venerdì 31 luglio 2009

Vitamine e oligoelementi sì! Grassi e zuccheri no.

Oggi la giornata è cominciata bene. Un titolo del giornale mi ha subito aperto il cuore e mi ha fatto considerare come non sia sempre vero che i giornalisti scrivano delle varie cose di cui non capiscono quasi nulla, seguendo solo il vento e la moda del momento. Infatti a pagina 12 della Stampa di oggi campeggiava un bel :”Il biologico? Fa bene solo a chi lo produce”. Un articolo equilibrato che finalmente evidenzia un importante studio inglese che mette insieme i risultati di 50 anni di ricerche sui cibi cosiddetti biologici confermando quello che già sanno benissimo tutti coloro che hanno verso il problema un approccio non parareligioso, new age o semplicemente fideistico e cioè che non emerge prova di alcun beneficio per la salute dal nutrirsi con alimenti cosiddetti biologici. Non solo ma anche alle prove organolettiche, non si evidenzia nei test ciechi alcuna differenza considerabile rispetto agli alimenti derivanti da agricoltura tradizionale. Naturalmente tutto ciò non ha alcuna importanza per i veri credenti che continueranno a pensare di spendere bene il loro denaro in questa direzione e non è addirittura escluso che un effetto placebo li faccia anche sentire meglio. Le reazioni stizzose provengono di più da coloro che su questa religione ci marciano e fanno affari e sono quindi preoccupati che ci sia al problema un approccio più ragionato o almeno interessato a distinguere tra le frasi fatte e i fatti. Che poi questa industria sia particolarmente prospera in Italia, mi sta benissimo, specialmente se contribuisce a far vendere all’estero qualcosa, visto che da noi di inventiva ce n’è parecchia e quella scientifica sembra non interessare al potere costituito e non merita investimenti. Se si riesce a rifilare per il mondo la polenta “biologica” ricca di aflatossine cancerogene, con la scusa che ha il sapore del buon tempo antico, mi sta benissimo, basta che non la rifilino a me (l’altro giorno ho dovuto rifiutare cortesemente in un ristorante un pane fatto con farina biologica garantita sulla parola, tra la meraviglia della ristoratrice, che certo non ha colpe, se lo piazza meglio, ben fa a rifilarlo ai suoi avventori, ben contenti). Come sempre sono felice se c’è spazio per tutti, basta che non limitino il mio, imponendo a furor di talebanesimo luddista divieti di produzione e soprattutto di studi e di indagine seria su biotecnologie, OGM e che sui media riescano a trovare spazio anche quelli si avvicinano al problema in maniera seria e non solo con le chiacchiere. Da una parte un approccio scientifico, dall’altra uno scritto di chi dice, sic “i cibi biologici sono prodotti derivanti da tecniche di coltivazione o allevamento che rispettano la natura, bandendo l’utilizzo di qualsiasi additivo chimico. Questo permette di ottenere prodotti gustosi, sicuri e nutrienti perché ricchi di vitamine, sali minerali e oligoelementi. Lo studio inglese nega questo aspetto (ma quando mai?) perché cerca l’introvabile, la presenza di più proteine, grassi o zuccheri!”. Mi sono permesso di mettere in grassetto quelle che per questa religione sono le parole buone e in corsivo quelle che sono considerate parole cattive, il male da evitare, anzi da bandire con anatema, basta con le proteine, i grassi e gli zuccheri e avanti con gli oligoelementi e le vitamine. Se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere, un riso amarognolo, ma così va il mondo. Quasi quasi, vado ad attaccare alla bacheca del bar l’articolo. Ma chissenefrega, se uno ha piacere di pagare il doppio per mangiarsi le pesche mezze marce, saranno affari suoi, no?

mercoledì 29 luglio 2009

Serendipity.


La serendipity è un concetto filosofico con cui si indica la possibilità di scoprire una cosa non cercata e imprevista, mentre se ne sta cercando un'altra. Il termine, però, non fa riferimento solo alla fortuna, ma a quella stessa base del famoso precetto di Pasteur: il caso favorisce la mente preparata. Mi sembra di ricordare che Ceylon, che adesso tutti chiamano Sri Lanka, fosse indicata come l’isola in cui questo concetto era più manifesto. Era uno dei luoghi più piacevoli della terra dove trascorrere la vita (da ricco ovviamente), con coste straordinarie in faccia all’Oceano e un interno dipinto con il verde smeraldo delle montagne che circondano Kandy. Dolci colline ricoperte dal tenero arbusto del thé e templi nascosti nella jungla dove giocare a rincorrere gli eroi del Ramajana. Anche lì però tutti cercano qualcosa, come i cercatori di pietre preziose, che scavano buchi nella pianura e con mezzi di fortuna, tirano su acqua e fango che setacciano con ceste artigianali alla ricerca disperata di qualche piccolo frammento che brilla, la pietrolina che rimane in fondo al mucchio, lo sperato rubino o almeno una corniola grezza o qualche cosa che dia senso alla fatica e al pericolo che di tanto in tanto, uccide qualcuno in fondo al pozzo, sepolto dal fango e dalle pietre. Forse qualcuno cercando tra il fango trova altro, magari la rabbia che ha trasformato questo luogo in terra di intolleranza, in campo di conflitto spietato, sempre basato sull’odio etnico ammantato da giustificazione religiosa, istigato ed alimentato da quelli che predicano la divisione, la separazione come soluzione, ben sapendo che è solo la fucina dell’odio e del decadimento morale ed economico di un territorio. Quando ci sono stato, non si respirava ancora il conflitto, benchè dalle parti di Trincomallee, una baia di paradiso, già si parlasse con fastidio di Tamil. Il fuoco cominciò subito dopo. Incomprensibile se rapportato alla gente incontrata, così serena apparentemente. Avevamo tardato a confermare il volo di ritorno e avevamo perso la prenotazione. L’agenzia ci informò sconsolata che i voli erano tutti pieni almeno per 30 giorni e la nostra preoccupazione prese corpo in maniera pesante. Il proprietario vedendoci così scossi, ci invitò a cena e mi disse:”Non riesco a capire il processo di pensiero di voi occidentali di fronte ad un problema. Date in escandescenze, vi disperate, non riuscite a ragionare con freddezza. Eppure se il problema si può risolvere, basta agire con cura senza motivo di avere preoccupazione. Se invece il problema non si può risolvere, non c’è ragione di avere preoccupazione, in ogni caso è un inutile dispendio di energia psichica. Andate a dormire tranquilli. Domani penseremo al da farsi”. Il giorno dopo ci accompagnò in aeroporto, parlò con il tizio del checkin, poi ci mise davanti al banchetto prima che si formasse la fila e in qualche modo riuscimmo a partire. Anch’io forse cercavo solo la bellezza a Ceylon, ma forse ho trovato anche cose che mi porto accanto nella vita e non sono inutili.

lunedì 27 luglio 2009

Tai Ji

Cosa è Tai Ji? Quante risposte a una domanda a cui forse, come diceva un maestro, non è possibile rispondere. C’è un posto qui, sotto un vecchio larice, con una piccola radura piana coperta di erba bassa e senza pietre. L’aria sembra più fine quassù e l’essere circondati dal bosco da un senso di forza, di carica fisica e mentale al tempo stesso. Respiri profondamente, senti spirare dentro di te l’ossigeno, il sangue fluisce più rapidamente, la mente pur più vigile, si lascia andare ad uno stato di attenzione non analitica, non si appunta su alcun fatto specifico, rimane in uno stand-by attivo. Il respiro prende un suo ritmo calmo, prolungato. Poi, con lentezza inizia il movimento. Fin dall’apertura i piedi si muovono in modo ingannevolmente meccanico, la pianta stessa aderisce al suolo in maniera consapevole, considerando e ricercando un equilibrio globale. Il baricentro corporeo e mentale si abbassa istintivamente, per aderire alla terra, per facilitare il movimento, per rendere naturale ogni movimento. Le mani e le braccia si muovono con fluidità, alla ricerca di equilibrare una forza opposta e mutevole che fluttua nello spazio, scandendo posizioni, tecniche, movimenti. Lo sguardo segue un punto preciso in continuo divenire, che si sposta davanti, di fianco, dietro, a richiamare una reazione precisa in seguito ad una azione specifica. Le tecniche della forma si susseguono precise e cadenzate. Il pensiero non ha necessità di ricordarle, di prepararsi ad eseguirle in sequenza. Esse si susseguono naturalmente, perché il corpo ne conosce per imprinting il succedersi obbligato. La bella gru bianca allarga le ali e l’apparente instabilità del peso del corpo completamente sulla gamba sinistra mantiene il corpo stabile dopo la doppia parata; mani di nuvola per muoversi spostanto i colpi, mentre l’ossigeno penetra fino ai vasi più lontani; ago in fondo al mare e la posizione chinata e quasi rannicchiata del corpo aiuta la mano nel gesto di colpire; afferra la coda del passero ed i movimenti di afferrare, parare, spingere si dipanano lievi ed efficaci; accarezza la criniera del cavallo selvaggio ed ancora il corpo si sposta con naturalezza trattenendo per colpire. Un movimento scandito con lentezza che porta al termine la sequenza, che chiude la forma, che riporta il cerchio al suo equilibrio, alla posizione iniziale, alla tranquilla compiutezza. La mente rimane serena dopo. Ti puoi sedere su una roccia e guardare a valle. Sotto il grande larice, le cose assumono allora valenze differenti, come se i problemi fossero piccoli soprammobili da spolverare ogni tanto e se non ti piacciono più e ti infastidisce la loro vista, da riporre in un cassetto, definitivamente. La pianura con le sue paure, avvolta da una nebbiolina azzurra è lontana. Le ronde che la percorrono in camicie colorate, ancora di più.

