini tra forma verbale, sostantivo, avverbio che separano invece i vocaboli nelle nostre lingue). Dunque l'unione dei due caratteri semplici in un unico ideogramma rappresenta il concetto di dovere obbligato, senza possibilità di trascuratezza. Il secondo carattere (Mì - 密) è formato da tre caratteri semplici sovrapposti. Sotto la montagna, disegnata con una base e tre picchi, in mezzo di nuovo il nostro Bì - 必, Obbligo, entrambi sotto un Tetto, che si vede bene, raffigurato da una copertura orizzontale, due ripari laterali e il segnetto in mezzo, il colmo del tetto stesso. 

Dunque Un obbligo pesante come una montagna da mantenere al riparo, nascosto. Assieme al primo carattere, Mì Mì - 秘密: Ciò che di importante si deve necessariamente mantenere protetto e nascosto: dunque Il Segreto! Anche la pronuncia di entrambe le sillabe con il quarto tono discendente, breve e secco contribuisce al concetto di parola pronunciata in fretta, che nessuno la senta. E torniamo alla nostra parola iniziale, in cui per brevità e concisione si elide il secondo Mì,  facendo così rimanere solo Mì Shū - 秘书: Si leggerebbe dunque il Libro dei segreti, ma in realtà significa Segretario! E infatti cosa non è questa figura se non il depositario di tutte le carte più segrete e nascoste del suo superiore, quello/quella che a un cenno del capo, corre nel suo archivio e tira fuori quella famosa carta che nessuno deve vedere e che ben custodisce, quello/quella tenuto alla più stretta riservatezza su tutto quanto riguarda l'ufficio e che tutto conosce, anche quelle cose che magari il direttore non ricorda più bene o trascura. Che contorsione di pensate, direte voi. Ma, un momento, badare che anche in italiano, la parola Segretario arriva dalla stessa fonte, il latino Secretum, dunque il cerchio si chiude, forse la testa degli uomini anche se nascono così lontani gli uni dagli altri, sotto un altro cielo, non è poi così diversa.


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martedì 21 maggio 2013

Il salice ritorto.

Ormai è un tarlo fisso. Ogni volta che lo chiamano e se ne va in giro sulle carrarecce fangose, tra queste colline piemontesi che l'autunno colora di rosso e la primavera riveste di tutte le sfumature del verde, cerca quella concentrazione assorta che in fondo non sa descrivere a chi gliene chiede spiegazione e che forse non è altro che un'assenza di pensiero, un lasciarsi andare al contatto con la terra, l'unire il proprio essere a qualcosa di più grande a comprensivo, ma quell'idea ansiosa non lo lascia mai, turbandone la tranquillità necessaria alla ricerca e ad ogni anno che passa diventa più forte ed imperiosa. A chi passare il dono. A Giuseppe, che tutti in paese chiamano Pinotu, lo aveva passato la zia, tanti anni fa in una afosa mattina d'estate, quando le spighe nei campi erano ormai rosso bruciato e gridavano la voglia di essere raccolte, falciate, affastellate in covoni a completare la loro agonia nei campi riarsi. Era vecchia, zia Manin, o forse, lo sembrava soltanto, così curva nei suoi vestiti neri e lunghi, come portavano allora le donne nei paesi più isolati, i capelli grigi raccolti a chignon e la pelle rugosa, forse per il sole feroce delle campagne, forse perché parlava poco con tutti. Viveva sola da quando erano morti i vecchi ed i fratelli si erano sposati ed aveva tutte le caratteristiche per avere il dono, anche se nessuno sapeva davvero chi glielo avesse passato. Era nata settimina intanto e poi non si era mai sposata, non aveva mai conosciuto uomini e questo la rendeva adatta al compito. 

