giovedì 29 marzo 2012

Considerazioni sul Tai Ji Quan.

Questo blog, come sapete, è in linea teorica volto ad oriente. Mi piacerebbe quindi di tanto in tanto proporvi qualche osservazione sul Tai Ji Quan (o Tai Chi Chuan che dir si voglia) che oltre ad essere un'arte marziale che sta alla base di tutte le altre, è anche un sistema di esercizi altamente sofisticato, mirato verso la salute fisica e mentale. Pur essendo appassionato e praticando questa arte da ormai una decina di anni devo premettere che non ho titolo per insegnare alcunché, quindi riporterò in queste chiacchiere di  amatore, punti ricavati da dotte letture e insegnamenti di grandi maestri. Se qualcuno di voi, leggendo queste cose, verrà stimolato ad avvicinarsi alla pratica, sarà un grande successo per un blog di servizio. Vorrei intanto precisare che, benché il Tai Ji abbia  tra le sue finalità la lotta contro uno o più avversari, lo studio e la tecnica che si acquisisce sono basati sul principio taoista della non-aggressione, della non-violenza, della non-resistenza e non-opposizione allo scopo di vincere la forza con la morbidezza. 

Tutto questo porta come conseguenza una ricaduta di benessere, sulla salute fisica e psichica dei praticanti, migliorandone particolarmente l'equilibrio. Vi segnalo ad esempio questo interessante studio del New england journal of medicine, Tai chi and postural stability in patients with Parkinson's disease, da cui si evidenziano miglioramenti significativi in questi pazienti in cui la capacità di equilibrio è particolarmente messa a prova. Altri studi medici confermano una drastica diminuzione delle cadute con fratture in praticanti over 70. Credo che ce ne sia quantomeno da porgere attenzione alla cosa. Mi limiterei per il momento ad esaminare alcuni movimenti utilizzati nelle forme del Tai Ji tentando di capire cosa c'è al di sotto di quello che potrebbe apparire come un semplice gesto fisico. 

Comincerei dal movimento iniziale di tutte le forme di Tai Ji: QĬ SHÌ .Questo movimento all'apparenza semplicissimo prepara alla concentrazione della mente per stabilire uno stato d'animo utile allo scopo dell'esercizio con un uso cosciente della mente diretta a tutti i movimenti del corpo successivi. Per questo ogni forma del Tai Ji comincia con questa semplice tecnica. La posizione è eretta, portare i piedi leggermente aperti e paralleli alla distanza delle spalle. Le braccia, distese lungo il corpo con le mani all'altezza delle cosce. Portare i palmi aperti rivolti al pavimento. La testa e il collo sono eretti, ma in tutto il corpo non deve esserci rigidità o tensione. Spalle abbassate e gomiti leggermente piegati. Sollevare lentamente le mani avanti fino all'altezza delle spalle, palmi rivolti in basso, fino a portare le dita leggermente più alte e sciolte, gomiti leggermente piegati verso il basso. Poi lasciando il torso eretto piegare leggermente le ginocchia gradualmente e allo stesso tempo abbassare le mani a livello del ventre. Punto di equilibrio centrale. Lo sguardo è rivolto in avanti verso un punto indefinito. Rilassare il petto rafforzando la posizione della schiena senza ingobbirsi. 

Durante lo svolgimento di questo primo semplice movimento, il corpo deve rimanere in uno stato di quiete e la mente concentrarsi enfatizzando un senso di vuoto. La respirazione (inspirazione durante il sollevarsi delle braccia ed espirazione durante l'abbassamento) si abbassa sotto l'ombelico. L'intero corpo deve rimanere vigile ma naturale e rilassato. Il beneficio dell'esercizio consiste nel portare l'attenzione della mente sui movimenti, distogliendola da altri pensieri, rilassando il corpo in maniera naturale. Ristora organi e muscoli esterni nella loro posizione propria. Tutto questo migliora l'armonia generale, rinvigorisce lo spirito e tonifica il sistema nervoso. Tutta fuffa? Mah, intanto è un esercizio fisico praticato da secoli, di certo non guarisce le malattie, però predispone il corpo ad uno stato generale di salute fisica e mentale che potrebbe, in parte certo, prevenirle. Fatemi sapere se l'argomento vi interessa, magari andiamo avanti. Per maggiore chiarimento guardatevi il video seguente che mostra la forma 24 stile Yang. Il movimento di cui abbiamo parlato oggi è il primo dei 24 della forma.

Refoli spiranti da: Fundamental of Tai Ji Quan - Wen Shan Huang - S.Sky Book Co - Honk Kong -1973
Kung Fu and Tai Ji  Bruce Tegner -Bantam book - USA - 1968



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mercoledì 28 marzo 2012

Eunuchi e concubine.

La bramosia di potere è la stessa sotto tutte le bandiere e tutti i soli. L'uomo è disposto a tutto per esercitare la sua volontà meglio se in maniera sfrenata e questo gli da un piacere superiore ad ogni altro e non sto a sottolineare il famoso proverbio siciliano. Non credo che sia una questione di testosterone, anche perché questa bramosia si ritrova tale e quale anche nell'altra metà del cielo, basta che ne abbia l'opportunità. Forse è per questo che l'uomo ha sempre utilizzato metodologie oppressive verso l'altro sesso, partendo dall'educazione fino ad ideare sistemi discriminatori a volte sottili ma efficaci. E' sempre per levarsi una buona metà di concorrenti, spesso i migliori. E' di questi giorni la notizia (riportata da ParteCinesePartenopeo, un blog informatissimo sula vita cinese che vi consiglio) che in quel paese, rilevato il fatto che ai difficilissimi esami di ammissione alle università, che continuano in questo modo la tradizione confuciana, passano ormai oltre il 70% di donne. Il partito sta quindi esaminando seriamente la possibilità di fare esami separati con test più semplificati per i maschi, al fine di riportare ad una più consona armonia questa situazione pericolosa, che potremmo definire come una discriminazione intellettiva. 

