mercoledì 30 luglio 2014

Albania 15: Il signor Archilé






La regione di Zagoria

Ragazzi di Nderan
La pista che sale la regione di Zagoria è davvero difficile, con il bordo in pendenza strapiombante nel vuoto, ci vuole perizia nella guida e sembra impossibile che le auto riescano a superare passaggi così duri, greti di torrenti secchi, mulattiere su cui zampettano nervose le capre, poi quando arrivi alla sommità del passo e vedi una vecchia Mercedes parcheggiata malamente al bordo della strada, ti chiedi come facciano ad arrivare fin quassù. Perché anche in queste terre difficili vive gente e si formano comunità. Scendi un poco ed un enorme platano centenario attira la tua attenzione. E' al centro di un gruppo di case, circondato da un muricciolo che rialza una sorta di panca, un luogo che invita a fermarsi, fresco, tra le montagne, esattamente simile nella forma e nello spirito ai grandi banian che troneggiano al centro dei villaggi indiani e di altri paesi del sudest asiatico. Un luogo di sosta e di riposo per il viandante, il pellegrino, un luogo di incontro per gli abitanti dello stesso villaggio, di una comunità che lì ha vissuto per secoli, quando ancora non c'erano i bar e la sera era il momento, per chi tornava, stanco dalla campagna, di mettere in comune le esperienze, parlare del tempo e delle stagioni, di raccolti e bestiame, all'ombra protettiva del medesimo grande albero che aveva ristorato i nonni ed i nonni dei nonni. E' il paese di Nderan. Adesso solo un gruppo di ragazzini che, quando le auto si fermano all'ombra, corrono subito via, gridando a chissà chi: turisti, turisti! 

Assaggiare il miele
Di fronte all'albero, una bella casa, moderna, con tante parti rifatte di recente, una parabola sul tetto e un giardino come forse è stato visto in una delle tante serie turche che tanto appassionano le ragazze albanesi. Il signor Archilé e la sua famiglia ti vengono subito incontro, appena vedono che ci si guarda intorno in cerca di qualche luogo di ristoro. No quassù non c'è l'autogrill, ma se vi accontentate di quello che abbiamo, potete mangiare qui. Ecco che dà subito disposizione alla famiglia, moglie e nuora che vanno a vedere cosa si può fare per accontentare gli ospiti inattesi e anche un po' imbarazzati. Lui invece si siede nel giardino a chiacchierare, vuole sapere e vuole raccontare. E' chiaro che si sente un po' come un patriarca a cui l'età e l'esperienza della vita consente una posizione di privilegio, non per niente la sua è la casa più bella del paese e ne va giustamente orgoglioso. Come molti qui, anche la sua famiglia appartiene ad una minoranza particolare, quella dei çoban, un gruppo che forse secoli addietro era costituito da pastori nomadi che provenivano dalla Romania e che si erano poi stanzializzati su queste montagne, forse perché spopolate, forse per cercare rifugio da qualche persecuzione. Il loro dialetto infatti è chiaramente romanzo e con qualche sforzo riesce a comprendere anche molte parole di italiano. Forse anche perché gli italiani da queste parti non sono una novità. Il signor Archilé era un bambino piccolo, quando c'era la guerra per questi monti e gli italiani li ricorda ancora. In particolare uno. 

Con la famiglia Archilé
Quando ci fu la controffensiva greca e i morti si trovavano dappertutto a mucchi, nei fossi e sul greto dei fiumi, uno di questi, un certo Antonio Vaiti, chissà se è ancora vivo (se qualcuno ne sapesse qualcosa si faccia vivo per favore, sarebbe bello per questo blogghetto fare una bella carrambata), si rifugiò nella loro casa. Suo papà era il falegname del paese, la famiglia lo nascose e lui rimase lì ad aiutare, a segare legni e piallare assi, fino a che finita la guerra riuscì a tornare in Italia. Così almeno crede o spera  il signor Archilé; qui di italiani ne rimasero tanti, imprigionati subito dal regime e forse morti tra questi monti. Il paese si chiuse per 50 anni e non ne seppero più nulla. Era una gran brava persona e gran lavoratore, dice ridendo il signor Archilé che lo ricorda ancora quando lo faceva giocare nel laboratorio coi pezzi di legno di scarto. Adesso lui non lavora più e sta lì a godersi la sua famiglia, la moglie in cucina, tutta nuova e modernissima, che gli ha appena comprato, c'è anche il forno a microonde e ridacchia soddisfatto seduto sui divani nuovi, anche se mi ha ceduto la sua poltrona, la più grande che spetta al patriarca di casa, quella dove lui alla sera si siede a fumarsi un sigaro e a guardarsi la sua bella televisione nuova a schermo piatto. I figli sono a posto, uno fa l'autista delle corriere, l'altro l'infermiere. Sono sposati con due brave ragazze e i nipoti vanno a scuola a Gjirokastro, certo ci vorrebbe una strada decente, che si fa una fatica del diavolo ogni volta che bisogna scendere in città, figuriamoci se il governo la farà mai, ma in fondo si capisce che è una lamentela di facciata, ma chissenefrega, intanto lui che ci andrebbe a fare a Gjirokastro? 