domenica 26 luglio 2009

Una valle occitana

Purtroppo la scelta della chiavetta Tim non è stata felice, si scollega continuamente ed in particolare non riesco a caricare nemmeno una foto da 150k. Ecco perché non vedete foto negli ultimi post. Peccato perché la valle di Massello dove sono stato ieri meritava un colpo d’occhio. Le valli valdesi sono nascoste alla vista, abituate da secoli a tenere un profilo basso, a non mettersi in evidenza, memori di quanto è avvenuto nel passato. Andate a cercare la Val Germanasca, infilandovi di lato alla Val Chisone e, dopo qualche kilometro, prendete una piccola strada sulla destra che si inerpica in un vallone laterale, tanto erto e chiuso da sembrare senza seguito. E’ la Valle di Massello, così nascosta e segreta da essere stata in passato, l’ultimo rifugio per i Valdesi dopo la rentrée dalla Svizzera, dove trascorsero, assediati un intero inverno nell’ultimo baluardo in fondo alla valle, prima di ottenere le patenti reali che tolleravano la loro fede religiosa. Che cose incredibili sono accadute nella storia. In quei tempi bui, si ammazzava la gente per il loro credo religioso, si giustificava lo sterminio di interi popoli nel nome di Dio, con la certezza della superiorità della propria fede su tutte le altre. Cose inaccettabili oggi, non vi pare? Comunque la valle è magnifica, stretta, incassata tra pareti alte e scoscese, coperte di fitti boschi di querce. Il piccolo ma furioso torrente ha scavato con durezza un percorso tormentato sul fondo. La valle è quasi deserta. Ma quando arriverete al fondo, alla vista delle poche case che costituiscono le frazioni di Massello, poco prima della cascata del Pis, vi potrete fermare al grazioso ristorante La Foresteria che vi sorprenderà per la cura e l’eleganza con cui vi saranno presentati i piatti scelti tra un ricco menù di tradizione locale. Dopo un preantipasto di lardo e miele su una fettina di pane nero tostato, potrete scegliere tra antipasti accattivanti. Blu del Moncenisio con pere e nocciole, filetto di trota alle mandorle, scamone tagliato al coltello, ruota di deliziosi formaggi locali, polentina fritta con salsa di acciughe tutti presentati con cura. Tra i primi avrete l’imbarazzo tra ottimi ravioli di crema di porcini locali, tagliolini al ragù di cervo e altre offerte che testeremo in altra occasione. Il cinghiale la fa da padrone nei secondi, e infine dolci fatti in casa tra cui primeggia una gran torta “speciale” dove su una base di pere e cioccolata si stende un velo di crema e amaretti sbriciolati e caramello, una morbidezza da ricordare. Ricca scelta di birre artigianali e una buona carta dei vini saranno completate da un conto assolutamente ragionevole. Uscirete sereni e desiderosi di smaltire le molte calorie accumulate, giusto in tempo per entrare nel vicino capannone dove un gruppo di musicisti occitani vi regalerà una serata di ritmi indiavolati che trascineranno nella danza anche i più riottosi. Balli occitani e non solo, straordinaria occasione di socializzare con le decine di appassionati che convergono sul posto per una serata di musica e di festa. Chappelloise, courenta, gigo, circolo circasso, scottish, farandula, rigudun e chi più ne ha più ne metta, passione e divertimento per tutti. Cercate solo di informarvi della serata giusta.

venerdì 24 luglio 2009

Cronache di Surakhis 17: vacanze estive.

Era tempo di vacanza anche per la breve estate di Surakhis; chi poteva lasciava le caldissime città della pianura e del deserto, dove la temperatura e l’acidità dell’aria corrodevano i metalli e fondevano tutte le materie plastiche non resistenti e si rifugiava in quota. La crisi mordeva ancora forte, ma l’Imperatore aveva ormai convinto tutti che il peggio era passato, dato che tutte le attività finanziarie avevano ripreso a gonfie vele a macinare utili scommettendo sull’aumento dei non occupati, che continuavano a crescere a dismisura. La sua popolarità era alle stelle e il tentativo dei Morigeratores di incastrarlo evidenziando i suoi vizietti era naufragato miseramente e si era ritirato nel suo castello tra le nuvole circondato da uno stuolo di ancelle nude adoranti, tra il tripudio della folla che avrebbe voluto essere al suo posto. Anzi al concorso: Un giorno tra le ancelle dell’Imperatore, riservato a chi dimostrava di aver votato per lui la partecipazione era stata quasi universale. Soli piccoli gruppi di criptopenici di Antares e gli asessuati di Rigel che si moltiplicavano per gemmazione non avevano palesato interesse al concorso e si pensava a strategie diverse per conquistare il loro voto, ma mancava ancora un anno alle nuove elezioni. Paularius, stanco e convalescente, aveva risolto il problema degli schiavi della sua miniera lasciando esondare casualmente il Pentacon, un torrente di acqua cloridrica che scendeva vorticoso. Le acque avevano invaso le gallerie della miniera e quei mangiasbobba a tradimento erano tutti annegati. L’assicurazione aveva coperto i costi con l’agenzia di affitto degli schiavi ed aveva pagato i suoi di proprietà, permettendogli anche di riscuotere i contributi della nuova legge di aiuti alle imprese in difficoltà. Salutati quindi gli amici delle Ronde, era subito partito per la sua villetta circondata dal verde delle Colline Profumate. La malignità popolare aveva attribuito questo nome alle montagne che circondavano la capitale, da quando i problemi della centrale a merda costruita tra le montagne si erano palesati in maniera esplicita, costringendo tutti i residenti ad espatriare, ma Paularius si era ormai abituato alla puzza e la solitudine gli faceva piacere. Lettura, meditazione e pochi svaghi. Si era fatto portare nel parco cintato i pochi Hort che erano scampati nella miniera; per forza, quelli l’acido cloridrico lo bevono a colazione, altro ci vuole per annegarli. Ogni tanto usciva a piedi con la balestra laser e ne abbatteva uno che poi le serve gli facevano allo spiedo, ma quei birbanti si nascondevano sempre meglio e l’ultimo aveva dovuto stanarlo con qualche scossetta al guinzaglio che gli aveva lasciato per sicurezza. Che pace! Da quando la disoccupazione aveva superato il 90%, segnale che la crisi in fondo colpiva chi se lo era meritato, c’erano molte meno rivendicazioni; la gente si vendeva gli organi per tirare avanti o impegnava quelli dei figli e dei nipoti e non c’erano più grossi problemi per rigenerarsi. Spense il multischermo e suonò il campanello; arrivarono subito le sue ancelle preferite, due multilinguate di M51 che sapevano le sue debolezze. D’altronde non era mica un santo e con tutto quello che faceva per il benessere di Surakhis, un po’ di divertimento se lo meritava.

mercoledì 22 luglio 2009

Il verde dei pini.