Paese curioso il Regno di Mezzo, non trovate? D'altra parte anche in passato possiamo trovare testimonianze curiose riguardanti la brama di potere, da quelle parti. Ad esempio è sempre stato noto che nell'harem imperiale si giocava una dura partita tra le prescelte per esercitare una pressione fondamentale sui deboli imperatori, così sensibili alle grazie femminili da farsi dettare buona parte dell'agenda politica dalla favorita di turno. Le concubine imperiali hanno sempre svolto un ruolo chiave nella politica cinese (forse non solo laggiù, direbbe qualcuno). spesso appoggiandosi al partito degli eunuchi. Ebbene, pare che molti uomini facessero a gara per entrare nel novero degli eunuchi di corte, ricorrendo volontariamente alla castrazione pur di poter far parte di quella casta potentissima che fungeva in effetti da trait-d'union tra le concubine ed il sovrano. Se questa non è una dimostrazione lampante che cumannari è 'mmegghiu ca fottiri, non saprei quale altra. Chi sa se anche da noi si ponesse questa condizione per poter entrare in parlamento, forse, parlando di diminuzione della spesa pubblica, si eviterebbero molte spese accessorie.


Refoli spiranti da:  C. Leed - Storia dell'amore in Cina - SEA -1966


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Per un amico triste.

martedì 27 marzo 2012

Mutande di lana.

Beh, dai ragazzi, ormai è scoppiata la primavera, alberi in fiore dappertutto e, cosa rimarchevole sotto ogni aspetto, non fa più freddo. Stamattina, mentre di buon ora, verso le 9 e mezzo, me ne andavo a zonzo a tentare inutilmente di fare qualche commissione, c'era un alito tiepido nell'aria che ti levava anche la voglia di litigare con quel disgraziato che deve stare tutto il giorno allo sportello a prendersi contumelie a causa di una burocrazia di cui non è responsabile, ma come si dice, utilizzatore finale. Si sta proprio bene, col sole ancora lieve e non aggressivo che scalda senza bruciare e il profumo dei fiori nell'aria. In Giappone è il tempo della fioritura dei ciliegi, che ci frega dello spread. Dice, ma che fai, parli del tempo come gli inglesi, tanto per allungare il brodo quando non si sa che cosa dire? Anche, ma il fatto è che mi è venuto in mette che quando cominciava questa stagione e si cominciava a sentire il calore della primavera inoltrata, mio papà si levava le mutante lunghe di lana. Ma sì, io appartengo ad una generazione che, anche se si è sempre rifiutata di usarle, per lo meno lo ha visto, questo fantomatico indumento del passato. 

Facente coppia con l'altra famigerata compagna, la maglia di lana, quella che rappresentava un vero e proprio cilicio medioevale, ruvida ed insopportabile sulla mia pelle tenerella di bimbo, era un indumento dello stesso materiale, ruvido, grezzo e caldissimo che arrivava fino alle caviglie e le cui estremità inferiori venivano infilate direttamente nelle calze per evitare eventuali pericolosi spifferi. Ragazzi, allora faceva un freddo cane d'inverno, altro che questo fine gennaio, quando per pochi gradi sotto zero, la gente sembrava che morisse surgelata (io comunque ho pensato bene di starmene al calduccio in Laos, come ben sapete). Il mio papà le calzava con aria furba verso l'inizio di novembre e per la verità se le teneva anche fino alla fine di aprile, fedele al proverbio:"aprile non ti scoprire" e si faceva beffe di me che preferivo patire il freddo.  Per la verità lui giustificava questo stile di vita col fatto che facendo i turni di notte su una cabina della ferrovia, esposta al gelo notturno e riscaldata solo da una stufetta a carbone, arroventata, su cui mi scottai pure un dito quando fui portato a "vedere i treni", aveva necessità di essere ben coperto durante il gelido inverno che a quei tempi imperversava nella tundra alessandrina. 

Tuttavia mi sembra che quando arrivava la stagione buona, mia mamma continuasse a dirgli, ma quando è che ti togli le mutande di lana, e lui rimandava col fare di chi pensa, ma perché devo patire il freddo inutilmente. Questa abitudine però se la portò dietro anche fino alla tarda età, quando la cabina da deviatore di treni (anzi Capo-deviatore, lui ci teneva molto), l'aveva lasciata da un pezzo. Ma si sa gli anziani hanno sempre freddo. Questo un po' mi consola, perché io, ancora non lo patisco molto. Certo era una stile di vita che riguardava solo gli uomini, in quanto le donne, che evidentemente hanno una pellaccia assai più resistente (appartengono ad una specie diversa in effetti), non hanno mai usato questo indumento; anzi allora non portavano neppure i pantaloni e la mia mamma se ne andava per tutto l'inverno con le sue gonnelline svolazzanti  e le calze di naylon leggere con la riga dietro, grande conquista del dopoguerra da esibire con orgoglio. Com'era bella la mia mamma quando mi portava all'asilo tenendo me per una mano e il panierino di vimini della colazione su cui aveva ricamato due ciliegie nell'altra. Era davvero la più bella di tutte. Poi, saranno stati gli inverni più miti, ma le mutande lunghe di lana se ne sono andate nel dimenticatoio assieme a tante altre cose. 

Non me le ricordavo quasi più quando d'improvviso le ho ritrovate nei miei primi anni di lavoro a Pechino. Inverni gelidi e riscaldamenti approssimativi laggiù, come sulla cabina dei deviatori. Così ecco il mio amico Ping che, nelle camerucce di alberghi di provincia, togliendosi i pantaloni, esibiva magnifiche mutande di lana, fino alle caviglie. Quando venivamo ricevuti in qualche fabbrichetta di paese poi, ecco il direttore della brigata che arrivava trafelato, attraverso il cortile pieno di neve, si sedeva, nel salone gelido e non riscaldato, sulle poltrone sbocconcellate, con la plastica sdrucita sugli spigoli, stringendo tra le mani coperte dai mezzi guanti, una tazza di thé bollente per scaldarsi almeno un po'. Buttavo l'occhio smaliziato e da sotto i pantalonacci pesanti, sporchi di fango o di letame, spuntavano sempre, civettuoli i bordi di lana spessa, a volte a coste larghe, delle mutandone lunghe fatte a mano da mogli amorevoli o forse dalle addette della comune. Mi sa che i tempi cono cambiati anche da quelle parti adesso che il tizio che ti veniva a prendere alla stazione in bicicletta adesso viaggia in Audi 6. Però devo chiedere a Ping che fine avranno fatto tutte quelle mutande di lana. Forse adesso comincia a far caldo anche là.


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lunedì 26 marzo 2012

Anche le macchine hanno un cuore?