Sotto il platano
Lui sta bene lì, tra le sue montagne, dove ha una ottantina di vacche, un po'di arnie e qualche pezzetto di terra. Per questo da mangiare non gli è mai mancato e neanche da bere in verità e ghigna soddisfatto versando il suo vino dell'anno scorso e poi ti guarda di sottecchi per vedere se ti piace e se lo apprezzi. Un bel vino forte e con un fondo di resina e bosco, con una spiccata personalità, quasi la stessa di chi lo ha prodotto. Poi tutti attorno al tavolo a mangiare fegatini di agnello con le patate, crema di yogourth, torta salata di mais e erbe di monte, insalata e pomodori. Devi ancora assaggiare il suo miele, dopo il caffé, prima di andare, una dolcezza sottile piena di profumi di fiori di monte. Altro che chilometro zero. Ride quando chi ci accompagna gli suggerisce di mettere qualche tavolino in giardino e cominciare una attività accessoria, che qui di turisti cominceranno di certo a venirne più spesso. Una stretta di mano forte e soddisfatta quella che ti accompagna alla porta assieme alle donne della famiglia ed ai bambini, davanti al vecchio platano dove hai lasciato le macchine. Da piccolo la nonna gli diceva che la sua nonna lo ricordava già immenso così fin da bambina, quando portava le capre al pascolo. E' rimasto uguale anche se lo scorso anno un fulmine ne ha staccato un ramo immenso, che era caduto su un tetto sfondandolo. Ora è rima sta seduta solo una vecchia, forse nello stesso punto in cui sedeva la nonna della nonna del signor Archilé. Le auto, rimaste all'ombra del platano, sono fresche, anche l'aria è frizzantina, da lì in poi la strada è tutta in discesa.

La piazza di Nderan


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martedì 29 luglio 2014

Albania 14: Paesi greci

Il ponte sulla Viosa

Il bar
Permet è un piccolo paese, piuttosto tranquillo, dove indovini subito le case di coloro che hanno qualche parente all'estero, con le loro parti appena rinnovate e l'esibizione di un benessere relativo che arriva da lontano. Piastrelle italiane e balaustre bianche, tetti rossi nuovi appena terminati. Una grande distanza dalle vecchie case del regime che stanno cadendo a pezzi in periferia. Appena fuori dalla città, una serie di caserme costruite un tempo dagli italiani che erano arrivati qui nel ventennio, con la pomposità delle frasi del conducator ancora impresse sui muri ammuffiti delle baracche, poi diventate campi di concentramento, in cui non si era avvertito il bisogno di cancellarle, tanto, certe prosopopee sono valide in tutte le dittature, qualunque colore abbiano. Tutta questa zona e sempre di più, man mano che si procede verso sud, la presenza italiana fu massiccia in particolare durante la guerra contro la Grecia, che ebbe qui alcuni dei suoi atti più sanguinosi. La strada corre sul fondovalle lungo il fiume Viosa, verso Tepelene, la città di Alì Pascià. Quando deve attraversare il fiume ecco il grande ponte di ferro. Su una delle travi portanti, ecco la targa in ferro dell'Ansaldo del 1936, che mantiene il ricordo della presenza italica. Una vecchia vestita di nero col foulard bianco, lo attraversa a piedi con un largo fascio di erba sotto il braccio. 

Sotto, l'acqua azzurra e lucente come quella del Timavo, corre verso il mare. In mezzo a queste montagne ci sono delle interessanti situazioni di minoranze etniche, i cui rapporti con la maggioranza albanese sono molto simili, anche se questo è un paese così piccolo, a quanto accade in tutte le parti del mondo. Basta prendere qualche stradina laterale che degenera subito in pista sassosa e difficile, per scalare i fianchi della valle e trovare qua e là piccoli agglomerati di case. Sono paesetti di lingua greca e qui pare che il senso di appartenenza sia piuttosto forte. I pastori che trovi e a cui chiedi informazioni, sono piuttosto rudi e rispondono solo in greco, anche se capiscono benissimo l'albanese. A sua volta anche se chi chiede conosce il greco si irrita di questa supponenza e vorrebbe risposte in lingua ufficiale. E' il solito dialogo tra sordi tra chi si sente comunque orgogliosamente "diverso" che poi conduce a chiedere assurde indipendenze sempre più minuscole e insensate, ma sempre foriere di guasti e irredentismi litigiosi. Naturalmente c'è chi ha interesse a soffiare sul fuoco, perché creare disordine a casa del vicino può sempre tornare utile. Così sembra che qualche anno fa, la Grecia abbia concesso a tutti i grecofoni albanesi che lo richiedessero, la cittadinanza e per buona pesa, una pensione di circa 400 € al mese, più di uno stipendio medio locale. 