La temperatura fresca e il verdeggiare delle conifere che mi circondano mi portano ancora a quell’agosto dell' 81 in Anatolia. Avevamo lasciato da un giorno l’azzurro e solitario specchio del lago Van, sulle cui rive deserte, un ragazzo era uscito dall’acqua e ci aveva fermato dicendoci: “Questo è il Kurdistan, ragazzi, buon viaggio e buona fortuna!” rituffandosi subito dopo. Risalivamo la strada verso est nella direzione dell’Ararat e della frontiera iraniana fino a che prendemmo un strada laterale che tagliava la montagna e che si trasformò ben presto in uno sterrato difficile, dove la mia vecchia 127 si inerpicava con un po’ di difficoltà tra pascoli e malghe isolate in mezzo alle macchie di conifere. Alla cima di un colletto, la pista si dirigeva zigzagando verso un gruppo di casupole in legno al centro delle quali, una piccola folla sembrava festeggiare. Ci fermammo per dare un’occhiata e fummo subito notati, tanto che due uomini si staccarono dal gruppo per venire a passo veloce verso di noi. Riconosciuti come italiani, fummo subito informati che si festeggiava una circoncisione di un primogenito e cooptati senza possibilità di rifiuto a partecipare. Era la famiglia, allargata ad un centinaio di persone, di un emigrante appena tornato per le vacanze estive, che ci accolse con calore e simpatia. Il ragazzino dodicenne, bardato in divisa similmilitare con tanto di cappello con visiera, aveva l’occhio stranito e non particolarmente entusiasta di essere entrato nel mondo adulto tramite quella particolare tomia prepuziale che non doveva essere stata molto divertente a quanto ci raccontò l’orgoglioso genitore. Fummo subito travolti dalla festa; Tiziana, trascinata via dalle donne nella zona dei preparativi dove un gran pentolone e molte griglie svolgevano il loro compito istituzionale, mentre io e Rob. raggiungevamo i maschi seduti a terra attorno alle grandi tovaglie stese, dove a poco a poco venivano portati i cibi. Eravamo al posto d’onore ed onore facemmo al banchetto. Ballammo a lungo dopo abbondanti libagioni di raki, formando un cerchio di uomini, mentre le donne sedute battevano le mani ridendo. Ce ne andammo prima che scendesse la sera, tra grandi saluti e auguri di buon viaggio. Chissà che vita avrà avuto quel ragazzo oggi almeno quarantenne; chissà se sarà stato ripagato della cortesia e dell’ospitalità che ci usò la sua famiglia o sarà stato trattato da straniero puzzolente, sfuttato nel lavoro, licenziato per primo senza aiuti quando le cose volgevano al peggio. Oggi magari è tedesco integrato, coi figli in una buona scuola e una bella casetta col davanzale fiorito oppure è tornato, scacciato, alla sua terra a rimuginare odio e rancore, a inventare i fantasmi di domani, a creare il fanatismo di chi viene aiutato a richiudersi nel passato, spinto da un mondo che lo ha rifiutato per egoismo ad abbracciare un fondamentalismo rinfocolato da chi morirebbe senza il nutrimento infetto dell’odio.

martedì 21 luglio 2009

L'ingegnere ferroviario.

Tutte le volte che, dalla finestra di casa mia, sento lontano il fischio del treno nella notte, un piccolo tarlo mi rode dentro a causa di una delusione che diedi a mio padre. Il suo sogno di deviatore capo che faceva i turni su una garitta della linea Torino-Genova, era che un giorno il figlio diventasse Ingegnere delle Ferrovie; sì, in maiuscolo, come questa figura mitica che lui aveva visto solo qualche volta e che avrebbe significato il suo riscatto di fronte ai colleghi e il premio ai tutti i suoi sacrifici. Fu contento ugualmente di vedermi laureato e agronomo al tempo stesso, ma non era la stessa cosa. Per questo mi iscrissi al Politecnico di Torino, in fondo mi piaceva la matematica anche se venivo dal classico e tutti dicevano che in seguito proprio per questo sarei stato avvantaggiato. Purtroppo il primo anno di libertà e di mancanza di marcatura stretta, mi furono fatali. La frequenza fu scarsa, anche se la frequentazione di un compagno di corso napoletano, mi fece apprendere con profitto l’arte della carambola francese. Così giunto alla sessione di luglio, come tutti i pessimi studenti mi gettai a capofitto, giorno e notte, nello studio, nella infame speranza di recuperare il tempo perduto, arrancando inoltre per cercare di risalire l’ulteriore gap classico che mi portavo dietro dal liceo. Decisi di affrontare almeno i due esami chiave: Geometria 1 e Analisi 1, i due scogli dirimenti per capire se la tua capoccia è in grado di arrivare in un modo o in un altro a vedere il traguardo finale. Riuscii inopinatamente ad avere una stentata sufficienza allo scritto di geometria e mi recai all’orale con un’idea del tipo io speriamo che me la cavo. Il terribile prof. Longo, mi fece accomodare ed esaminato il mio scritto stentato, mi fece una domanda subito rimasta senza risposta. Mi disse:”Passiamo oltre che vedo che questo non è alla sua portata.” Alla seconda domanda tentai di farfugliare qualcosa, ma con poca convinzione. Mentre mi poneva la terza e presumibilmente ultima, strappò un angolo del mio compito e arrotolatolo, si mise a frugarsi il cerume dell’orecchio destro. Capii allora che la mia tornata stava per scadere; mi disse infatti: “E’ meglio che ritorni” e me andai con le orecchie basse. Mi rimaneva un mese per Analisi. Dopo dieci giorni di studio indefesso, non capivo nemmeno più che ora era, ma in un pomeriggio caldissimo, aprii una pagina il cui titolo recitava: I rotori. La lessi da capo a fondo una volta e poi una seconda per fare il punto della situazione. Non capivo nemmeno il significato delle parole. Come in un flash realizzai che stavo perdendo il mio tempo, che tanto nella mia testaccia dura quei maledetti rotori non avrebbero mai trovato il giusto spazio. Chiusi il testo con un sospiro. Uscii ed andai a vedere un film giapponese, allora i cinema erano aperti anche al pomeriggio. Così mi iscrissi a scienze agrarie e la mia vita prese un'altra strada. Mio padre non disse nulla, ma alla parola ingegnere ebbe sempre a fare una smorfia triste e un sospiro trattenuto, quasi per non offendermi.

lunedì 20 luglio 2009

Rosso d'anguria.