Con l'avanzare dell'età, dovrebbe essere un comune sentire, l'aumento del distacco dalle cose. Sembrerebbe più naturale porre sempre maggiore attenzione alle sensazioni, al mutare dei sentimenti, all'arricchimento del cuore e della mente. Poi capita che ti telefoni il fotoriparatore a cui hai affidato la macchina fotografica che per scimunita goffaggine hai trascinato a bagno assieme alla tua orgogliosa sicumera, dandoti la ferale notizia che l'ammalata che pareva non così grave, è invece passata definitivamente a miglior vita e precipiti nello sconforto più totale. Direte, per forza, il tormento viene dal fatto che se vuoi continuare a fare inutili scatti con cui vellicare il tuo amor proprio di creativo, dovrai mettere mano al portafoglio e invece no, non si tratta solo di questo. E' un dispiacere più profondo e difficilmente spiegabile. Naturalmente mi sono subito precipitato al capezzale della supposta moribonda su cui le acque apparentemente limpide ed azzurre del Nam Ou, in realtà rese pesantemente ambrate e niente affatto trasparenti da sospensioni fangose di varia provenienza, la dura realtà essendo sempre assai lontana dai voli pindarici della fantasia, avevano operato la loro proditoria ed infingarda azione divoratrice e come si sa, l'elettronica è così sensibile, specialmente all'umidità, figuriamoci all'acqua, quasi come una pallida signorina inglese dai polmoni deboli, in cura sulla Cote d'Azur. 

Quando sono arrivato, cercando di trattenere un respiro affannato ed ansioso, l'uomo in camice bianco, con un accenno di sorriso sconsolato di routine, mi ha subito messo davanti alla realtà per dura che fosse, con la durezza del medico abituato a trattare coi parenti del malato terminale. Era là, non già in un candido lettuccio di ospedale, ma sul duro e freddo bancone dell'obitorio. Aperta completamente, come si confà dopo ogni autopsia, il dorso riverso da un lato, le schede staccate con i contatti beanti e arricciati, rivolti all'aria in un disperato tentativo di connessione, i circuiti ormai spenti, la bocca priva di obiettivo, spalancata in un verso doloroso. Mi ha reso edotto, certo, di tutti i tentativi di salvataggio in extremis, di come tutti si erano prodigati a pulire, nettare, ricoprire ogni polo di una sottile patita antiossidante per tentare di richiamare in vita quella che solo in apparenza pareva addormentata in un sonno profondo. Il coma era ormai irreversibile, neppure la sostituzione di qualche parte vitale sarebbe stata sufficiente, bisognava rassegnarsi. Certamente è stata una stretta al cuore, perché ancora ci speravo. Per l'obiettivo no, questo era stato subito dato per spacciato. Tutto tronfio ed eretto con la sua sicumera falliforme, si supponeva che fosse in effetti l'anello più debole della coppia, destinato a crollare alla prima prova difficile, così delicato e sensibile come tutti i maschi, tanto prepotente e gonfio di sé stesso, quanto debole e caduco alla prima difficoltà o spento e affannato dopo aver esaurito in un attimo tutta la sua finalità produttiva, ma lei no, così pronta a recepire e comprendere le immagini che la circondavano. 

Così abile nell'elaborarle e far nascere dentro di sé quel miracolo di informazioni che davano vita a linee, colori, emozioni. Apparentemente fragile era in realtà dura e resistente anche ai colpi ed alle avversità che la vita le aveva proposto, non per niente aveva il corpo di titanio. Invece è bastato l'umido soffio putrescente dell'Indocina, qualche piccola goccia di umore malsano e l'afflato vitale si è spento, la scintilla elettronica si è fermata, il corpo immobile, lo schermo annerito. Mi sono staccato a fatica dal cadavere ormai freddo e necrotico, inutilmente consolato dal cerusico che con sguardo avido mi ha proposto subito soluzioni innovative e mirabolanti, oltre tutto assolutamente convenienti, stropicciandosi le mani adunche. Uomo senza cuore, impermeabile ai sentimenti e aduso solo a battere i tasti della calcolatrice per trasformare il dolore in cifre. Rimaneva solo da compiere l'ultimo gesto di amore, firmare per permettere il prelievo dei pochi organi ancora utilizzabili, utili forse a salvare qualche altra malata, meno grave e per questo non destinata allo spegnimento prematuro. Tra l'altro mi ha scalato 40 euro dal nuovo balocco, chiuso nella sua scatola dorata e lucida con cui mi sono allontanato nella notte come un ladro traditore, ansioso di metterne alla prova la passionalità. 


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venerdì 23 marzo 2012

Una notte a Bahrein.

Gli spazi di attesa degli aeroporti sono uno dei non-luoghi della vita. Aree immense dove il tempo rimane cristallizzato nell'attesa. C'è chi si organizza naturalmente, il grande manager non perde tempo e alacre lavora al suo PC o meglio al tablet i-qualcosa; i viaggiatori vecchio stampo, cariatidi del passato, hanno generalmente un libro in mano; gli uomini d'affari, al fianco la 48 ore nera colma di contratti da definire. Anche gli stuoli di bambini vocianti che popolano altri spazi topici, paiono qui come attutiti da una atmosfera di limbo sospeso, scandito dalle voci robotiche ma vellutate degli annunci continui. Chi dorme coricato, seduto o sdraiato e sfatto dalle attese; chi si aggira famelico per non perdere le strepitose ed inderogabili offerte del Duty Free; chi guarda i negozi più smagato e con aria di sufficienza del frequent flyer. Rimane comunque un luogo dove puoi osservare tipologie di personaggi non comuni, anzi suggerisco questa attività osservativa come una delle più interessanti per far trascorrere quelle ore interminabili (l'aeroporto è appunto uno spazio-tempo dove la curvatura dello spazio fa trascorrere i minuti molto più lentamente che altrove). Alcuni sono più asettici e lasciano meno spazio alla fantasia, altri, che aggiungono magari un tocco di esotico o di insolito, rimangono ideali per scovare quadri particolari e ricamarci su vicende e storie. 