Una chiesa ortodossa abbandonata
Sarà forse anche questo uno dei tanti motivi per cui quel paese è andato in malora e adesso chiede di mettere in comune i debiti. Naturalmente hanno aderito tutti, con grande stizza degli albanesi veraci che hanno vissuto tutto ciò come un tradimento. Adesso che la pensione è stata sospesa, capirà con la crisi, gli autoctoni ridono e i grecofoni masticano amaro e irredentismo. Comunque si tratta davvero di paesini semiabbandonati tra le montagne; qualche casa divisa da orti circondati da muretti a secco; tanti muri sbrecciati e distrutti dall'abbandono di coloro che se ne sono andati da qualche parte in Europa a cercare fortuna. In una casa imbiancata di nuovo, una piccola insegna, una marca di birra, una pubblicità di gelati. Se chiami, esce una signora e apre la porta di questo bar provvisorio aperto in una cantina, due tavoli e un frigorifero. Caffè turco o greco, come è più politicamente corretto chiamarlo, delizioso però come sempre. I bambini che si radunano al tam tam della novità. Al di là del sentiero in cui passa un gregge di capre, un asino raglia in mezzo ai cespugli, poi si rimette a brucare. E' bello, peloso e morbido. Ti fermi a guardarlo e appena al di là delle frasche intravedi che il sentiero prosegue anche se forse non ci passa nessuno da tempo. 

Pipistrelli
Scendi sui sassi scivolosi e in fondo al viottolo una costruzione abbandonata, dai muri scrostati e coperti di muffa, in cui indovini una struttura più complessa delle semplici casupole del paese. Entri nel cortiletto e compare un portico importante e ancora ben visibile, con bei capitelli su colonne bianche ed eleganti. La porta è accostata e entrare in questa chiesetta abbandonata ha il sapore speciale della scoperta. Entri adagio e in silenzio, timoroso di profanare qualche cosa, quasi se dovesse apparire all'improvviso qualche monaco a chiederti conto di questa intrusione pagana. Invece non c'è nessuno, solo la penombra dei decenni di abbandono. Guardi senza fiato l'iconostasi di legno scolpito, con gli spazi vuoti di icone depredate chissà quando,sostituite da qualche stampa e gli affreschi che si sbriciolano sul muro e sulle volte, marezzate dalle macchie dell'umidità che sta cercando di avvolgere nel suo abbraccio di morte quel luogo che ha sentito preghiere e canti, lacrime per i morti e gioia per battesimi e matrimoni. Ci sono ancora le ombre a ricordarlo, a tenerne viva la memoria, tra le colonne, sui muri, scandite dai raggi del sole che penetrano dai piccoli varchi delle finestre. In una nicchia del muro trovi ancora i resti della devozione contadina, ceri smoccolati, monete e qualche banconota che raccontano le offerte e le preghiere di tanti decenni fa; poco più in là un gruppo di pipistrelli pende appeso in un anfratto della volta, ad un tuo movimento, di colpo, volano via sventagliando le piccole ali, l'unica cosa rimasta viva lì dentro.

L'iconostasi

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lunedì 28 luglio 2014

Albania 13: Le gole di Osum

Le gole dell'Osum


Dopo Poliçan la strada si inerpica sul fianco della montagna. Sullo sfondo la valle sembra chiusa da una barriera di monti. Il fiume Osum che scorre tranquillo serpeggiando in basso, sembra uscire dal nulla e invece se guardi bene, una spaccatura incerta e nascosta tra gli alberi segna una divisione nella roccia all'apparenza compatta ed è proprio lì che si dirige la strada. L'andamento dell'asfalto gettato da poco è tutto curve e andirivieni e segue una sorta di cornice alta che segue un tracciato che al fianco destro mostra una fenditura profonda, mentre la parete opposta è davvero poco lontana. Se ti fermi al suo limitare, senti il ruggito dell'acqua che si infila nello stretto anfratto e quasi ne avverti tutta l'ansia di riuscire a trovare l'uscita verso la pianura. Le pareti della gola, anche se non molto alte, sono quasi perfettamente verticali, a tal punto che mostrano solo la viva roccia lavorata dalla furia delle piene, senza che nessuna pianta anche di piccole dimensioni abbia avuto il tempo di attecchirvi. E' tutto un susseguirsi di curve morbide e spigoli improvvisi che mettono a nudo una fittissima serie di stratificazioni successive, un disegno grafico di rara bellezza in cui, ogni piccolo ripiano o sporgenza è subito ricoperto di un verde carico che l'umidità intensa arricchisce e ingrassa con possente vigoria. Il sole penetra a fatica nella roggia e illumina a sprazzi qualche rotondità della parete che spicca lucida e viva nel gioco di ombre delle rientranze. Sul fondo, tra il biancore del greto che affiora, il nastro di acqua corre vorticoso in una serie di sfumature che vanno dal turchese opaco allo splendore trasparente dello smeraldo. 

