Il Tiger Nest |
I cavalli |
Che il Bhutan sia un luogo del cuore è un'affermazione che non lascia dubbi, difficile contestarla, ma non certo per tutta la fuffa che gli è stata creata intorno, paese della felicità interna lorda e altre belinate del genere. Sotto questo punto di vista anzi è come tutti gli altri posti, anzi, meglio chiarire subito che se hai il grano ci vai, se no non ti lasciano neanche passare il confine, tanto per capirci, altro che i soldi non danno la felicità. Ma i luoghi e la magia che li circonda quelli sì che sono un'altra cosa, il Tiger nest tanto per fare un esempio. Torno allora a quella mattina chiara. Si intuisce che il sole illuminerà presto tutta la valle e il verde scuro delle foreste, a poco a poco si schiarirà diventando trasparente e luminoso appena i raggi passeranno attraverso i rami più alti. L'aria è ancora fresca. Tohà è un bel bambino di otto anni con una felpetta piena di scritte, buttata di traverso. Sta seduto su una grande pietra quadrata vicino ad un gruppo di cavalli che pascola l'erba bassa nella radura infossata al limitare del bosco. Parte di qui la pista che porta al Taktsang Lhakhang, il monastero costruito tra le rocce, mille metri più in alto sulla montagna, chiamato, per la sua spettacolare posizione, il Nido della tigre. Sono più o meno tre ore di salita per gambe buone, quali sono quelle dei miei tre compari naturalmente, ma per degli otri rigonfi come me; trascinare 100 kg, più che meno, su questo sacro monte, potrebbe essere un esercizio fatale, sicuramente tragicomico oltre che inizio di una delle solite sofferenze terrificanti che mi impongo ogni volta, in cui casco reiteratamente con tutte le scarpe, anche se mi riprometto che sarà l'ultima e che la cosa non si ripeterà mai più. D'altra parte, vuoi mica perderti la perla del Bhutan, il luogo della meditazione di Padmasambava, dove la statua ospitata nel gompa principale ha parlato, manifestando la sua volontà di andare proprio in quel luogo e miracolosamente ci si è teletrasportata? Ma ci mancherebbe!
Tohà |
Inoltre sapete che, al giorno d'oggi, basta pagare e ti portano di peso anche in cima all'Everest o al Polo Sud, quindi coraggio, armiamoci e partite. Infatti i miei tre compari, bardati di tutto punto, si incamminano di buona voglia dietro Tashi, scomparendo subito tra le frasche, dove una serie di piccoli chorten segnalano l'inizio del cammino di penitenza. Io, precedentemente addestrato, inizio una breve trattativa con il padre del bimbo di cui sopra e finalmente, toltami la paura con 1000 Rupie, vengo lasciato nelle mani di Tohà, che aspetta pazientemente ridacchiando sulla sua pietra. Dopo che mi ha preso in consegna, andiamo verso il gruppetto di cavalli, che, capita l'antifona, facendo finta di niente, cercano di defilarsi, spostandosi verso il limitare del bosco. Di certo hanno notato subito con la coda dell'occhio tumido ma intelligente, la stazza del trasportando e paventano di essere prescelti per la corvé. Ma al dovere non si sfugge; Tohà con mossa lesta afferra una cavezza ed un riottoso cavallino, di minuscole proporzioni, viene prescelto alla bisogna. Si chiama Mindù e il mio duce mi assicura trattarsi di un ottimo destriero anche se apparentemente sembra un povero ronzino spelacchiato che, sbuffando, viene convinto a mettersi in posizione idonea affinché il cavaliere, utilizzando un apposito malfermo traliccio, gli si issi in groppa, con la grazia e la leggerezza proprie della libellula, come riuscirete ad immaginare.
Lungo la salita |
Dopo qualche ulteriore sbuffo, Mindù, trascinato da alcuni strattoni alla cavezza, si mette finalmente in moto e comincia l'ascesa attraverso un sentierino che si inerpica nella foresta. Mi sembra che arranchi con una certa fatica, ma tutto sommato, tagliando di traverso i tratti più ripidi ed evitando i gradini sulle erte che li fiancheggiano, ma procediamo lesti, grazie anche alla mia esperienza di consumato cavaliere che ne agevola la marcia con idonei movimenti di bacino. Dico consumato in quanto in un'altro dei miei precedenti equini, mi ero procurato una vistosa escoriazione proprio nel punto dove ci si appoggia alla sella a furia di strusciare su e giù, lungo il percorso tra le rocce che conduce a Petra. Ma erano altri tempi e mancava l'esperienza. E' ancora presto però, l'ora migliore per salire il monte evitando la calura del mezzodì e il piccolo Tohà trotterella tranquillo tirando l'equino verso il passo. Frequenta la terza classe elementare, dove studia anche l'inglese, ci tiene a ribadire, infatti si fa capire benissimo, ma adesso che c'è una settimana di vacanza per il grande Festival annuale, aiuta il papà con i turisti e intanto allena la lingua. Gli piacerebbe diventare guida da grande. Salire il monte è una passeggiata per lui, se la fa anche tre volte in un giorno, è abituato a camminare, per arrivare al villaggio della mamma si fa poi una ventina di chilometri a piedi attraverso un altro passo.