Uno di questi è l'aeroporto di  Bahrein. E' un po' periferico rispetto ai colossi degli Emirati vicini, quindi mantiene quel misto di internazionalità moderna e smaccata, unita all'atmosfera mediorientale ed esotica del Golfo. Al di là delle vetrate, anche se stai infagottato per ripararti dall'aria condizionata polare, senti ugualmente o per lo meno immagini il soffio caldo del deserto, il mare ribollente ma immobile, solcato da pirati e petroliere, i fermenti di un malessere non passeggero che serpeggia come un virus aggressivo e forse letale. La notte sembra non esistere come in tutti gli aeroporti del mondo, ma qui i grandi spazi espositivi dei negozi paiono più assonnati del solito, gli addetti meno mobili, mentre le vetrinette stentano ad aprirsi. Qualche richiamo, qua e là sulle pareti, alla costa delle perle, poi il consueto occhieggiare di marchi ammiccanti ed esclusivi, l'esibirsi di merci così lussuose che si vedono solo sui fogli più patinati di riviste ancor più esclusive. E la gente che si aggira lenta tra gli espositori retroilluminati, è anch'essa particolare, diversa. Ecco laggiù un gigantesco africano con un colorato vestito tradizionale che la borsa di pelle fine e i gemelli preziosi che spiccano sulla manica della camicia che fuoriesce dalla galabeya, tradiscono come un qualche plenipotenziario inviato a fantomatici congressi di importanza vitale per le sue tasche capaci e rapaci. 

Rimane a lungo immobile davanti ad una sfilata di orologi preziosi dai prezzi a 5 cifre, che guarda con l'occhio attento del conoscitore, forse almanaccando come investire la prossima tangente. Ad un tavolino di un bar esclusivo, due uomini in scuro elegante parlano a voce bassa. Uno è indiano con lunghe basette e folti baffoni grigi, l'altro, europeo, consulta con aria distaccata una brochure patinata, come indeciso se comprare o meno. Il primo continua a parlare con voce suadente, melliflua. Di certo gli illustra i vantaggi innegabili di un'offerta che non si può rifiutare, capirà, son venuto apposta senza trascorrere il Diwali in famiglia, pensi a come ci tenevo ad incontrarla. Dalle scale mobili, un anziano piccolo e grasso guida un piccolo corteo di donne velate, tutte più grasse di lui ed un cospicuo numero accessorio di bambini muti ed indecifrabili, che spingono carrelli sormontati da bagagli di proporzioni da esodo. La processione si avvia di buon passo verso il gate per Sana'a, ultima chiamata. Poi d'un tratto, come se i non molti personaggi che popolano la notte si fossero smaterializzati, confondendosi mescolati ai colori delle pareti, ecco arrivare una coppia che, pur senza apparire, fa il vuoto intorno a sé. Sono entrambi altissimi e camminano come fossero unici, alieni in un mondo di nani, di servi, di gente inferiore. Lui magro e slanciato, di cui si indovina comunque un corpo sano e sportivo sotto la tunica così bianca ed immacolata da non riuscire a strisciare per terra per l'orrore di lordarne i bordi. 

Una kefiah altrettanto candida ben fermata dal doppio cordone corvino e quasi lucido, dai nodi ben formati, incornicia un volto nobile, con un accenno di barba non curata ma curatissima. Un naso nobile sostiene dei rayban a specchio a nascondere uno sguardo che non si posa su nulla, sfiora soltanto le cose perché nessuna è abbastanza importante. Il braccio destro giace disteso lungo il corpo, non riesce neppure a sollevarsi per il peso del Rolex d'oro e diamanti. Mani curate, lunghe e sottili. La sinistra tiene leggera quella di lei, la Principessa delle Mille e una notte. La sua tunica, nera giaietto, preziosa col suo finissimo bordino d'oro, non riesce a nascondere il tacco 12 a stiletto rosso fuoco che compare e sparisce ad ogni passo, fasciando un corpo che indovini dal movimento, flessuoso e felino, che si nasconde con una malizia carica di mille promesse segrete. Un severissimo niqab, nero anch'esso bordato d'oro, le copre completamente il capo ed il volto, di certo bellissimo, con la parte anteriore quasi sospesa su un naso altero, irridente, coscio della propria bellezza segreta. Poi dalla sottilissima striscia lasciata scoperta ecco emergere due incredibili occhi fatati, che le spesse righe nere del kajal rendono ancor più vivi e penetranti, bellissimi, due pupille di carbone ardente che lasciano sguardi illanguiditi su un mondo inferiore, indegno di essere valutato. L'enorme borsa Luis Vitton nasconde a malapena i pacchetti marchiati Hermes, Bulgari e Prada. Poi la visione scompare tra sentori di sandalo, patchouli e cinammomo. Ecco, chiamano il mio volo.



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giovedì 22 marzo 2012

Yuē.

Non sentivate un po' di mancanza di qualche ragionamento sui nostri amati ideogrammi cinesi? Dopo avervi ubriacati così a lungo di Indocina torniamo dunque sui sentieri antichi, con uno dei caratteri più semplici e più usati nella lingua del Regno di mezzo. Ecco infatti il nostro Yuē - 曰 ,Dire, verbo di uso comune che rappresenta una evoluzione del già conosciuto  口 - kǒu, Bocca. Infatti al nostro segno quadrato che mostra la bocca spalancata viene aggiunto soltanto una lineetta interna a mostrare la lingua che si muove e quindi pronuncia delle parole. Ma vediamo come per arricchire di sfumature la lingua, sia sufficiente aggiungere definizione al segno. Infatti aggiungendo l'ideogramma di mendicante (uomo davanti alla porta) sotto al nostro Dire otteniamo Chiedere a bassa voce, come fa appunto il bisognoso di porta in porta. Se aggiungiamo ancora a fianco un'altra bocca spalancata otteniamo  - hè   Gridare, che mi sembra assolutamente consequenziale. Ma se invece che pronunciare con il quarto tono, che è sempre un po' secco ed esplosivo, lo stesso carattere viene pronunciato con il primo tono,  hē,  più piano ed allungato, il significato cambia completamente e vale : Bere.

Forse perché se un questuante chiede a bocca aperta, a furia di gridare gli verrà anche sete. Misteri della lingua. Se a Dire, invece sovrapponiamo il segno Piacevole otteniamo 甘 - gān,  col significato di Dolce. Nulla di più emblematico dello zucchero sulle labbra per indicare il più piacevole dei gusti, anche in senso figurato. Ma vediamo cosa succede se raddoppiamo il carattere, sovrapponendolo ad una copia di sé stesso, ma più grande e ciccio. Otteniamo 昌 - chāng,  che significa appunto, Fiorente, rigonfio, prosperoso, con la ridondanza esibita del segno delle due bocche. Par di vedere due coppie di bei labbroni a canotto, che vanno tanto di moda dalle nostre parti ultimamente. E già, perché se arricchiamo ulteriormente questo segno con il ben noto carattere di 女- Donna, otteniamo il popolaresco e assai volgare 娼 - chāng, che si pronuncia esattamente allo stesso modo e vuol dire appunto Puttanone. In Cina si associava questa icona di procacità esibita proprio al mestiere più antico del mondo che era naturalmente assai praticato anche da quelle parti, come racconta più volte Marco Polo. La bellezza femminile, dunque, secondo i cinesi, non va mai troppo esibita se non vuole diventare subito volgare. Meditate fanciulle, meditate.