Una pista scoscesa permette ai fuoristrada di scendere fino ad un punto dove la gola si allarga formando una sorta di spiaggetta costellata di massi titanici trasportati fin lì da una corrente il cui impeto provi soltanto ad immaginare. Poi, solo a piedi, su un sentierino laterale, tagliato nella parete, riesci a penetrare uno dei punti più stretti della spaccatura e puoi goderti lo spettacolo delle cascatelle, dei balzi dell'acqua che scende, delle larghe pozze blu scuro dove diventa più tranquilla e di cui puoi indovinare la profondità, i riflessi della roccia e del bosco che la colorano. Un luogo di solitudine dove considerare il proprio rapporto con la natura. In oriente di certo ci sarebbe, su una sporgenza di roccia, un piccolo tempio dove un monaco solitario starebbe a meditare sul senso della vita. Un poco più avanti invece le pareti opposte sono così vicine da permettere la posa di un malandato ponticello dal quale qualche chiassoso turista si lancia nella profonda buca sottostante. Fai fatica ad andartene anche se la luce della sera diminuisce in fretta e anche il sole non riesce più a farsi strada tra i rami. Rimane da percorrere ancora un passo. Una ventina di chilometri di una strada tutta sassi piuttosto impegnativa. Quando inizia la discesa, sulla polvere bianca del fondo una striscia irregolare nera che man mano che si scende, si va affievolendo. Il segno inequivocabile di una coppa dell'olio rotta senza rimedio. Ad un certo punto, al margine di una curva cieca, si interrompe all'improvviso, ma della macchina ferita non c'è più traccia. Poi, in fondo alla valle, un altro fiume più largo e possente, il Viosa e poco dopo una piccola città: Permet, tutta raccolta attorno alla sua piazza centrale.

SURVIVAL KIT

Hotel Permeti - Sulla piazza centrale, comodo per una passeggiata, a fianco la via principale con ristoranti. Camere spaziose, pulito, free wifi, sui 40€. Personale molto gentile, colazione abbondante con straccetti di frittata e marmellata di ciliege notevole.

Ristorante AntigoneaAnës VjosësPermet Ristorante che mostra una certa pretesa di eleganza e offre piatti anche un po' diversi dal solito.Come antipasto offerto, verdure messe in composta, poi tzatziki, involtini di foglie di vite, e una crema particolare di yogourth fermentato nello stomaco del capretto (non chiedetemi di più, che non mi sono fatto spiegare meglio) e una specie di torta salata di erbe amare. Infine abbiamo assaggiato cosciotto di capretto ripieno e cinghiale di discreta qualità, verdure e patate come contorni. Prezzi in linea con l'Albania, attorno ai 12 €. Personale molto gentile - Da sottolineare il fatto che ci era stato addebitato due volte lo stesso piatto, per un totale di euro 3. La mattina dopo siamo stati contattati direttamente nel vicino albergo per correggere l'errore, con mille scuse e caffè offerto.

Gole dell'Osum- Sulla strada tra Berat e Corodove, una decina di chilometri dopo Poliçan. Dapprima si attraversa un ponte dal quale c'è un buon punto di vista per vedere la gola dall'alto. Poi c'è una strada laterale sterrata , non segnalata per scendere in fondo alla gola, dove si può fare una bella passeggiata a piedi anche dentro il fiume se l'acqua è bassa in estate, ma attenzione a non fare imprudenze nei periodi piovosi. Possibilità di rafting e kayak. Da non perdere.


Con i fuoristrada di Dimensione Avventura
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venerdì 25 luglio 2014

Albania 12: Berat

Beat - Il quartiere ottomano e il fiume Osum
 
Una venditrice di pizzi
Il fiume Osum compie una grande ansa attorno alla collina. In cima, una bandiera, rosso fuoco con l'aquila nera al centro, sventola al vento teso da nord. Guardando da lontano vedi solo il verde dei boschi, ma mentre ti avvicini, a poco a poco si manifestano sempre meglio contrafforti ripidi di pietre bianche che potrebbero apparire come uno dei tanti curiosi scherzi che la natura compie usando in apparente casualità, rocce erose ed elaborate da acqua e vento per costruire le sue opere d'arte che poi il tempo modifica e distrugge. Invece, quando la visibilità migliora, quelle pietre appaiono sempre più organizzate e frutto dell'opera dell'uomo. Arroccata sulla cima del monte, la cittadella di Berat domina la città sottostante, i suoi antichi quartieri storici, la città nuova e il fiume che ha costruito la valle. Sali fino alla porta, ricavata ad un angolo delle mura e la pietra bianca quasi ti abbaglia lungo l'erta salita che gira all'interno subito dopo la galleria iniziale. La pietra lastrica la strada ed i viottoli laterali, cosi come sale sui muri delle costruzioni ai lati, siano esse edifici importanti che misere case, come se fosse un tutt'uno, un'unica materia che plasma un ambiente trasformandosi di volta in volta in cammino, in muro, pavimento, pilastro e volta. Anima della città e sua descrizione viva, ansiosa quasi di mostrarsi forte e inconquistabile, vigile e solida in attesa del nemico. Gli stessi volti di chi ancora la abita e vive dei visitatori di passaggio, sono duri e severi. 