Il monastero |
Là vivono anche due sorelle e tre fratelli, lui invece sta col papà in un altro villaggio. Continua a darmi grandi assicurazioni sulle qualità di Mindù, docile e forte, d'altronde se lo ha scelto per me c'è di sicuro una ragione. Non è certo infido come gli asini, brutte bestie disubbidienti, lui da piccolo (perché adesso è grande?) si è preso un calcio da un asinaccio grande e grosso che, infingardo, ha aspettato che gli passasse dietro per tirarglielo apposta. Per questo odia gli asini e intanto dà una carezza sul muso di Mindù che sbuffa prima di tirarci su in un tratto particolarmente ripido. Il panorama è stupendo, ad ogni tornante, si apre una vista nuova sulla valle e sulle rocce a strapiombo delle montagne vicine. A metà della salita, il primo stop. Chissà quanto ci vorrà perché arrivino i miei soci. Intanto mi godo il panorama tra le bandiere che sventolano. Dopo pochi minuti arrivano tutti. Accidenti come avranno fatto a salire così in fretta? Delle macchine da guerra. Mah, ci sarà stata una scorciatoia. Un po' innervosito, riprendo la strada per il secondo step. Il sentiero diventa sempre più stretto e difficile. Il malefico equino sceglie sempre la rotta che lo porta sul limite dello strapiombo, appoggiando le zampette una dopo l'altra con attenzione maniacale, così almeno spero. Tohà invece con giusta scelta di tempi, mi comunica di fare molta attenzione, perché proprio in quella curva un turista americano distratto che faceva foto invece di tenersi bene, è caduto giù nel burrone, ma tranquilli, non è morto, si è solo sfigurato tutta la faccia, rompendosi la mandibola e tutti i denti. Un sacco di sangue dappertutto, ride, mentre mi abbarbico al pomello della sella. Un po' più avanti due australiani, sono stati sbalzati giù nel fosso, per fortuna era basso anche se pieno di rovi e si sono rotti solo un braccio e alcune costole, ma tranquillo, grazie a lui, non sto correndo pericoli di sorta. Sveglio l'ometto. Sia come sia, in qualche modo arriviamo allo stazzo dove finisce la strada dei cavalli, sani e salvi. Mancificato il ragazzino, dopo una robusta pacca sul groppone, Mindù si precipita a valle da solo tanto la strada la sa; Tohà, dopo un ultimo saluto con la mano, lo segue saltando da una roccia all'altra. Dopo pochi minuti arriva la mia compagnia. Accidenti che gambe! Appena passata una costa il Tiger Nest appare, al di là di uno stretto vallone, come appeso in alto tra rocce nere e strapiombanti. Che fregatura, siamo sì, ai 3100 metri di altezza previsti, ma per raggiungere il tempio ci sono ancora 700 gradini, metà per discendere ed attraversare la spaccatura e l'altra metà per risalirla.
L'ultima salita |
Li affrontiamo con santa dedizione, in fondo si tratta sempre di un pellegrinaggio. La spettacolarità delle viste, inganna comunque la fatica e in qualche modo si arriva, nonostante lancinanti dolori alle ginocchia, le cui cartilagini consunte sono ormai andate da tempo. Il tempio è piccolo e raccolto, in quattro livelli successivi. Anche se è stato ricostruito da poco, dopo l'incendio del '99, la costruzione sembra antichissima, con le sue travi annerite dal fumo delle lampade, con le sue statue dorate, avvolte dalle stoffe trasparenti, i damaschi colorati, i dipinti, gli affreschi con le divinità benevole e quelle terrifiche. Un vecchio monaco sta davanti alla statua principale, quella che è arrivata fin quassù per teletrasporto per intenderci (non teleferica eh, non fate gli spiritosi, non siete abbastanza olistici se non ci credete, come mi disse una volta un tale,mentre facevo le pulci ad altre credenze locali piuttosto fantasiose) e benedice chi arriva, guardandolo con occhi spenti, mentre le labbra mormorano sempre la stessa preghiera. La sciarpina di garza bianca viene posta anche sui nostri colli di infedeli, in fondo se siamo arrivati fino a lì, qualche cosa meritiamo, basta l'intenzione si direbbe, al più una piccola offerta. In verità il luogo è straordinariamente suggestivo, a strapiombo sulla valle, di fronte ad un cielo indaco dove passeggiano gli stessi sbuffi bianchi che ritrovi continuamente sulle tankhe appese alle pareti.
Punti di meditazione |
Un senso di pace, rotto solo dall'ansimare di chi arriva in cima alla gradinata, suono niente affatto gradevole perché ti ricorda che devi sobbarcarti ancora il ritorno. Rimarresti ancora a guardare la valle tra i fumi delle lampade a burro, tra il cigolare dei mulini di preghiera che mani instancabili continuano a far girare, mentre le bandierine sventolano con i bordi sfrangiati. Se c'è un posto dove la preghiera può salire al cielo senza ulteriori intermediazioni è questo. Ma comincia ad arrivare gente, aveva di certo ragione Tashi a raccomandarci di partire per tempo. Cominciamo il ritorno, incrociando frotte di gente che sale. Anziani camminatori che procedono in silenzio un passo dietro l'altro, gruppi di giapponesi in groppa a mandrie di cavalli legati assieme. Cerco di individuare Mindù, ma non lo vedo. Poveraccio, ma che se ne vada a piedi la gente, se no che sacrificio sarebbe, insomma, non vi pare? Va beh, dopo una breve sosta a mezzavia, con vista, thé caldo e biscotti al sapore di minestrone inclusi, si raggiunge il punto di partenza. Se guardi tra la cima degli alberi, le pareti bianche del monastero sono proprio lassù, dove pare impossibile arrivare. E' ora di tornare verso Paro. Sulla pietra di prima, Tohà è accoccolato come di primo mattino in attesa del suo pollo e ti fa un cenno di saluto con la mano. Di sicuro ci sarà ancora il tempo per acchiappare qualche altro turista.
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