Refoli spiranti da: E. Fazzioli - Caratteri cinesi - Ed. Mondadori


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Xin



mercoledì 21 marzo 2012

Cronache di Surakhis 47: La flessibilità in uscita.

La notte era definitivamente scesa e le ultime lune erano sorte dietro le Fragrant Hills di Novigorad. Gli abitanti erano ormai tutti rientrati nelle caverne scavate nella spazzatura, che con la sua fermentazione garantiva anche un calore accettabile, oltre ad un percolato che ormai molti bevevano per sprofondare nel sonno con la mente sgombra da pensieri. Aveva un sapore forte, ma gustoso, come di pesce marcio e con rapidità ottundeva la mente, impedendo i ragionamenti troppo complessi. Da quando era stato deposto l'Imperatore lungocrinito, rifugiatosi, dopo l'ennesima cura di ringiovanimento,. in una delle sue case- postribolo dove trascorreva le giornate selezionando le ragazze, il pianeta aveva compiuto una sterzata decisa. Il nuovo Primo Ministro Shan Men andava diritto per la sua strada ed i provvedimenti avevano mutato un poco lo stile di vita di Surakhis. L'innalzamento della pressione fiscale al 99% era stata sì giudicata un po' eccessiva da molti commentatori economici, ma sul piano pratico si era avvertita una scossa sui mercati finanziari di tutta la galassia e gli investitori stavano cominciando a ricomprare buoni-schiavo a piene mani. 

Anche lo spread tra il costo di una buona prestazione sessuale di una plurivaginata Vegana ed una ciucciatrice locale era sceso a livelli accettabili. In serata poi era passato anche il provvedimento della ministra Forblack che garantiva una maggiore flessibilità in uscita dal lavoro, imponendo agli schiavi che passavano nelle cosiddette stanze di compensazione sodomitica a fine turno, una posizione di almeno 90 gradi per consentire ai macropenici incaricati una più facile estrazione. La mancanza di flessibilità, questo era sempre stato rimproverato a quei caproni di Keepintheass che pretendevano di svolgere la pratica stando in piedi per accelerare, non capendo che una più acconcia posizione avrebbe favorito la tendenza ad avere anche una maggiore flessibilità nell'introduzione, cosa sempre un po' dolorosa e difficile data la dimensione degli organi sessuali degli addetti alla funzione. Anche la concessione ai proprietari delle miniere di poter abbattere gli schiavi in eccesso o nullafacenti, direttamente nei tunnel, avrebbe incentivato a nuove assunzioni e già le agenzie di recupero crediti stavano girando nei suburbi a prelevare nuovi schiavi nelle famiglie indietro col pagamento delle rate. 

Tutti sembravano contenti insomma, in fondo anche lo schiavo ci gode un po' e si rilassa in quella piccola cerimonia al termine delle 24 ore di lavoro e con un po' di sale sulla coda evita di impigrirsi in fondo ai tunnel manovrando i martelli pneumatici con maggiore gioia e soddisfazione se sa che ad ogni spegnimento volontario, partirà una scossetta da 40.000 Volt. Fuori, i cortei dei Morigeratores avevano fatto una dimostrazione di facciata, tanto perché non si dicesse che non pensavano ai lavoratori, ma si erano subito dispersi nelle case di piacere lungo la via principale, che avevano ottenuto la liberalizzazione di tenere aperto 24 ore su 24. In realtà invece un forte fermento percorreva la classe politica che, anche se temporaneamente messa da parte dal decisionismo di Shan Men, mordeva il freno e pensava alle elezioni imminenti. Paularius, da settimane lavorava per l'Imperatore che, fingendo di occuparsi solo della sua squadra di pallacorda, nei momenti che la selezione delle ragazze gli lasciava liberi, stava preparando il suo ritorno alla grande. 

Correva voce di una dispensa speciale per far votare, con un numero di voti a piacere, tutti i politici che una ventata di assurdo moralismo aveva condotto in massa alle prigioni centrali, con la scusa che rubavano. Una specie di bonus carcerario.E cosa mai avrebbero dovuto fare i politici, occuparsi soltanto di trombarsi le Aspiranti (così chiamate per la loro caratteristica in cui erano maggiormente dotate) che volevano entrare nel giro? Quello era certo un benefit gradito, ma assolutamente accessorio. Appositi galoppini distribuivano ai capifamiglia blocchetti di buoni-sesso liberamente spendibili in ogni casa chiusa del paese e le promesse di poter rubacchiare più tranquillamente si sprecavano. Libera tangente in libero stato era lo slogan che correva su tutte le bocche. Presto ci sarebbero state le elezioni ed allora Paularius era tranquillo che la politica sarebbe ritornata ad avere la preminenza. Si aggiustò meglio sulla morbida poltrona di pelliccia pubica e diede le ultime disposizioni ai suoi Sardar perché vaporizzassero rapidamente quei gruppetti di dissidenti che ancora circolavano liberi e si addormentò coccolato dalla Personal Fellatrix che si prendeva cura dei suoi momenti di relax. Sprofondò nel sonno del giusto sognando il momento in cui il Prof e la sua canea di sapientoni (figuriamoci, tutta gente che diceva di saper leggere e scrivere) sarebbero tornati a rigovernare gli stabulacri da dove il Novigoradese li aveva improvvidamente pescati.

martedì 20 marzo 2012

Recensione: L. Troisio - Nuvole di drago.