Berat - l'ingresso alla Cittadella
Aspettano. Non c'è ansia di attesa, non c'è smania di vendere i mille pizzi bianchi, i colorati tappeti distesi sui muri. Anche l'aria appare immobile sotto un sole arrabbiato che calcina i muri e rende penosa la salita. Scale infinite a raggiungere i bastioni esterni con i camminamenti seminascosti e le torri esposte sul dirupo, da cui mirare la valle dove ormai non arriva più nessun nemico, mentre l'erba alta ormai secca, invade gli spazi semiabbandonati tra le chiese e i palazzi e le cicale reclamano la loro ora di furia con uno stridore che impegna le orecchie. Non trovi ombra lungo il passeggio che porta allo sperone della bandiera che dal basso ti ha guidato, ma puoi abbracciare da qui, il paesaggio forte che ti sta dinnanzi, con la città ai tuoi piedi, divisa dal fiume che poi si perde lontano. Vorresti nasconderti tra i vicoli di pietra, tra le chiesette e le moschee di cui ormai puoi solo più indovinare perimetri e intenzioni. Una grande testa di Costantino, come abbandonata in uno spazio riempito dall'erba alta, la chiesa  chiesa bizantina con la cupola ottagonale in cui il rosso del mattone spicca come elemento architettonico di ornamento e la lunga scala a zig zag che vi conduce, infine, nascosto in una piccola strada in discesa, il museo delle icone, all'interno di una sorta di monastero a cui si accede attraverso  un cortile triangolare circondato da antiche colonne di un bianco abbacinante. 

La cittadella - La chiesa ortodossa
All'interno una grande sala ricoperta dai legni antichi ed una sontuosa iconostasi, ricca di ori, intarsi e di immagini antiche che ti osservano nella loro immobilità ieratica. Davvero un colpo d'occhio emozionante che ti fa ritardare l'uscita all'infinito, prima di riprendere la via verso l'ingresso, mentre ascolti lo scalpiccio dei tuoi passi su quella pietra che pare marmo, così scivolosa e abbacinante. Lasci la cittadella carica di mistero e di sensazioni che non si riescono ad interpretare, la senti molto più complessa al suo interno di quanto non appaia dal basso, con i suoi rilievi appena accennati, quasi insignificanti e in apparenza per nulla poderosi. Dal ponte antico del quartiere di Gorica, vedi solo le case ottomane perfettamente uniformi e conservate in modo mirabile, un colpo d'occhio davvero unico, poi la strada prosegue quasi rettilinea fino all'uscita della città seguendo le anse del fiume  che paiono voler cercare ad ogni costo uno sbocco fuori da quella valle costretta che pare non avere uscita.


SURVIVAL KIT
Cittadella - Iconostasi del museo delle icone

Berat - Da visitare la cittadella. Salire in macchina fino alla porta di ingresso (a pagamento). Museo delle icone, imperdibile (200 Leke). Per un giro completo calcolate un paio d'ore, meglio non capitare proprio nelle ore centrali della giornata per ché il sole picchia. Alla base della città: ponte e quartiere di Gorica, esempio di città ottomana per cui ha ottenuto il riconoscimento dell'Unesco assieme a Gjirokastro.


Berat - Il quartiere Ottomano di Gorica e la moschea


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giovedì 24 luglio 2014

Serata a Fenestrelle

Scusate se mi prendo una piccola pausa nella saga albanese, ma tanto l'estate è lunga e avremo tutto il tempo a disposizione per andare avanti in quel filone. Il fatto è che qui nella Val Chisone, come nel resto dell'Italia del resto, continua, come si dice qui, a piovere da "magnìn", nel senso che, per carità, sarebbe pure un bellissimo novembre, ma per essere alla fine di luglio si starebbe anche bene con un po' di sole. Non per me, a dire il vero, che me ne sto benissimo anche così, sul mio terrazzino, come adesso, nella pausa tra un piovasco e l'altro, ma per tutti quei disperati che anelano il bel tempo per armarsi di tutto punto di bastoncini da nordic walking, pedule e zaino affardellato di panino, uovo sodo, tavoletta di cioccolata Novi e fruttino Zuegg e via a camminare per le montagne fin che non si raggiunge la cima di giornata, la cosa è fastidiosa. Anche i locali, bar e ritrovi, piangono disperati perché fanno dieci caffè al giorno, insomma altre lacrime oltre a quelle che piovono dal cielo un giorno sì e l'altro pure. E' pur vero che con questo tempo, i boschi, i pascoli e i fianchi della montagna non sono mai stati così verdi e rigogliosi, un seguito di sfumature così cariche che mai si sono viste, ma se continua con questo ritmo, va a finire che i funghi ci cresceranno anche tra le dita dei piedi, che così si risparmia tempo ad andarli a raccogliere. 

Cosa che comunque è sempre stata al di là della mia capacità. Diciamo che a questo punto preferisco andare giù dall'amico Cristiano dei Cacciatori a Castel del Bosco (di cui vi ho già parlato qui, non perdetevelo se passate da queste parti) e lui me li serve direttamente nel piatto, oggi tagliatelle con le "garitule", altrimenti dette finferli, per i miei lettori milanesi e porcini fritti appena raccolti, bicchierone di mirtilli con gelato alla crema con un nulla di Grand Marnier e direi che si sta bene e abbiamo fatti contenti anche i vegetariani. Forse non i vegani di quinto livello, quelli che mangiano solo vegetali che non fanno ombra, ma direi che per la maggioranza va anche bene così. Dunque adesso mi riposo, poi darò un'occhiata alla presentazione di foto che farò questa sera nella sala comunale di Fenestrelle (abbinata furbescamente alla presentazione del mio libro) e poi la giornata è belle che andata anche oggi. Dunque se qualcuno fosse in zona e non sa come passare la serata, fate un salto alle 21:00, proiettore nuovo appena arrivato al Comune e alla Pro Loco e io che chiacchiero. Tanto non è obbligatorio l'abito scuro.