Così, senza che nessuno ricordasse come la cosa si era risaputa, quando serviva, venivano a chiamarla anche da lontano. Lei si metteva un pastrano pesante se faceva ancor freddo e tirava quel vento da neve dall'alta valle o così com'era se era ormai estate, saliva dietro sul biroccio, lasciandosi portare sul posto dal dondolio lento del cavallo, senza lamentarsi dei sobbalzi dei sentieri segnati dai passaggi precedenti. Arrivati, guardava il cortile o il campo e i suoi occhi azzurri si perdevano quasi all'orizzonte, lontano come se cercasse qualcosa nell'aria, poi tirava fuori da sotto il grembialone bigio, un ramo di salice sottile, e cominciava a camminare lentamente, tenendo allargata con le due mani la biforcazione della forcella. Sembrava odorare l'aria o qualcosa di più profondo, muovendosi senza mai parlare, fino a che non si fermava di colpo e il rametto tra le sue dita sembrava prender vita propria e si torceva con forza verso il basso, prepotente ad indicare imperiosamente qualcosa. "A l'è sì ch'à iè l'aqua" diceva allora con forza insospettata in quel corpo magro e all'apparenza fragile, pronunciando le parole nettamente come se non ci fosse possibilità di disaccordo. Una verità inoppugnabile da non discutere. Così mentre cominciavano a scavare il pozzo se ne tornava a casa, e dopo un po' l'acqua invariabilmente saltava fuori. Certo i maligni dicevano che in tutta la zona, la falda era a una ventina di metri e l'acqua c'era dappertutto. 

Sarà, ma intanto se si doveva fare un pozzo, nessuno si sarebbe sognato di cominciare a scavare senza avere prima l'assenso di magna Manin. Quando passò il dono al nipote, in quella estate lontana, non ci furono annunci, ma non si sa come, la voce girò in un attimo e da quel momento tutti sapevano che bisognava andare a chiamare Pinotu per avere il servizio. Da quel momento Manin, la videro in pochi, solo quando andava a messa la domenica mattina presto, poi, scivolava via quasi senza farsi vedere e spariva nella grande casa vuota in fondo al paese. Morì poco dopo. Pinotu ha fatto il suo dovere per tanti anni, anche lui non si è mai sposato e l'acqua l'ha sempre trovata, anche se adesso bisogna andare molto più giù per farla saltar fuori. Sarà che quando lo chiamano al telefonino, ne ha uno vecchio coi numeri grandi, perché non ci vede più tanto bene, che gli ha regalato il fratello, prende la sua vecchia Simca 1000 per andare sul posto, di birocci col cavallo ormai non ce ne sono più. Lui è un po' più chiacchierone, è sempre stato di carattere gioviale e gli piace rassicurare chi lo chiama: "Sta tranquil, ch'à la truvuma l'aqua" dice sempre prima di cominciare. In verità lo chiamano più per tradizione che altro, magari per non dispiacere ai vecchi, sembra che porti male scavare il pozzo se non lo chiami prima di cominciare. Ma da un po' di tempo Pinotu si è messo in cerca di qualcuno a cui passare il dono. 

Pare l'abbia individuato in un nipote, un ragazzo abbastanza giovane che vive vicino a lui, Angelo, forse anche il nome ha la sua importanza. Quando va a mangiare da lui, nel pomeriggio, lo porta nel campo dietro casa, gli mette in mano il ramo di salice e lo fa camminare lentamente qua e là. Ma zio, non sento niente, come devo fare? "Sta tranquil, Angilìn, pensa nèn, camina piàn, che po' t'la senti l'aqua ". Angelo gira un po' di qua e un po' di là con l'aria dubbiosa, poi rientrano assieme in casa, lui con gli occhi abbattuti e quasi infastidito da questi continui fallimenti. Pinotu invece non demorde, forse sente qualcosa di più, avverte potenzialità ancora nascoste da coltivare. D'altronde rabdomanti si nasce non si diventa. Forse è difficile portarle allo scoperto, sarà il disturbo dell'smartphone, che Angelo tiene sempre in mano o lo schermo al plasma, che occupa tutto lo spazio sulla credenza, dove una volta c'erano i piatti di peltro della nonna, o forse sarà perché Angelo è già sposato, con una di città per di più, anzi ha addirittura un figlio, che quando lo zio tira fuori il ramo di salice, scappa di là e tira fuori la Playstation.


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lunedì 20 maggio 2013

Salone del libro 2013.