Al termine del mio report di viaggio laotiano, voglio proporvi un libro, Nuvole di Drago E. Il foglio - 2009, che mi è parso davvero interessante e che non mancherà di accalappiare l'attenzione di quanti di voi, viaggiatori e aspiranti tali, mi seguono sui terreni del desiderio di comprendere quanto sta al di là delle barriere mentali che ci andiamo precostituendo. Il libro non è altro che un insieme di diari di viaggio e di riflessioni su questi argomenti, che l'autore, Luciano Troisio, globtrotter flaneur, che ho avuto l'onore di conoscere personalmente proprio, come si suol dire, in loco, ha raccolto attorno ad alcuni suoi vagabondaggi asiatici e che dedica "agli estranei che in viaggio mi hanno costretto a condividere tramonti". Da qui potete capire come il racconto si dipani divertente e comunque ricco di informazioni, con la graffiante ironia che gli è congeniale attraverso tutto quell'estremo Oriente che, pur con critica talvolta feroce,  lo attrae in maniera irresistibile, quasi obbligandolo ogni anno a tornare per lunghi mesi, sul "luogo del delitto", spostandosi con mezzi locali, sacco in spalla come quei tanti ragazzi che percorrono queste strade del mondo, che lui ormai pensionato ultrasettantenne, a volte irride, altre forse un po' invidia, guardandoli come un osservatore attento e disincantato, dal sellino della sua moto, con il casco slacciato. 

Non mancano i riferimenti al periodo degli anni in cui ha insegnato all'università di Shang Hai, con una illustrazione puntuale della Cina così diversa di quegli anni lontani, che lo hanno visto protagonista e spettatore dei fatti di Tien An Men, dei quali promette sempre di pubblicare prima o poi, una versione dei fatti ricca di particolari visti dall'interno, che aspetto con interesse. A chi segue i miei racconti di viaggio, piacerà sicuramente accompagnare il professore di Padova in giro per questa Asia lontana. Sedersi con lui nei bar ad osservare la fauna di locali e di stranieri che li popolano, per evidenziarne con un sarcasmo graffiante e a volte cinico e pungente, le caratteristiche più risibili nelle situazioni più curiose e divertenti. (per chi è interessato al volume, scrivere a : lupi@infol.it ).Dello stesso autore, che qualcuno definirebbe "uomo dal multiforme ingegno" ho letto anche due delle sue fatiche nel campo della poesia, Parnaso d'Oriente - Marsilio Elleffe ed. - 2004 dove raccoglie lavori a partire dal 1987, anno in cui comincia la sua peregrinazione asiatica, con una sezione in cui raccoglie traduzioni di  delicati versi di eleganti poetesse cinesi e  Papera omnia - Panda ed. .- 2010 con divertenti illustrazioni di Albino Palma, dove, per sua stessa ammissione raccoglie "poesie rimaste melanconicamente inedite perché considerate cascame di insufficiente decoro". Invitandovi quindi alla lettura, vi lascio con due esempi della sua ricerca.

Lo stillicidio della vita.

No way.

Sempiterno goccia lo sciacquone
sottopone all'asiatico supplizio della goccia
politamente il sovrintendente
ammette sconosciuta soluzione.
Esistenza breve resistenza.

Per trend di sopravvivenza
piombasi la porta
accendesi air conditio,
tv e il resto,
si tappano le orecchie con la cera.

(Forse il concetto
di Nirvana
è questo).                                                             Vientiane, 2007


Tre tè nel deserto

Con la pazienza tutto si addolcisce
anche la prima stilettata la prima umiliazione
è più repentina della seconda
la trafittura più ricca
di rapide riflessioni interlocutorie
perché uno non si rende conto subito
d'essere fottuto.

come il beduino
che nel deserto beve
quella sua sua ciofega di tè
lentamente, e giunto
al terzo bicchierino

già gli sembra
soltanto
una mezza
ciofega.                                                                Hué,  2007




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lunedì 19 marzo 2012

Lettere dal Laos 27: Ma quando si mangia?

Mangiatori di foe.
Spiccioli di cucina laotiana.

Peperoncini piccanti.
Maiale.
In queste pillole di impressioni che vi ho somministrato nell'ultimo mese e da cui spero traspaia la piacevolezza di questo paese che invito tutti a visitare almeno una volta nella vita, avrete di certo notato la mancanza di cenni concreti all'aspetto culinario, che, come qualcuno spesso mi rimprovera, non è secondario nelle mie chiacchierate. Colmiamo dunque questa lacuna, con un tour gastronomico a vol d'uccello, come al solito frettoloso e non esaustivo, ma da noi pressapochisti non potete pretendere di più. L'essenziale è darvi un'idea che vi stimoli ad approfondire da soli. Dunque che si mangia in Laos? Come potrete immaginare, la cucina del paese è fortemente influenzata da quella dei vicini che culturalmente hanno da sempre condizionato la cultura laotiana, Thailandia, Vietnam e Cina. 

Noodles e germogli di soya.
Riso fritto e verdure.
Quindi troverete di volta in volta sapori e piatti assai vicini a questi schemi. Ma andiamo con ordine. A colazione affronterete nella maggioranza dei casi la classica zuppa di noodles di riso più o meno piccante (foe), con verdure abbondanti e ritagli di pollo o altre carni. In alternativa uova e frittate, unite alla presenza di baguettes calde alla francese (deliziose). Passando ai pasti principali, considerate che il componente principe rimane comunque il riso, sia bollito, bianco che servirà da base per accompagnare gli altri cibi e salse, che fritto, con aggiunta di uova, verdure e carni, alla cinese (che noi conosciamo erroneamente sotto la voce riso alla cantonese). 

Sticky  rice.
Pesce stufato del Mekong.
Largamente usato il riso glutinoso per ottenere lo sticky rice, cotto a vapore e usato sempre come accompagnamento sotto forma di una quasi pasta collosa mantenuta negli appositi contenitori di vimini. Per quanto riguarda i piatti principali, oltre ai noodles bianchi o gialli, sottili o larghi, passati al wok con verdure o carni, considerate di trovare facilmente pollo, maiale o pesce al BBQ precedentemente marinati in salsa, con cui togliervi la fame comunque, se non vi adatterete ai sapori locali. Una notazione di servizio sul pesce in generale: ricordate che si tratta di pesce dal gusto un po' fangoso che proviene da fiumi che a monte hanno visto 2/300 milioni di persone tra cinesi, birmani e thailandesi, tanto per dire. Uno dei piatti tipici da provare è il Laap sistema di cottura in cui un tipo di carne (pollo, maiale, pesce o altro) viene tritato finemente e insaporito con lime, menta, chilly e aglio da accompagnare con palline di stiky rice

Insalata di papaya.
Zenzero.
Altra specialità molto speziata è il Tam som (papaya salad) o meglio Tam Mak Kung in laotiano, una insalata ottenuta con un pesto di papaya verde e i sapori di cui sopra, che troverete estremamente aggressiva. Le Naem khao sono invece palline di riso fritto mescolate a maiale agrodolce, attenzione a non farvele servire fredde, cosa che le rende quasi immangiabili. I sapori dominanti nella cucina laotiana sono: il succo di lime, il peperoncino piccante, la citronella, lo zenzero, l'aglio, la menta, il basilico, la radice di galanga, il coriandolo e la salsa nam paa che troverete sempre sul tavolo con sale e pepe, che dà ai cibi un sapore molto particolare, ottenuta dalla colatura della fermentazione del pesce (anche per un anno, l'invecchiamento è un po' come la filosofia dell'aceto balsamico). 
Noodles gialli.