Il vento è cessato, lasciando il cielo terso, di un azzurro carico; solo qualche piccolo sbuffetto bianco qua e là, come gocce di acquarello lasciate cadere per sbaglio dal pennello di un pittore distratto. Anche a mille metri, la temperatura è gradevolissima, quasi ideale per la stagione, come accade spesso a questa altezza e non solo in queste valli alle porte d’Italia, ma in tutto il mondo. Era l’81, e la quota più o meno la stessa nella profondità dell’altopiano anatolico. Una giorno d’estate dolce in un piccolo paese vicino a Kars a pochi kilometri dal sud del Caucaso. Ricordo un piccolo ristorante nascosto tra vecchie case di legno, segnalato da una piccola insegna dipinta a mano e da qualche seggiola impagliata fuori dalla porta. All’interno poche tavole di legno circondate da panche e pochi clienti che discutevano a bassa voce in fondo al locale. Ci sedemmo anche noi, un po’ defilati, cercando di non dare nell’occhio, ma senza speranza; non erano molti gli stranieri che capitavano da quelle parti e subito fummo al centro di un’attenzione discreta, fatta di sorrisi e ammiccamenti gentili sotto barbe imponenti, come quasi dappertutto nell’est della Turchia, dove non si sentiva mai il peso dell’essere turisti lontano da casa, ma sempre ospiti visti con simpatia. Non avendo lessico comune, feci il consueto giro in cucina, tanto per rendermi conto materialmente di cosa bolliva in pentola. Trascurando subito la testa di montone bollita il cui occhio solitario mi guardave triste e disattento da una grande pentola di alluminio, optai per un classico menù turco per fare onore, oltre che al robusto appetito che ci contraddistingueva, anche a una gastronomia che, sebbene poco conosciuta, è una delle più ricche e varie del mondo. Un paio di volenterosi ragazzini ci portarono subito una serie di vassoi con un gran numero di mezé, gli antipasti tradizionali, olive, pomodori secchi, formaggi conditi, creme di fave, peperoni, fritti vari, miscele di aglio e yogourth e molte altre cose anche di difficile identificazione, che mangiammo con gusto, sbarazzando i piatti di alluminio che venivano via via cambiati. Poi una minestra rossa alquanto piccante, una sorta di Chorba caucasica, piuttosto densa e gradevole, subito seguita da un trionfo di carne grigliata, spiedini, costolette, grossi blocchetti di carne rosolata e succulenta con una sorta di fagiolini dolcissimi e leggermente farinosi. Saltammo i lukoumi, troppo dolci per il nostro palato e terminammo con un gran piatto di frutta secca e grandi fette di anguria rosso cupo, dolce come solo sa esserlo quando ingrossa sotto il sole forte e diretto. Un grande pentolino di rame per il più classico caffè turco carico e spesso, che punisce gli ingordi che non riescono ad arrestarsi prima di beccarsi la sorsata mista alla polvere di caffè del fondo, mise il suggello al pranzo. Avevamo bevuto succo di mele dolce e profumato, degli infiniti alberi che popolavano le odulazioni attorno al paese e chiedemmo il conto appagati e certi che sarebbe stato come sempre corrispondente alla soddisfazione che avevamo avuto. Il ragazzino che ci aveva servito arrivò con un bigliettino compitato a mano. Con un rapido calcolo, che pure rifatto più volte per sicurezza, dava il corrispettivo di circa 500 lire per tre persone, anche ricordando che a quel tempo il mio stipendio era di circa 7/800.000 lire mensili, parevano l’evidente frutto di un errore di calcolo, almeno per la mancanza di uno zero. Chiamammo dunque il principale, che arrivò subito mostrando un’aria preoccupata. Alla nostra richiesta di precisazione se non avesse sbagliato il conteggio, unendo uno stentato inglese al tedesco consueto dell’emigrante tornato al paese natio, dette una spiegazione complessa che potrei sunteggiare in questo modo:”Capisco che la cifra è esageratamente alta, ma purtroppo, vi prego di credere che i prezzi sono talmente aumentati negli ultimi tempi che non ce la facciamo più a mantenere un conto moderato come una volta e ci scusiamo ancora ma non possiamo praticarvi uno sconto”. Lo tranquillizzammo subito e chiarito l’equivoco, lasciammo una robusta mancia al ragazzino e ce ne andammo, salutati da tutta la famiglia del ristoratore, che, presi gli asini di ordinanza, volle accompagnarci fuori del paese per mostrarci la strada per il lago di Van. La temperatura era sempre gradevole anche se cominciavano a frinire le cicale.

sabato 18 luglio 2009

In montagna un giorno d’estate


Certo qui l’atmosfera è decisamente diversa, anche se per tutta la notte il vento teso dell’Assietta ha spazzato con forza la valle portando con sé nubi e umidità. Non è certo il feroce vento gelido dell’inverno che faceva dire al Cardinal Pacca “Se vuoi conoscer l’inferno vieni alle Fenestrelle d’inverno”, pure le folate che sibilano sotto il tetto fanno temere ogni genere di disastri; poi, la mattina, trovi al più qualche vaso rovesciato ed il cielo terso con qualche bianca nuvola alta che ti riconcilia con il mondo. Così i rudi camminatori prendono la strada delle vette, mentre i pigri, che vogliono approcciare la natura con più calma, si stendono sui prati con gli amici ritrovati, con cui è bello dialogare su come è passato l’inverno. Deve essere un po’ la stessa serena malinconia di Li Po in questa lirica forse meditata tra i monti, dopo un caldissimo luglio a Chang An.

Agito lievemente un bianco ventaglio di piuma,
Seduto colla camicia aperta in un verde bosco.
Mi tolgo il berretto e l’appendo ad una pietra che sporge;
Il vento dei pini piove aghi sulla mia testa nuda.

venerdì 17 luglio 2009

Alle porte d'Italia

Eh sì, 36°C sono tanti. Tutti che si lamentano, magliette che si incollano sulla pelle, goccioloni che cadono dalla fronte solo a pensare, immagina se dovevi lavorare; quindi, terminate le incombenze varie, fatte tutte le telefonate che si dovevano fare, basta, si parte e si va al fresco. E qui comincia il dramma. La preparazione delle masserizie, che era comunque prevista da tempo, con adeguati accumuli di cibarie d’ogni tipo, dovrebbero essere sufficienti anche in caso che Ahmaddinejad decidesse improvvidamente di dare il via all’olocausto su scala mondiale, mentre il vestiario preparato dovrebbe bastare per l’equipaggiamento di una compagnia di esploratori. Non mancano materiali per l’enterteinement, opportunamente supportati da collegamento alla rete (certo non si possono mica lasciare deluse le orde di lettori che attendono il post quotidiano come le folle che seguivano il Nazareno); poi libri, strumenti per la casa, varie ed eventuali e finalmente pronti all’imbarco. Ora, pur in possesso di una capientissima station wagon, acquisita proprio a questi fini, il problema si ripresenta uguale ad ogni partenza. Non ci sta tutto. Anche se l’ingegnerizzazione dello stivaggio era stata calcolata con cura, rimane sempre qualcosa che non era stata prevista nelle sue giuste dimensioni, pertanto la disposizione va ripensata, rivista e ricalcolata. Finalmente sembra che tutto sia a bordo, inclusi diversi vasi fioriti che spargono il loro terriccio nei vari interstizi dell’astronave che sta per abbandonare il pianeta natale. Caricate anche le tartarughe (e pensare che non ne ho mai gradito il delicato brodino) e il pappagallo (su questo punto, vi sarò magari più preciso in seguito) si parte, dopo essere stati salutati da tutti i vicini a cui si era accuratamente cercato di occultare la partenza. La Val Chisone è lì che ci attende immobile da milioni di anni. L’antico re Cozio non sospettava che sarei venuto tra queste verdi valli a completare la mia convalescenza che sarà lunghissima e coccolatissima per fortuna mia e sfortuna di chi mi sopporta. Scarichiamo sotto nubi che si stando addensando e promettono con qualche gocciolio, una serata sui 18°C. Mi sa che bisognerà pensare ad accendere la stufa. L’estate è finita (quasi).

giovedì 16 luglio 2009

I cerchi e il Tao

Siamo d'accordo che io sono un convinto sostenitore della tesi che in ognuno deve albergare il sano germe del dubbio anche quando le cose appaiono chiare e scontate, ma di dubbio in dubbio, c'è chi mi ha preso troppo in parola ed è arrivato persino a dubitare che il mio amico Ferox esista realmente. Esiste, esiste, anche se sembra incredibile e molti che mi leggono lo hanno anche conosciuto personalmente e credo che, offeso, non tarderà a farsi sentire. Ma a questo punto bisogna che, tiratolo in ballo, io vada a trattare anche uno degli argomenti in cui è più profondo conoscitore e sul quale, non manca mai di ingenerare in me, miscredende e scientistico, ulteriore dubbio. Infatti anche ieri mi ha proposto di dare un'occhiata al sito più famoso e aggiornatissimo che tratta di Crop Circles, da cui ho tratto l'immagine dell'ultima comparizione e a cui suggerisco di dare un'occhiata. Certo molta roba appare fasulla, rozza e risibile, ma quando compaiono nelle poche ore di una notte, figure così complesse, così precise, così enormi, anche più di cento metri, sorge spontanea la domanda. Ma è possibile che qualche banda di ragazzotti da 5 in condotta o degli adorabili vecchietti giocherelloni, riescano a fare queste cose con un po' di spago e qualche assicella, in tempi così ristretti? Mi piacerebbe che l'argomento fosse trattato con un po più di serietà, sia dalla parte di chi corre subito ad erigere un altarino agli alieni, sia da coloro che snobbano la cosa con malcelata sufficienza, senza confutare i fatti in maniera scientifica. Ormai Bressanini mi ha abituato a questo approccio e non riesco più a farne a meno. D'altra parte io ne ho visto personalmente un esempio (mi sembra nel 93 o giù di lì) a San Michele vicino ad Alessandria , quando tutti eravamo corsi a vedere i cerchi bruciacchiati che aveva lasciato "il disco volante" in un campo di grano, poi la cosa è morta lì e i ragazzini non son mica venuti fuori e allora non ti bocciavano neanche. Quindi chi vuol parlare parli ora o taccia per sempre , ma con dei fatti concreti per favore.