mercoledì 23 luglio 2014

Albania 11: Pozzi di petrolio


L'area petrolifera a sud di Elbasan

Pozzi e pagliai
La strada corre quasi rettilinea su un terreno ondulato vicino alle colline. Questa è terra buona, irrigua e i campi sono coltivati intensamente, frutteti, serre, campi di mais rigoglioso, non come gli stentati campicelli della montagna o le terrazze sui fianchi delle colline alte, che a poco a poco si stanno rinselvatichendo. Lavoro immane di migliaia di persone che il regime aveva costretto al lavoro forzato collettivo, tentando di riscrivere l'orografia del territorio, nello sforzo di rendere autosufficiente il paese. Quaranta anni di sconvolgimenti che non riescono a trovare pace e sistemazione neppure oggi, anche se è ormai passato più di un ventennio, dopo la caduta del regime. Infatti uno dei problemi di più difficile soluzione dei contenziosi legati al passato, rimane proprio questo delle vecchie proprietà. Tutte le terre confiscate agli antichi proprietari terrieri, erano state date in gestione a queste cooperative, delle specie di comuni che hanno coltivato e provveduto per decenni alla sistemazione dei terreni, con titaniche opere di terrazzamento e regimazione delle acque. Capovolta la situazione, dopo il '91, si pensò di compensare i tanti anni di duro lavoro imposto a questa gente dando loro in gestione, con una sorta di usufrutto, le aree da loro coltivate o gli alloggi che avevano occupato per tanti anni. Tutto questo, tuttavia va a confliggere con i diritti di quanti, perseguitati politici e internati nei campi di concentramento e dei loro eredi, hanno tentato di rientrare in possesso dei beni loro espropriati. 

I contenziosi non si contano e proseguono tuttora con gran goduria di avvocati e di quanti sulle beghe legali ci campano. L'area a sud di Elbasan sta per essere interessata da un gigantesco progetto di centrale idroelettrica che formerà un lago di grandi dimensioni a ridosso delle montagne e già si vedono gli effetti di colossali sbancamenti, che allo stesso tempo portano anche strade moderne e veloci. Alle spalle, il territorio prosegue ondulato, con pochi casolari sparsi tra le colline. Tra i campi  e gli orti che si susseguono disordinatamente, quello che non ti aspetti, una serie infinita di tralicci, alti pochi metri, neri e malandati, ricoperti di ruggine e di untume di oli pesanti. Questi erano i vecchi campi petroliferi albanesi che davano al vecchio regime una certa autonomia energetica. Sono quasi tutti in disuso, le pompe ormai consumate e stanche, i pozzi esausti. Qualcuna continua ancora il lento movimento altalenante per estrarre le ultime gocce di quel materiale, croce e delizia, fortuna e maledizione al tempo stesso per tanti paesi. Pare ancora di ascoltare se tendi l'orecchio verso la valle, il cigolio delle bielle, l'ansimare stanco delle pompe dalle guarnizioni consunte. Adesso quanto rimane o è stato scoperto di nuovo, viene estratto con metodi moderni ed efficienti ed è gestito da ben altri complessi multinazionali, che sono subito arrivati ad offrire i loro servigi. 

Pozzo in disuso
Qui rimangono solamente gli scheletri di un passato prossimo, le carcasse di un mondo che non c'è più, ma ancora ben visibile, un monito mescolato ai pagliai ed agli orti di pomodori, alla base dei quali razzolano le galline e da cui anche i deliziosi asinelli grigi che pascolano lungo il sentiero, si tengono lontani, come non volessero sporcare il morbido pelo grigio con quel nero appiccicoso. Quasi non trovi paesi lungo la strada, solo piccoli gruppetti di case, all'apparenza deserte, al centro delle quali, al massimo, quella più grande ha qualche seggiola fuori e un paio di tavoli, con una insegna della birra Tirana. Ti puoi fermare a bere qualche cosa, ma se vuoi mangiare, devi convincere il ragazzo che sta lì a chiacchierare con gli amici a lasciarti andare direttamente in cucina e a lasciarti preparare direttamente qualche cosa, un'insalata, yogurth, un po' di pesche succose. Lui lascerà fare, intento com'è a discutere con gli amici del campionato del mondo o se è ancora il caso di emigrare in Germania o in Svizzera. Le cicale intanto, continuano il loro assordante lavoro.