Maiale
Pollo in umnido e beer lao.
Spaghetti e brodo al prezzemolo.
Si tratta di un succedaneo del famoso garum dei romani che aveva la stessa funzione. Considerate che comunque avrete a disposizione una enorme varietà e quantità di frutta, banane, ananas, papaye, manghi, meloni, angurie e tutta l'altra esotica, molta della quale per voi assolutamente nuova e da testare con cura. Da queste proviene una varietà infinita di frullati, che costituiranno una delle maggiori delizie del vostro soggiorno (max 10.000K a bicchierone). Io ho prediletto quelli al mango, alla papaya e al lime e menta. Thé verde e caffé Lao degli altipiani, spesso, nero e profumatissimo, quasi un mangia e bevi davvero ottimo, allieteranno le vostre pause assieme alla istituzione della quale il paese va giustamente orgoglioso, la famosa Beer Lao che scorre a fiumi assieme al whisky di riso (Lao lao) con cui usare una certa cautela. 

Spiedini vari-
Pollo e verdure (morning glory).
Una cucina che, priva quasi completamente di latte e latticini e dolci, non ingrassa, così son contente le signore, ma che non vi lascerà morire di fame certamente. Sia a Vientiane che a Luang Prabang (al Tamarind, vedere il sito qui ) si possono seguire corsi di cucina di un giorno che vanno dall'acquisto degli ingredienti al mercato alla preparazione di 4 o 5 piatti che infine vi papperete per cena. Taccio dei cibi particolari (vermi ed altro) di cui vi ho già accennato precendentemente e che rimangono nell'ambito delle curiosità. Concluderei così l'avventura laotiana di cui avrete ormai abbastanza (per dettagli tecnici vedete la pagina dedicata al Laos cliccando in alto sullo stick giallo) e buon appetito!

Alga khài paen  essiccata e sesamo.


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sabato 17 marzo 2012

Lettera dalla Thailandia.

Wat Doi Su Tep.
 
Il parco delle tigri.
Chiang Rai. Chang Mai. La terra di Thailandia è un altro mondo che ti accoglie come turista e a cui non interessi come viaggiatore. Una grande città caotica che assomma i vari difetti dell'Occidente, confusione, traffico, inquinamento, uniti quelli dell'Oriente che cresce troppo in fretta, che galoppa vorticosamente trasformando in problemi anche i cambiamenti teoricamente positivi. Un benessere medio che si va diffondendo, un malessere che cresce assieme all'incombenza dell'avere sull'essere. Per me ha una valenza particolare questo stare a Chiang Mai, un ritorno dopo più di 39 anni, un ritrovare un altro mondo, valutandone, come è facile fare, solo gli impatti più negativi, da grasso e opulento abitante dell'Ovest abituato a sottilizzazioni filosofiche che prescindono dalla soddisfazione di bisogni primari che ci appaiono scontati. Tuttavia non si può negare che questa Thailandia abbia poco da offrire al viaggiatore. Interessa di certo e molto il turista, con l'offerta allettante dei suoi monumenti più famosi, di certo straordinari e imperdibili, con il suo mare costellato di resort di sogno, con il business del massaggio e quello delle puttane, per chi è interessato. Tutto il resto è circo e spettacolo preparato per far divertire il visitatore come appendice del villaggio turistico, L'escursione fine a sé stessa, lo zoo delle donne giraffa appositamente importate dalla Birmania, il giardino delle tigri mansuete su cui sdraiasi o tirare la coda per fare la fotografia e se non hai la macchina fotografica, puoi affittare l'apposito professionista in attesa. 

Donna giraffa.
L'allevamento dei coccodrilli, lo spettacolo dei serpenti, le scimmie ammaestrate, il circo degli elefanti o le ballerine danzanti, i Buddha di finto smeraldo e anche di finta giada, la fabbrica della giada migliore del mondo e così via. Tutto è predisposto per occuparti la giornata e lasciarti la sera pronto per il sea food prima, il night market e le sue montagne di tarocchi poi, invitandoti a scivolare nelle vie laterali, seguendo gli ammiccamenti dei travestiti scosciati nei baretti equivoci che rigurgitano di massaggiatrici provocatorie, vocianti per catturare il cliente attorno alla piazzetta centrale, col finto ring dove due finti pugili di thai boxe fingono di scambiarsi pugni, calci e ginocchiate finte tra i gridolini di grasse americane eccitatissime. Uno dei due smette di boxare e si fa fotografare in posizione aggressiva mentre il suo avversario si rotola a terra spasimando di finto dolore per una finta ginocchiata nei (finti?) genitali. In fondo tutti sono contenti e ne hanno il loro tornaconto materiale o morale, incluso l'appagamento del bisogno di esotico che conduce ai tristi quadretti di ruderi umani ingrigiti che si accompagnano mano nella mano con tristi ragazzine dalla bocca cinguettante e dagli occhi vecchi, a popolare gli innumerevoli i tavoli dei ristorantini attorno alla food square. Appena fuori città per un pellegrinaggio dovuto, eccomi al Wat Doi Su Tep, gemma dorata in cima alla montagna che riluce fulgida sotto l'abbraccio del sole. 