mercoledì 15 luglio 2009

Bianco di betulla

L'inventiva è dono raro, se poi si unisce all'immedia-tezza ed alla capacità di utilizzo dell'idea folgorante nell'occasio-ne propizia, allora diventa arte ed è di pochi. Quanti si rammaricano, terminato l'evento, di come avrebbero potuto intervenire con arguzia, aggiungere un'osservazione intelligente, dire una cosa memorabile. Troppo tardi, tutti se ne sono già andati e l'idea rimane lì, sterile, ormai inutile a frullare nella testa per tutta la notte. Ancora inverno con babbo gelo che copre la foresta infinita di betulle dell'immensità siberiana di neve vergine. Irkutsk pigra ed immobile sul Bajkal, dorme tranquilla tra Jakutsia, Buriatja e Chita, terrae incognitae, note solo ai giocatori di Risiko. Eravamo stanchi dopo una giornata trascorsa all'accettazione definitiva di un piccolo impianto per produrre casse portabottiglie e dopo una cena anonima nel salone dell'unico albergo, ci preparavamo al sonno del giusto per recuperare le forze alle battaglie del giorno successivo. Blinj con sevruga, balik, una saljanha un po' oleosa e carne grigliata anonima. Mentre attendevamo il dessjert, ecco dal fondo della sala, avvistata la preda, avvicinarsi la tipica fauna degli alberghi russi, due gentili signorine che con uno smagliante sorriso di circostanza pongono le domande di rito e che la cortesia impone di far accomodare. Per fortuna la cena era ormai finita e ci si salva con un bicchierino di classico Amarjietto, il più amato dalle russe. Caso anomalo per la femmina russa media e la siberiana in particolare, le due erano piuttosto anonime, Anja una biondina magra e slavatella e Zvjeta, una burjata bruna e grassoccia che, in corrispondenza alla sua etnia, sembrava avesse sbattuto la faccia contro un camion. Cominciarono subito con il panegirico sull'italianità, mentre noi cercavamo una via per lo sganciamento educato. E' qui che la genialità trova la sua corretta applicazione. Alla domanda legittima su cosa ci facevano tre simpatici italiani nelle profondità delle Russie, il più abile slavofono tra di noi, l'amico Ferox, che di tanto in tanto compare qui con sagaci commenti, cominciò a raccontare la nostra storia. Eravamo alti funzionari di una ditta italo-australiana arrivati ad Irkutsk per creare una grande Joint-venture con la municipalità. Infatti eravamo venuti a conoscenza di un fatto assolutamente rivoluzionario e segreto. Nelle vicinanze del lago e solo lì, luogo unico al mondo, spirara per quasi 250 giorni all'anno il vento da nord, sempre uguale, teso e gelido e sempre nella stessa direzione. Questa particolarità aveva prodotto intere immense foreste di betulle i cui fusti piegavano tutte nello stesso modo con un angolo quasi perfetto di 121 gradi. Esattamente la curvatura del boomerang di cui la nostra azienda era leader mondiale per fabbricazione e commercializzazione. Così era nata l'intenzione di costruire una grande fabbrica di boomerag, ecologicamente compatibile, sulle rive del lago, che ottenendo con facilità un boomerang perfetto da ogni betulla abbattuta, avrebbe dato lavoro ad almeno tremila persone della zona. Le ragazze, che non avevano mai sentito la storia del troncio e dello stuzzicadenti, anche se adattata al luogo, assentivano col capo e con la bocca appena aperta per la meraviglia. Una chiese se il fratello avrebbe potuto fare domanda di assunzione. La mattina prestissimo era prevista l'inspeczia alla foresta più vicina e la firma del kantract. Per questo le lasciammo a consolarsi con la bottiglia dell'Amarjietto, ma mentre ce ne andavamo all'ascensore vedemmo che si dirigevano verso un tavolo di Coreani in cerca di miglior fortuna. La lunga notte siberiana aveva vinto ormai da ore la fioca luce del giorno.

lunedì 13 luglio 2009

Wáng - Yù - Guó

Oggi ho avuto la prova provata che non è poi vero, come credevo, che i blog sono una sorta di esibizionismo d'accatto che nessuno legge. Infatti, di qualunque argomento si tratti, anche se riguarda cose apparentemente prive di interesse come i miei pretenziosi intenti elucubratori, forse campati per aria, sui caratteri cinesi, ebbene, qualcuno commenta con interesse, aggiunge informazioni, arricchisce il contenuto. Sono sempre più stupito dalla potenza della rete. E non ridete di me. Comunque i commenti al mio precedente post teo-filosofico, mi spingono a riprendere la materia per sottolineare l' ampiezza delle possibilità di discussione aggiungendo quindi l'esame di altri tre caratteri molto comuni nella lingua cinese. Dice Popinga che il primo ideogramma Wáng che significa Re, Imperatore (tra l'altro è anche uno dei cinque cognomi più diffusi in Cina) secondo René Guènon nella Grande Triade, potrebbe essere il quinto ideogramma della serie identificando nelle tre linee orizzontali Cielo, Uomo (la più piccola centrale appunto) e Terra, unite da una linea verticale. Ora se questa è una della interpretazioni possibili, però non la fa diventare la quinta stazione della serie, in quanto là, l'uomo è definito dal pittogramma dell'omino che cammina e non dal tratto orizzontale. Ci sono altre due spiegazioni accreditate di Wáng. La prima si fonda sul fatto che la cifra uno (in alto) oltre all'unità, si usa anche per segnalare la linea dell'orizzonte o il cielo, mentre la cifra due (le due linee in basso) in contrapposizione, vengono usate per indicare la terra, quindi ancora "il trait d'union tra la terra e il cielo". L' ultima spiegazione, che forse è la più banale, ma come spesso capita la più probabile, vista l'origine dei segni semplici, è che sia un chiaro pittogramma che raffigura l'imperatore nella sua figura immaginifica, spalle larghe, cintura e grande veste di gala che si allarga fino ai piedi. Questa si trova già nei primi segni di oltre 4000 anni fa, poi forse i saggi hanno voluto aggiungere fuffa per giustificare l'origine divina del potere (cosa comune anche ai giorni nostri e non solo in Cina). Interessante il passaggio al secondo carattere Yù (giada), la pietra imperiale, la più pura e preziosa, degna di essere portata solo dal re. Ed ecco che il carattere si forma aggiungendo a quella del re una piccola pietrolina cucita tra le sue ricchissime vesti. Anche qui la più prosaica interpretazione dei commentatori più smagati è che si tratta di un pittogramma che rappresenta tre anelli orizzontali di giada (visti di profilo) uniti da un filo per tenerli insieme in un ciondolo, come era comune per le concubine dell'imperatore e che il puntino, orrida banalità, sia stato aggiunto solo perchè i copisti lo potessero distinguere dal carattere di Re. Banale? Sì, ma forse realistico. Infine ecco il terzo carattere della serie, Guó (nazione, regno) che si ottiene circoscrivendo Yù con i confini. Anche qui più spiegazioni. Potrebbe essere "tutto un territorio compreso in confini, dove l'uno -uomo è unito a due-altri uomini per formare un popolo, governato dal puntino che li tiene insieme e li dirige (a destra il puntino, curioso eh?)". Ma anche un confine che racchiude ciò che più è prezioso per chi vi abita, la propria patria, come la giada è la più preziosa tra le pietre. Come vedete queste spiegazioni non sono poi così alternative tra di loro, ma sono state via via aggiunte in modo sincretico dai saggi, per contribuire ad illustrare la ricchezza interiore di un popolo, leggibile nella sua scrittura. Un pensiero che difficilmente nega qualcosa (come spesso in oriente) ma tende ad aggiungere più che ad escludere, ad assimilare (magari copiando) per cercare di trarre il meglio. Ecco il perchè della correttezza della osservazione che mi fa Milleorienti al post precedente che sottolinea come il Taoismo dia una interpretazione dell'universo decisamente opposta, escludendo la visione antropocentrica. Anch'io sottoscrivo quanto dice e cioè che "“la Via veramente Via non è una Via costante”. In sostanza bisogna essere disponibili a cambiare idea o almeno a modificarla.

domenica 12 luglio 2009

Neve nera.