Bar di paese


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martedì 22 luglio 2014

Albania 10: La storia di Enkli 2

Tramonto sul porto

Era la prima nave albanese che arrivava in Italia e nessuno sapeva bene come affrontare questo problema. Poi il campo profughi a Bari e il tempo che non passava mai. Enkli cominciava a chiedersi cosa le sarebbe successo, anche perché, anche se era solo uno scricciolo di 14 anni, occhiate strane la percorrevano dall'alto al basso quando passava per andare ai bagni e facce poco piacevoli facevano già capolino dietro le tende quando calava la sera. Un militare italiano la prese con sé ad aiutarlo alla mensa e riuscì a tenerla separata dalle trappole più grosse, evitandole di correre pericoli gravi. Lei aveva detto che avrebbe voluto tanto continuare a studiare, così la destinarono ad un istituto di religiose. Al tribunale dove la portarono un mattino, si sedette in un angolo ad aspettare quelle suore che non arrivavano mai. Vicino a lei, una famiglia arrivata da nord che aveva chiesto in affidamento uno dei tanti minori arrivati senza famiglia. Era stato scelto un ragazzo, che però, saputa la cosa, era scappato dal campo e non si riusciva a rintracciare. Le ore passavano e così passò tutto quel lungo giorno, con le suore che non arrivavano e il ragazzo fuggiasco che non ricompariva. 

A sera il giudice chiamò la famiglia per rimandarla a casa. Loro chiesero se non era possibile portarsi via quella bambina, magra, magra, dagli occhi tristi ma decisi, a cui, senza scambiare una parola, erano stati vicini per tutto il giorno. Il giudice acconsentì e per Enkli cominciò una seconda vita. Nella nuova città a conoscere i nuovi fratelli e la sua nuova casa, a imparare una lingua diversa. All'inizio non fu facile. Al campo c'era un esponente di antiche comunità albanesi italiane, gli Arbereshe, ma è un po' come se un italiano parlasse con Dante, era una lingua così antica che quasi non ci capiva nulla, poi piano piano cominciò a ingranare. Stava davvero bene nella sua nuova casa, il suo unico grande dolore era quello di non poter sapere più nulla dei suoi genitori, che la cercavano disperatamente, nonostante la sua nuova famiglia cercasse in ogni modo notizie e contatti. Dopo due anni finalmente il padre fu rintracciato e fu possibile un primo contatto telefonico. Volevano che ritornasse, avrebbero potuto pretenderlo in base agli accordi internazionali, ma quando Enkli disse che non avrebbe mai accettato di lasciare la nuova famiglia, la madre decise che quello doveva essere il suo destino e anche il papà, piangendo, chinò il capo. Così continuò la vita italiana di Enkli, una vita felice e piena, premiata come la più brava studentessa straniera in quel primo anno di scuola e lei ride quando te lo racconta: "Certo ero l'unica!". 

Poi l'università e i tanti cambiamenti avvenuti nel suo mondo e quando finalmente fu possibile, i viaggi in Albania dove le due famiglie si sono potute finalmente abbracciare. Adesso Enkli ha due madri e due padri e sei fratelli, ha girato un po' e dopo aver maturato un po' di esperienze qua e là, ha deciso di tornare a lavorare in Albania, per dedicarsi al turismo, che è un settore che dovrebbe avere un grande sviluppo da queste parti. E' felice Enkli, quando ti può mostrare e raccontare le bellezze della sua terra e quasi ride se ti vede emozionato al sentire la sua storia, in fondo, dice, questa è una storia a lieto fine. Ma tu, mentre la stai ad ascoltare, non riesci che a pensare a quella bambina di 14 anni anni che corre verso la nave col cuore in gola e sale a fatica su quelle scale di corda. Lei intanto telefona alla sua mamma italiana, rincuorandola sul fatto che sta bene e che è in giro con italiani non troppo difficili, poi compra un po' di cose da portare a casa questa sera che si ferma a Tirana, alla sua mamma albanese, sperando che appena arrivata a casa, non cominci a stressarla con la solita storia, che è sola e che ci sarebbe un bravo ragazzo, un lontano parente che potrebbe essere interessato. Eh no, meno male che domani vado al sud dove abbiamo degli appartamenti da affittare e mi arrivano due coppie di olandesi, se no qui non si resiste, e se ne va scoppiando in una risata. 

La sera al porto di Durazzo


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lunedì 21 luglio 2014

Albania 9: La storia di Enkli

I bunker di Hoxha



Come sempre viaggiando attraverso ad un paese vieni a contatto con la sua storia ed allo stesso tempo con la storia di tante persone. Molte di queste interesserebbero qualunque ascoltatore anche distratto, altre invece ti lasciano senza fiato, a sentirle raccontare e fatichi ad identificarle con vite realmente vissute, tanto il destino riesce a costruire trame così drammatiche. Quella di oggi è una storia a lieto fine e chi te la racconta ride mentre ricorda e il suo sguardo è sereno, ma da parte nostra bisogna riflettere, almeno un poco su molte cose e a quanto ti può accadere se ti capita di nascere in una delle tanti parti sbagliate del mondo. Intanto bisogna ricordare che l'Albania è stata per circa 45 anni, uno dei regimi dittatoriali insieme più chiuso e crudele tra quelli che si conoscono. Appena terminata la guerra, Enver Hoxha, preso il potere, chiuse il paese ermeticamente e diede inizio ad una serie di purghe spietate per eliminare qualunque tipo di opposizione. Il nonno di Enkli, ufficiale di marina, con vaghe accuse di spionaggio e connivenza con l'occidente, fu imprigionato e dopo qualche anno di prigionia, giustiziato sommariamente. La sua famiglia, catalogata quindi come dissidente fu inviata in uno dei tanti campi di lavoro forzato nelle campagne. Suo figlio quasi laureato in medicina ebbe comunque il compito di esercitare questa professione nei paesi del circondario. Qui conobbe una ragazza anche lei di una famiglia di supposti oppositori e si fidanzò. 