Offerte al Wat Doi Su Tep.
Di nuovo, come un tempo, fermo ai piedi della lunga scalinata dai gradini ripidi e faticosi che allora avevo salito con serena  e giovanile baldanza, salvo trovarmi senza fiato dopo poche rampe, ché la resistenza del maratoneta delle vette non è mai stato il mio punto di forza. Adesso sarà durissima, forse impossibile o piuttosto no, niente affatto, ecco il comodo nuovo ascensore a cremagliera che ti porta fino in cima, annullando i  tempi della meditazione, evitando la sofferente ascesa che prepara l'animo all'incontro con il trascendente, impedendo di sottoporre il corpo ad una disciplina utile soprattutto alla mente per svuotarla di inutili pensieri, di vacue preoccupazioni. D'altra parte, se lo usano tranquillamente anche i monaci con un telefonino per mano, vuol dire che si può fare. Anche il buddhismo deve adeguarsi ai tempi e addio alla trasmissione del pensiero a distanza, è sufficiente una buona SIM carica. Certo forse è tutto snaturato, ma quando rimango seduto dinnanzi allo stupa d'oro, la processione dei fedeli che ruotano intorno pronunciando mantra a mezza voce ha un ché di ipnotico. Le statue immote, con i loro sorrisi ineffabili e gli sguardi persi nel vuoto ti straniano il pensiero e d'improvviso scompaiono i rumori. Solo, come in un incanto il dlin dlin di una campanella di bronzo che il vento fa suonare, uguale ad allora, forse la stessa di allora. La stessa magia nell'aria come se 40 anni non fossero mai passati.

Immagini del Buddha.


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venerdì 16 marzo 2012

Lettere dal Laos 26: L'addio.


La jungla laotiana.

In un villaggio Akha.
Il campetto per la petanque è illuminato dalle lampadine fioche del vicino ristorante. Ogni sera e in ogni luogo dove ci siamo fermati, il nostro Tong ha trovato senza difficoltà un gruppetto di amici con cui iniziare la partita. Conosce tutti Tong. Da ogni parte arriva qualcuno che lo saluta e gli chiede come va. Di tutti lui conosce le storie e ce le racconta, richiesto, colorandole di particolari curiosi. Stamane ci siamo fermati lungo la strada di fianco ad una cava di lignite e il direttore lo ha accolto con grandi saluti, anche perché la moglie gestisce il baretto che fa le colazioni. Gli ha aperto la cucina e avanti con le omelettes di cipolle, le baguette calde e la zuppa di noodles come se piovesse. La moglie era andata al mercato, ma appena il buon uomo ha sentito che capivo qualche parola di russo, non mi ha più mollato, raccontandomi la sua esperienza siberiana del passato con grande soddisfazione.  Certo con le bocce in mano, il nostro Tong è un vero fenomeno. Prende la mira con cura, poi, con un movimento a pendolo solleva il braccio e tac, colpisce al volo la palla avversaria con precisione millimetrica. Ad ogni tiro una piccola ovazione degli astanti. Anche noi facciamo il tifo per lui, ma non serve, tanto vince sempre e quando ce ne andiamo verso la guest house, allarga un po' le braccia come a dire:" Che ci posso fare, se sono troppo forte" e lascia gli altri a pagare le birre che ingombrano il tavolino. 

Alla frontiera di Huay Xai.
Una brava persona il nostro Tong. Oggi, poi, che è il nostro ultimo giorno in Laos, è ancora più preoccupato che ogni cosa fili per il verso giusto. La strada che porta al confine thailandese sembra ancora più bella, ma la cornice di colline e di boschi che la accompagnano appare triste. Come è facile farsi condizionare dagli stati d'animo. Il Mekong giallastro è la in fondo che ci aspetta. La sua presenza incombente lo rende indispensabile in ogni aspetto di questo paese. Questo fiume, sempre presente e protagonista, è il destino inequivocabile dell'Indocina. Adesso è lì a segnare con la sua presenza inamovibile la frontiera. Huay Xai è la cittadina lungo la riva che riceve il traffico dell'altra sponda. In fondo alla strada l'imbarcadero con le lunghe lance che traversano incessanti il fiume. Tong non la smette più di dare consigli, di raccomandarci attenzione a quei furfanti di thailandesi che sono lì apposta per spennare i turisti,  ingannarli in ogni modo e derubarli, e racconta di episodi terribili tramandati verbalmente da turista a turista, con ogni nefandezza compiuta dai vicini dalla doppia faccia. Peggio ancora dei Vietnamiti che sono delle pellacce e lui, che ci capita ogni tanto, li conosce bene. Mica come in Laos dove la gente è sincera e non frega nessuno. Ci carica i bagagli, non vuole mollarci fino all'ultimo minuto, timoroso che qualche altro maldestro ricaschi nelle acque melmose e poi quando la barca si allontana pian piano in mezzo al fiume rimane diritto in piedi sulla riva a salutarci a lungo, con un sorriso malinconico. 

Frangipane rossi.
Quando sei arrivato dall'altra parte e sbrighi velocemente le pratiche doganali nell'ufficetto polveroso di Chiang Kong, ti accorgi subito che la vacanza è finita. E' il senso di tristezza che ti afferra quando lasci, forse per sempre, un luogo che ti ha preso, non sai perché, non sai per quale ragione particolare, ma di cui non riesci a toglierti dalla mente aspetti, semplici o apparentemente insignificanti, uno sguardo di una donna, l'allegria dei bambini in un villaggio, il colore delicato della parete di un tempio minore, il vociare di un mercato, i colori delle stoffe,   le tante sfumature di verde delle montagne, il profumo intenso dei frangipane, i tanti tramonti attesi davanti a un fiume, le barche che scivolano sull'acqua, le capanne di foglie di palma dietro le quali spuntano occhi curiosi, le pietre nere del passato, la tranquilla vita del presente. C'è un momento in cui il viaggio finisce, cessa la voglia di vedere, desideri solo andare a casa a ripensare a quanto hai assorbito, a chi hai incontrato, a cosa ti ha dato il viaggio. C'è ancora  tanta strada da fare, pullman, taxi, aerei prima di arrivare, ma con la testa ormai  sei già tornato. Così scendi dalla barca con una fatica sconosciuta ai giorni precedenti, risali la riva e neppure hai voglia di trattare con il rapace conducente di tuktuk, thailandese naturalmente, che ti porterà alla stazione a prendere lo scalcinato pullman per Chiang Rai. Anche le banane e le arance che compri prima di salire sembrano meno dolci e profumate. Ormai il paese dove devi fermarti ad ascoltare crescere il riso è lontano.


Bambina Kamù.

P.S. Nei prossimi giorni posterò in una pagina a parte dedicata al Laos qui, i dettagli pratici per chi volesse organizzare un viaggio in questo bellissimo paese. Basterà cliccare sulla targhetta Laos, sotto al titolo.


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