I primi di novembre del 1991 non erano particolarmente freddi a Mosca e la Moscova non ancora ghiacciata scorreva lenta, quasi oleosa, come invischiata tra i lacciuoli di un sistema morente. Da ogni parte si avvertiva netto il senso del disfacimento, dello sfilacciarsi delle ultime tenute, dell'anarchia che stava per esplodere. La perestroica di Gorbaciov, aveva dato l'ultimo e definitivo colpo a tutte le poche strutture ancora funzionanti ed nel paese c'era netto il senso di sbando totale, in cui nessuno più produceva niente e allo stesso tempo tutti pretendevano quello a cui ritenevano di avere diritto, mentre i più svegli cominciavano a riposizionarsi in attesa del momento giusto. Lunghe code per strada in cui la gente si fermava appena saputo che lì c'era qualcosa da comperare, qualunque cosa fosse, invece di andare a far finta di lavorare. Nel momento in cui tutto stava andando a rotoli, si favoleggiava della disponibilità di mirabolanti tecnologie, militari ovviamente, tenute segrete per anni, che adesso, nel momento della crisi più totale, erano disponibili per chi potesse investire, per chi avesse ambiti dollaroni da spendere, l'unica moneta che facesse aggio. Anche noi pensammo che ci potessero essere opportunità e sfruttando le conoscenze che si avevano del mercato si creò una piccola società di acquisizione e sfruttamento di brevetti scientifici, inserendovi anche un politico che ci evitasse di intraprendere strade non corrette e uno scienziato, che ci spiegasse cosa valesse veramente la pena. Ed eccoci all'occasione; un centro studi voleva cedere un brevetto interessante, si trattava di un sistema di indurimento superficiale degli utensili con un particolare trattamento laser. I furboni, ecco come trasformavano acciai di seconda categoria in materiali di durezza incredibile; un po' la pietra filosofale sovietica. Era buio giallognogno e fumoso come tutti i tardi pomeriggi invernali russi, quando passò a prenderci una grande Volga nera a fari spenti. La guidava un armadio ingiacchettato col muso duro e tesserino KGB stampato sul muso rincagnato. Lo scienziato era seduto davanti armeggiando con un telefono da auto con una cornetta anni trenta in bachelite bianca. Non avevo mai visto fino ad allora un telefono fisso su un auto. Salimmo nel cortile, nascondendoci alla vista dei rari passanti che rientravano in casa con le sportine vuote e la macchina si lanciò a velocità folle nelle strade deserte di una Mosca avvolta nel giallino lattiginoso dei fiochi lampioni. Arrivammo in una delle tante periferie della capitale dirigendoci verso una bassa costruzione che pareva una vecchia stazione di servizio in disuso. Eravamo attesi, perchè un omone avvolto in una gigantesca mimetica aveva già aperto il cancellone sbilenco, dopo aver posato il kalashnikov a terra. Parcheggiammo facendo stridere le gomme e scendemmo in fretta in un clima di sospetto, guardandoci intorno. Entrammo nel basso edificio, sede del centro di ricerche segreto. I primi ambienti sembravano una officina anni 50 col pavimento unto di olio e vecchi torni malandati sparsi a casaccio. Ero ammirato. Con quale astuzia si celavano le ricerche di avanguardia! Nessuno avrebbe potuto sospettare che quella malandata costruzione nascondesse cose di tale importanza, anche se il filo spinato intorno e gli OMON sparsi dovunque indicavano che forse lì non si distribuivano gelati. Comunque pareva di essere in un film; da un momento all'altro un ascensore ci avrebbe portati nelle viscere del centro dove un mondo di fantascienza spio-bondistica ci avrebbe trasportato nel futuro. Invece no. Il centro era proprio quello lì che vedevamo, con le frese mezze rotte e un generatore spompato che faceve tremolare le luci delle lampadine da 25 candele. Lo scienziato ci spiegò che purtroppo da anni, non si poteva avere di più, ma le idee, quelle non hanno bisogno di finanziamenti. Al di là di una tramezza di compensato traballante fummo introdotti nella sala laser, dove troneggiava un baraccone di ferro arrugginito in diversi punti. Consegnammo le punte di trapano di materiale tenero che avevamo portato con noi per testare il trattamento ed un addetto claudicante le inserì negli appositi alloggiamenti, poi tutti ci ritirammo dietro l'apposita paratia. Qui, il tecnico, davanti ad una plancia tentò più volte di avviare la macchina, ma i grossi interruttori marroni, consumati dall'uso non ne volevano sapere. Maledicendo il governo e quanti gli negavano i fondi lo scienziato prese a battere su alcune leve di cui una si ruppe subito, poi il tecnico, utilizzando l'arte di arrangiarsi comune ai due popoli, infilato un grosso cacciavite nell'interruttore renitente riusci a far scattare l'avvio. Il mostro cominciò a ribollire con sordi brontolii di fronte a noi, poi, in un crescendo rossiniano, assai poco tranquillizzante, prese a ronzare sempre più forte fino a che, tra la preoccupazione che ormai si palpava intorno a noi, scaricò con un gran botto tutta la sua potenza e di colpo si tacque. Il bombardamento laser sembrava concluso. Lasciammo quatti il centro con le preziose punte trattate, filando ai cento all' ora nella notte verso l'Hotel Pekin, gelido come una bara. Al test in Italia le punte di trapano trattate si rivelarono molli come banane, così almeno ci relazionò il tecnico che eseguì i test. Al nostro rientro a Mosca, Gorbaciov stava per cadere, lo scienziato disse che forse, il processo andava ancora affinato per poter dare risultati convincenti, ma che aveva utilizzato lo stesso trattamento in Ukraina in un allevamento di maiali, bombardandoli nelle chiappe e pareva che i prosciutti aumentassero del 20% in peso a parità di alimentazione. Un vero business. Lo lasciammo nella Tviershajia che ancora si sbracciava per mostrare la forma delle coscie. Il gelo invernale era ormai sceso implacabile e le strade erano coperte di neve ghiacciata nera come il cielo.

sabato 11 luglio 2009

Yī - rén - dà - tiān

Oggi, che i concetti della vita e della morte bruciano decisamente di meno e lasciano la mente libera di vagare su temi più sereni sebbene immanenti, vorrei illustrare un tema filosofico abbastanza interessante che, stando alle interpretazioni del già citato Don Ming, vecchio prete, maestro di comprensione della concettualità linguistica cinese dell'amico Gianni, descrive bene il rapporto tra l'uomo e la divintà, secondo i saggi del regno di Mezzo. Dunque esaminiamo i quattro ideogrammi proposti, che tramite i più semplici costruiscono per aggiunta i più complessi. Il primo Yī , significa uno, l'unità, ed è di facile comprensione; il secondo Rén uomo, persona, individuo ed è la comprensibile stilizzazione di un omino che cammina verso destra; il terzo Dà , in pratica lo stesso omino visto di fronte che allarga le braccia allungandole per quanto gli è possibile per illustrare il concetto di grande, grosso; infine il quarto Tiān, significa cielo, celeste, divino, insomma il concetto di divinità (come ho già detto nella lingua cinese i confini tra sostantivi, aggettivo, verbo, preposizione sono molto labili, quello che conta è il concetto rappresentato dell'ideogramma). Bene, sebbene noi occidentali abbiamo la falsa credenza di un popolo cinese legato al collettivo, al popolo nel suo insieme, all'annullarsi delle pulsioni del singolo, ingenerata forse da una cattiva digestione di concetti maoisti, mai penetrati realmente nella mentalità cinese, in realtà gli abitanti del celeste impero sono estermamente permeati dal concetto di unicità e dell'importanza del singolo. Ecco quindi che la semplicità del segno, Yī, è la forza dell'unità, della singolarità dell' uno che è la base di partenza per arrivare al tutto. Se associamo questa unicità, sovrascrivendola, incrociandola al segno di uomo si ottiene il segno di grandezza, essendo l'uomo l'unico essere della creazione veramente grande. E sopra di questa grandezza cosa può stare? aggiungendo un'altra unicità, solo il cielo, la divinità, concetti equivalenti. Questo senso di unicità e supremazia dell'uomo sul resto del creato, che lo pone in posizione nettamente primaria rispetto a tutto il resto, potrebbe servire a descrivere, certi atteggiamenti o modi di avvicinarsi alle religioni in senso lato o al rapporto con la natura, verso i quali, secondo il comune sentire che abbiamo verso questo popolo, sembra di avvertire sempre un certo senso di predominanza. Ma sono elucubrazioni del sabato, di cui mi piacerebbe avere confutazioni, anche perchè, chi lo dice che il buon Don Ming non sparasse teorie pour épater le bourgeois? Per ora vi saluto, in quanto tutto questo filosofeggiare mi ha fa bruciare la testa in modo irresistibile; non mi posso più trattenere, vado.