Si chiude oggi, quindi chi c'è, cè. tanto per dirne una. Ho finito per andarci sabato con acqua a catinelle, tanto per scegliere un giorno giusto. Bene, sotto la pioggia battente, c'erano 10 file gremite di quasi un'ora alle biglietterie, di gente, in massima parte giovane, che armeggiava continuamente su e-reader e tablet, che aspettava chiacchierando il turno di versare 10 euro per entrare a vedere una fiera di bancarelle piene di volumi. Ma allora forse non è vero che con la cultura non si mangia, che i libri sono morti o comunque destinati all'estinzione, che i ragazzi non leggono a giocano alla playstation e stanno su facebook tutto il giorno. Alla fine se non sbaglio, ci passerà molta più gente che alle varie fiere dell'elettronica piena dei gadget più accattivanti e divertenti che si possano pensare o alle sagre di banchetti strabordanti cibi biologici e teodinamicizzati, (garantiti no OGM) e farciti di fuffa, pur dai colori così marketizzati e accattivanti. Bisognerebbe rivedere certi luoghi comuni che abbiamo in testa. Comunque per i larghi corridoi facevi fatica a farti largo tra la gente e, i vari appuntamenti e presentazioni, erano gremiti di persone; posti in piedi dappertutto. Code davanti agli autori per far autografare i volumi appena comprati e alla fine tutti se ne vanno a casa con qualche libro nella sporta. L'occasione comunque è stata colta per poter istituzionalizzare un minincontro di blogger, che mi ha consentito di incontrare direttamente Juhan del Tamburo, (da cui frego una foto) cosa che alla fine a noi anziani che abbiamo ancora una stonata nostalgia del reale in contrapposizione al virtuale, fa molto piacere. Speriamo in un prossimo appuntamento di essere molti di più. (Anche se sono darwinianamente perplesso.)


Foto benignamente concessa da Juhan



venerdì 17 maggio 2013

Il Bar Baleta: Slim.

Slim il piccolo - (gent. concessione Gino "Baleta" Gemme).
Il nostro bar era comunque una accozzaglia di alessandrini purosangue e come si sa, questa è per sua natura brutta gente. Gli insulti della storia li hanno fatti così, una città di frontiera, senza difese dove passavano gli eserciti, così si è dovuti forzatamente diventare, furbastri, infidi e cattivelli (al soldato nemico non opporti, ma, acquattato tra i cespugli, attendi il passar degli ultimi ed il più debole colpisci con la marra, ma in testa, per non rovinar la giubba, così si consigliava nel "Regalo del mandrogno" libro storico locale degli anni '40). Siamo sarcastici, criticoni, incostruttivi e amanti della burla cattiva e feroce. Però in fondo, per quanto spietato, lo scherzo si fa alle persone che consideri ed alle quali vuoi bene (chissà a quelli a cui vuoi male, direte voi). Così il bar era teatro di continui sfottò e di scherzacci  piuttosto pesanti, alcuni anche studiati a lungo dai Senatori, il gruppo di potere, dato dall'anzianità di frequenza e dal rispetto dovuto al carisma dei personaggi stessi. Dopo che Angelo, l'aiuto barista, si era pensionato per darsi al 100% al ciclismo della terza età, era subentrato, come si usava una volta nelle aziende, il figlio, detto Slim, giovane ed ingenuo sebbene, bravissimo e volenteroso. Come tutti i neo assunti, la sua gavetta consistette nel sottostare soprattutto alle angherie nonnistiche ed ai lazzi a cui era sottoposto dagli abitué del bar. Ad un certo punto, visto che il ragazzo cominciava a sopportare le prese in giro con una certa nonchallance e sembrava essere ormai entrato a pieno titolo nello spirito del bar, il gruppo degli anziani, decise di sottoporlo alla prova suprema. 