Ma per il comitato politico questo non era ammesso e pertanto il matrimonio fu vietato, nonostante per i canoni dell'epoca, la ragazza, ormai fidanzata, fosse irrimediabilmente compromessa. I ragazzi si sposarono ugualmente e per questo furono puniti con rigore, con l'invio in un campo molto più duro, in una zona di bonifiche attorno a Durazzo, dove lui continuò a esercitare di nascosto alla sera la sua attività clandestina di medico. Nacquero tre figli,  che come figli di condannati non avevano troppi diritti in verità, ma Enkli, che era molto brava a scuola ottenne, pagando, il permesso di frequentare le scuole medie a Durazzo. Certo Enkli era una ragazzina un po' particolare, ribelle e poco incline a soggiacere agli ordini e alle consuetudini, in particolare, mentre l'adolescenza cominciava a bussare alle porte, il suo terrore era quello di essere promessa in sposa a qualcuno contro la sua volontà. Tendeva l'orecchio in casa, quando sua madre parlava sottovoce con papà e cominciava a sospettare che si cominciassero a fare dei progetti su di lei, tanto che aveva già detto che lei, in questo caso sarebbe scappata addirittura dal paese, anche se sapeva quanto fosse impossibile, rimediando ogni volta una scarica di botte, non tanto per la ribellione in sé, ma perché bastava che qualche vicino curioso avesse sentito certe dichiarazioni di principio e fosse andato a denunciare e le conseguenze avrebbero potuto essere davvero pericolose, in un tempo in cui quando sentivi bussare alla porta al mattino presto, potevi essere sicuro che non fosse il lattaio. 

L'unica sberla da suo padre invece, se la beccò quando prese in giro la sorellina che si lamentava per una sbucciatura ad un ginocchio, deridendola perché aveva fatto il giuramento al Partito e non poteva frignare per così poco. Ebbene a quei tempi, anche per una ragazzina, scherzare sul Partito, poteva avere conseguenze davvero pericolose. Così trascorreva il tempo, mentre Enkli si concentrava nello studio, facendo la ginnastica militare al mattino e il campeggio estivo dove si insegnava la difesa contro il nemico che da un momento all'altro avrebbe attaccato i sacri confini della patria e cominciando a farsi le prime confidenze con le amiche del cuore su argomenti che non si potevano affrontare neppure con la mamma. Nel '91 cominciarono ad accadere cose molto strane ed inusuali, che Enkli, che allora, aveva soltanto 14 anni, neppure capiva. C'era gente per strada che gridava, molti si richiudevano in casa, alla periferia si erano sentiti anche spari. Quel giorno a scuola c'era un'atmosfera molto strana e una gran confusione tra gli insegnanti. Enkli, che doveva essere interrogata in matematica e ci teneva a ricevere il premio come prima della classe, era piuttosto nervosa, quando arrivò in aula il responsabile scolastico e disse che le lezioni erano sospese e che tutti se ne dovevano tornare a casa. Enkli era un po' arrabbiata perché aveva studiato tutta la settimana per quella interrogazione, ma uscì di corsa con il suo gruppo di amiche. Fuori c'era una gran folla vociante che andava verso il porto. Con la curiosità delle ragazzine, furono trascinate dalla gente fino alle banchine. 

Giravano voci incontrollate. Qualcuno vicino a lei le disse che quella nave andava in Italia e chi voleva poteva salirci sopra. Le amiche spaventate scapparono, lei rimase a guardare come ipnotizzata quella grande nave con le fiancate grigie e arrugginite, coperte di scale di corda su cui qualcuno aveva cominciato a salire. D'un tratto si trovò davanti un parente lontano che le gridò di scappare a casa, che era pericoloso. Lontano, dietro i giardini si sentiva lo scoppiettare di qualche mitragliatrice. Enkli era come in trance, gettò la cartella dei libri in mano allo zio e come spinta da una forza sconosciuta, corse verso la nave, si arrampicò sulle corde, qualcuno la aiutò a salire e si trovò di colpo sul ponte a guardare la riva che si allontanava. Di colpo le prese la paura per quello che aveva fatto, mentre intorno le voci si rincorrevano, chi diceva che sarebbero andati al di là del mare e sarebbero stati messi in prigione o rimandati indietro, chi scrollava la testa, sicuro che la nave sarebbe approdata poco più in là a Valona e che sarebbero stati tutti fucilati, come accadeva normalmente a chi cercava di scappare dal paese. Nella notte non riusci a dormire, terrorizzata per quello che sarebbe potuto accadere ai suoi, per quello che lei aveva fatto e per il luogo sconosciuto dove sarebbe finita, ma tuttavia era ferma nella decisione presa e senza pentimenti. All'alba la nave era davanti ad una costa sconosciuta. Un'altra nave l'aveva affiancata ed i due scafi stavano immobili davanti alla riva. 

(continua)

Il porto di Durazzo


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