venerdì 10 luglio 2009

My friend Moby Dick 2

Poichè vedo che da Bressanini continua la polemica sulla balena, vorrei anch'io ritornare sull'argomento, ma siccome i giorni passano e la disposizione d'animo non è più quella che mi aveva condotto a raccontarvi del mattatoio di Hvalfiordur, sono sufficientemente sereno per vedere e raccontarvi le balene che ho visto, da un altro lato (oddio, è comunque sempre meglio mettersi dal lato giusto con questi animali). Dunque c'è un posto magico in Sud Africa, paese che mostra aspetti di fascino raro e a cui ritengo si debba guardare con attenzione. Dopo aver visto tutti gli animali di cui Piero Angela vi aveva mostrato il preview, percorrete la Garden Route, una strada panoramica strepitosa che scivola tortuosa lungo la parte della costa meridionale con una serie di baie e cale tra il mediterraneo e l' oceanico. Dopo avere approfittato delle ostriche di Knisna e di Mossel Bay, un nome un programma, arriverete ad Hermanus, il luogo magico appunto. Qui, da luglio a novembre, prenderete alloggio in un alberghetto che si affaccia dritto sulla baia. Dopo una cena a base di rosse e spesse bistecche di struzzo, animale dagli occhi dolci e dalle ciglia lunghissime, riposerete tra lo sciabordio delle onde. Al mattino sarete in terrazza, ma non riuscirete a concentrarvi come meriterebbe sulla colazione ricca di uova, frutta e altre suggestioni locali, ma con la forchetta a mezz'aria non potrete staccare gli occhi da quello che succede a pochi metri, e ripeto a pochi metri da voi. Nel profondo golfo si radunano in questi mesi centinaia di gigantesche balene australi e megattere per avere i piccoli dell'annata e ogni mattina ne potrete vedere diverse (anche decine) che giocano, probabilmente per contratto, per voi, saltando sull'acqua, immergendosi di botto, dando grandi colpi di coda a sollevare fontane e schizzi di spuma, mettendosi in posizione verticale con il gigantesco muso alzato verso il sole come quella che ho fotografato o accompagnando il piccolo quasi fino alla riva fatta di massi rocciosi per fargli conoscere quei personaggi a due zampe abbarbicati agli scogli, che allungano le mani per cercare di accarezzarne il muso o tastarne la tenerezza della carne, promessa vaga di bistecca futura. Uno spettacolo che va in scena tutti i giorni e a cui non si resiste, un circo unico ed esclusivo per il quale non si vorrebbe mai lasciare questo posto, una droga che dopo una sola assunzione ti assuefa e ti costringe ad averne ancora. L'uomo è fatto così, si mangia di gusto il prosciutto, la bistecca e l'aragosta, ma se vede due occhioni dolci, poi gli rimane una remora psicologica e se decide di rifiutare una fonte di proteine si sente autorizzato a promuovere una crociata contro chi non ha subito il contagio della tenerezza. Comunque non turbatevi troppo, pare che la carne di balena sia ormai fuori moda in tutto il mondo, i magazzini giapponesi sono pieni di tranci invenduti e i balenieri islandesi, chiedono contributi statali per sopravvivere. Il problema etico come sempre, viene risolto automaticamente, non da una decisione consapevole ma dagli eventi e come l'entropia, pare che anche le balene aumentino di numero oltrechè di peso.

giovedì 9 luglio 2009

Un ringraziamento dovuto e voluto.

Eccomi qua, sono tornato (ieri). Come qualcuno aveva già capito da questo precedente post, mi hanno sottoposto ad una piccola revisione. Un lavoretto d'officina, potremmo definirlo un alesaggio, la TURP, che sembra semplice se lo fanno a qualcun altro, un po' più rognoso quando tocca te. Vorrei subito rimarcare che chi si lamenta del sistema sanitario pubblico è davvero un ingrato farabutto da segnalare alle attenzioni della Questura, oppure uno che ha interessi politici o personali nella sanità privata. Oppure un lamentoso cronico, per cui tutto è buono per criticare e che non ha mai visto cosa succede in qualunque altro paese del mondo in questo campo. Sottolineare soltanto i casi di malasanità, certamente da combattere con efficacia, trascurando l'ottimo funzionamento della generalità non è solo distrazione, ma indegna colpevolezza. D'accordo che il primo caso è una notizia, mentre se tutto è perfetto è una non-notizia, ma questo ingenera sentimenti e considerazioni totalmente scorrette e sbagliate. E spesso in Italia la generalità ha un livello sorprendentemente alto. Io sono stato visitato con celerità, esaminato con attenzione, operato con perizia e curato amorevolmente per sette giorni senza cacciare un centesimo, in una struttura che, anche se rappresenta solo una piccola realtà di provincia, è risultata moderna, organizzata, efficiente. E qui deve scattare un doveroso, ma assolutamente sentito, ringraziamento all'Ospedale di Novi Ligure nel suo complesso, a partire dall'accoglienza pre-ricovero, con la signora Marina che, con competenza e gentilezza riesce a calmare l'agitazione, anche esagerata del questuante, sempre timoroso della sua ombra; al Dott. Montefiore e alla sua eccezionale equipe, di certo tra le migliori in assoluto per questo tipo di interventi e a tutto il personale paramedico del reparto urologia che si è prodigato in ogni modo per assistere e coccolare anche un paziente difficile come me. E' fondamentale per chi si trova in queste condizioni, avvertire che, oltre all'efficienza e alla tempestività di ogni prestazione, chiunque entri nella tua camera, dal primario al personale della pulizia, vedendoti l'occhio stranito e perennemente bisognoso di attitudini consolatorie, ha sempre una parola di conforto, si interessa alle tue condizioni, ti esorta ad essere tranquillo che tutto va per il meglio. Spesso questo aiuta tanto quanto tutto il resto. Non voglio tediarvi con i particolari più turp(i), appunto, dell'avvenimento, tanto l'ho gia fatto nel post di ieri, facendo subire il tutto ad uno dei miei personaggi che ho più in antipatia, Paularius di Surakhis, che se lo merita, ma come fa Raspelli per i ristoranti, se avete bisogno, eheheheeh, ve lo consiglio caldamente.

mercoledì 8 luglio 2009

Cronache di Surakhis 16: una storia TURP(e).