Lo scherzo crudele. Cominciarono a girare nel bar strane voci, di clienti che si lamentavano della sua scarsa efficienza e delle sue capacità di servire con i dovuti modi i vari clienti, soprattutto quelli più importanti. Gino avallava la cosa confermando con sguardo grave che le lamentele crescevano di giorno in giorno e che i clienti cominciavano ad essere davvero irritati e premevano perché si facesse qualche cosa, per non macchiare il lustro e la storia del bar. Slim un po' turbato, si affannava nel tentativo di esaudire i desideri più strani e anche palesemente vessatori degli avventori, quando arrivò strisciante la notizia che c'era un ragazzo di eccezionali capacità, un barista dal curriculum eccezionale, che aspirava al posto, tale Raf. Ogni volta che il povero Slim, sempre più preoccupato, girava per la sala a portare vassoi di caffè e passava di fianco ad un tavolino di giocatori di carte, allungava l'orecchio e sentiva inequivocabilmente che si stava parlando delle indiscusse capacità di questo Raf, mentre gli astanti subito si zittivano quando lui arrivava, posando le tazzine sul tavolo, subito criticato perché non le aveva posizionate bene, infastidendo i giocatori. Se passava nella sala biliardi, subito sentiva accenni alla grande simpatia ed efficienza di Raf, mentre tutti cambiavano discorso mentre, con gli occhi bassi, posava biglie e ometti sul panno verde. 

La cosa andava avanti da un paio di settimane, quando un gruppo di clienti di peso si presentò da Gino in maniera ufficiale, mentre il povero Slim era affaccendato a sistemar bicchieri e pareva non sentire, chiedendo che il malcapitato fosse sostituito definitivamente per scarso rendimento, alla faccia dell'articolo 18. Gino con la faccia scura decise che le cose dovevano avere una loro ufficialità e dopo aver parlato al ragazzo disperato, decretò che si era addivenuti alla decisione di fare un referendum tra i clienti, poiché risultava che alcuni, invece si erano schierati a suo favore. Il clima di attesa montava ed era continuamente annunciata la venuta del mitico Raf a perorare la sua campagna elettorale, ma gli appuntamenti erano continuamente disattesi. I più cattivi  lanciavano battute del tipo: Fammi un caffé buono che intanto ne hai ancora per poco e si giravano dall'altra parte, mentre chi faceva la parte del buono gli sussurrava: Dai che non è detto ancora, intanto Raf non si è visto neanche stasera, forse lo prendono in un bar di Montecarlo. Slim era davvero preoccupato ed il giorno del referendum, un'apposita urna fu predisposta al centro del bar, dove i clienti depositavano la scheda, che riportava i due nomi, dopo averla crociata debitamente, con molto sussiego, proprio sotto gli occhi del preoccupatissimo Slim, che continuava a servire caffé e Campari soda. Alla sera, chiuse le votazioni ufficialmente, nella sala carte si dispose lo scrutinio. Furono avvicinati tre tavoli, il gioco sospeso e condotto da un gruppo di serissimi Senatori, cominciò l'operazione. 

Neanche quella sera Raf, pur preannunciato si era fatto vedere. Slim era stato comandato al bancone, da dove non vedeva ma poteva sentire lo spoglio delle schede, naturalmente tutte fasulle, che venivano aperte e lette con voce stentorea, Raf, Raf, Slim, Raf, Slim e così via. La tensione cresceva di minuto in minuto e il povero Slim non resistendo più all'angoscia, si affacciò alla porta proprio mentre si arrivava all'ultima scheda. Tra la costernazione generale, il presidente del seggio disse: Signori, i voti sono al momento 42 per Slim e 42 per Raf, rimane ancora una scheda, quella decisiva. Conscio dell'importanza del momento, aprì il foglio che era stato ben ripiegato, si aggiustò meglio gli occhiali, poi controllò con cura lo scritto aggrottando gli occhi, quasi non comprendesse bene quanto vi era riportato, infine in un silenzio perfetto, alzò la testa e disse: Qui c'è scritto solo: Coglione. Slim inquadrato dalla porta lanciò un urlo: Sono io, ho vinto, ho vinto! tra le risate, gli sghignazzi ed infine gli abbracci di tutti i clienti che in fondo gli volevano bene. Stette al bar diversi anni, poi ebbe l'occasione di entrare nei pompieri per fare il militare e se ne andò, ma si dice che il virus del barista lo avesse contagiato per sempre, anzi qualcuno incrociandosi in piazzetta, afferma che abbia aperto un bar da qualche parte e che ormai non più giovanissimo, rinverdisca quelle esperienze dietro un bancone lucidissimo.

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