Finamente Paularius si era deciso. Da tempo l'esomedico di Rigel IV, che consultava anche per le fluttuazioni della Borsa intergalactica, gli consigliava una revisione rigeneratrice. Oltretutto, i fastidi che aveva da tempo, si manifestavano sempre più frequentemente. Dopo infiniti tira e molla, si fece portare da due ancelle di Hort che lo accudivano amorosamente e che gli avevano addolcito la decisione, all'Hospirifugio, una piccola ma efficace struttura nell'oasi Nova. Lo presero in carico due automedics che lo rivoltarono subito come un calzino. Stereolastre in multivision, aghi in ogni parte e tubi in ogni orifizio a succhiargli liquidi e ad iniettargliene altrettanti. Invece della spuma di tacchino ripieno con aria di cipolline borettane brasate al vino di Barol, l'ultima invenzione della cucina galactomolecolare di cui andava pazzo, un brodino moscio e zambetti bolliti. Poi l'attesa, dopo che l'autoparamedical lo aveva ridotto glabro come la testa dell'imperatore prima del trapianto. Rimase a meditare nella piccola stanza anonima ed asettica in un tono giallino. Notte popolata di incubi, con un risveglio pesante per la dura giornata che lo attendeva. Giunse col trasporto nella sala verde, grato al chiacchiericcio delle ginoidi che cercavano di tirargli su il morale. Era tutto di un gradevole verde cloro, anche le leggere vesti di garze che lo avvolgevano. Lo attendevano ansiosi, pronti con aghi, biobisturi ed ogni altro strumento necessario. Lo sbigottimento durò poco e la tenue sedazione iniziale non lo rese conscio del propagarsi del fungo anestetico che si impadroniva di metà del suo corpo. Era una forma di vita primitiva scoperta su un pianeta esterno che dilagava in un attimo nell'ospitante nutrendosi del suo dolore fino all'autoeliminazione. Così rimase per tutto il tempo in uno stato di torpore mentre attorno a lui tutti si davano da fare. Gli autotubi entravavano, cercando da soli gli orifizi appropriati, visualizzavano e subito le lame entravano in funzione, dentro il suo corpo si tagliava, si resecava, si asportava, mentre sull'oloschermo sopra la sua testa scorreva la TURP(e) storia di quanto accadeva dentro di lui. Ma perchè il soffitto sembrava abbassarsi così tanto, quasi a schiacciarlo? Poi, d'un tratto, tutto finì e fu teletrasportato alla cameretta, dove già lo attendeva un altro compagno di sventura, che veniva dalle colline vicine, preparato anch'egli per essere trattato allo stesso modo il giorno successivo. Altri aghi, tubi e mille diavolerie si aggiunsero per aumentare la dura prova. Paularius era un paziente particolarmente fastidioso. Non sopportava quasi nulla. Il caldo, il freddo, la sete, una soglia del dolore talmente bassa da farlo impallidire alla semplice esibizione di una siringa. Per qualche giorno si rese insopportabile a tutte le autoparams che si affacendavano attorno a lui cercando di accontentarlo, pigolando gentili. All'ennesima esibizione di dolori atroci che gli sconvolgevano l'apparato offeso, una ginoide dagli occhi di ghiaccio, arrivò di corsa con in mano orribili strumenti su cui campeggiava un siringone succhiatore autoregolante e a lui che terrorizzato fu messo in posizione totalmente esposta, chiedendo disperato e chioccio: "Cosa mi sta facendo?", rispose con voce roca e ammiccante: "Una cosa che non si potrà mai più dimenticare" e la siringa affondò il suo ago nell'orifizio cominciando il lavaggio interno. Giunse il giorno fatale dell'estrazione dei tubi. Boban di Andromeda cercava di calmarlo, ma non era facile. Ancora occhi fatati ed allusivi, ancora mani delicate in azione; paralizzato dal terrore sentì solo:"Respiri profondamente" poi il tubo cosparso dai microcoaguli dei suoi liquidi vitali rinsecchiti, venne strappato d'un colpo. Un dolce sentore di cartavetro tipo zero che sturò le sue delicatissime mucose interne, lasciandolo ad un altra giornata di lamentele sul bruciore insopportabile, dalla soddisfazione liberatoria, seguita da grandi grida di soddisfazione per i risultati raggiunti e comparati assieme al compare di letto. Insomma il tormento e l'estasi e compagnia bella. Quando finamente lo rilasciarono, se ne tornò a casa sotto il cielo infuocato tendente al cyano dell'estate di Surakhis, pronto a rendere la vita difficile a quanti gli sarebbero stati vicini nei giorni successivi, anche se quasi tutta la servitù era stata mandata in vacanza per evitare le lamentele sicure dei Morigeratores, che non aspettavano altro. In una bella busta bianca aveva con sé tutti i risultati degli esami. Promosso, dunque e con la Minzione Onorevole!

domenica 5 luglio 2009

Essere o non essere.



Oggi, sempre nel disperato tentativo di indagare una lingua per tentare di capire l’anima di un popolo, voglio, con l’aiuto dell’amico Gianni e del suo vecchio maestro Don Ming, mettere a paragone due ideogrammi molto comuni nella lingua parlata e scritta. Il primo, la cui pronuncia è Mù, significa legno, albero e viene interpretato come la stilizzazione della linea orizzontale che rappresenta la superficie terreste, al disopra della quale si erge il fusto e al disotto della quale campeggia un robusto apparato radicale, in quanto senza radici robuste non c’è possibilità di esistenza piena. Il legno è anche uno dei cinque elementi fondamentali che costituiscono l’universo della scientificità prearistotelica cinese. Mù è la vita che cresce, che riempie la terra del sé, che rende cosciente la materia. Nel secondo ideogramma, Bù, invece, la presenza delle radici sotto la linea della terra, non dà luogo a nulla, non crea vita, rimane sterile e senza frutti, rimane di per sé il simbolo della non esistenza, del non essere e come tale viene usato come negazione del verbo essere. La mancanza di vita, di crescita, di presenza, nega l’esistenza, infatti per il verbo avere si usa un altro tipo di negazione. La morte, come non vita, il nulla assoluto, la negazione. Forse questa gente ha pensato molto in passato, non credo che si limiterà in futuro a produrre solo batterie difettose che scoppiano appena messe nei telefonini; non sottovalutiamo nessuno

venerdì 3 luglio 2009

Una candelina.


E’ già passato un anno. All’inizio, vi dico la verità, non ci credevo. Che qualcuno si prendesse la briga di sprecare il suo tempo per venire a leggere, peggio ancora a commentare, le scemenze che mi vengono in mente al mattino, mi sembrava proprio una possibilità rara resa ancor più improbabile da quanto si sente e che ho più volte sottolineato, che ci sono molti più bloggers in giro che lettori. Siamo degli esibizionisti che vogliamo mostrare una faccia di noi, naturalmente quella che vogliamo presentare, chissà poi se è quella vera… Così spinto da pusher vari, 365 giorni fa è cominciata questa avventura di raccontini pescati dal passato, di riferimenti al quotidiano, di rinadi a culture lontane che mi interessano e che impongo agli altri. E’ cominciata con timidezza, ma la voglia di capire chi ti segue(è chiaramente esibizionismo) mi ha imposto subito di dotarmi di un sistema per capire quanti mi seguivano e così dopo 250 post, posso dire come inaspettatamente ho avuto oltre 7000 contatti da quasi 2000 differenti lettori da 65 paesi diversi. Certo molti ci saranno capitati per caso, fuggendo inorriditi o annoiati dopo la prima volta per non far più ritorni, ma molti mi hanno linkato più di 200 vote! Incredibile vero? E c’è di più nell’ultimo mese siamo passati ad una frequenza di oltre 100 contatti giornalieri, cosa che mi sembra assolutamente incredibile. Che più di 100 persone si siedano davanti a uno schermo e leggano tutti i giorni quello che dico, mi comincia a infondere un po’ di timore. Mi instilla un senso di responsabilità che un po’ mi inquieta, ma passa subito, non vi preoccupate e non mi impedirà certo di continuare a scrivere le mie scemenze. Per la verità i commenti sono pochi, da 0 a 5/6 per post, che mi impedisce di capire meglio i sentimenti di chi mi segue, ma tant’è non si può pretendere che qualcuno scriva se non sente il bisogno di dire qualcosa, di contestare o di aggiungere il suo punto di vista. Che invidia il blog di Bressanini con 5/600 commenti a post, gente che si accapiglia, ma certo lui espone fatti precisi non chiacchiere in libertà come me. Però la cosa che mi importa di più in questo momento, anche se sono presente solo col pensiero e non fisicamente è di ringraziarvi tutti per avermi seguito. Spero di continuare ad aver voglia di dire scemenze per lungo tempo. (E’ ovvio che è una captazio benevolentiae e che nella realtà sono convinto della missione di spargere il Verbo del Bo-pensiero sul mondo, per cui non vi libererete facilmente del vento dell’est.)

giovedì 2 luglio 2009

Una morte meritevole.

Credo che uno dei pochi posti del mondo dove ancora oggi si possano trovare culture e stili di vita completamente diversi dalla nostra, non ancora omologati, sia l’Indonesia. Saltando di isola in isola se ne trovano molti di questi popoli “primitivi”, in realtà vivono solo in maniera diversa dalla nostra, e sono tra loro tanto diversi come lo sono paragonati a noi. Non è soltanto questione di vestirsi in maniera tradizionale come i Dayak del Borneo o i Batak di Sumatra, di portare l’astuccio penico come i Dani in West Irian (chissà come è scomodo, in certe situazioni, poi), ma proprio del modo di vedere ed intendere la vita. Una di queste popolazioni vive in una zona montuosa e un po’ isolata al centro dell’isola di Sulawesi. Non pensate ad Indiana Jones, basta arrivare all’aeroporto di Udjung Padang e ci trovate un sacco di gente che, per la giusta mercede vi accompagneranno per un piccolo trekking di tre o quattro giorni nella zona. Vivono sparsi in piccoli villaggi e praticano una agricoltura tradizionale basata sulla risaia e l’allevamento del bufalo che è un po’ il centro della loro cosmogonia. Come non capire, dà loro latte, carne e forza lavoro, praticamente dipendono dal bufalo, per forza che ne fanno l’asse portante della loro vita. E della loro morte. Ecco questo è l’aspetto più inquietante di questa gente. Tutte le attività, i pensieri, i comportamenti quotidiani della loro vita sono finalizzati ad un unico scopo: il momento della morte e della conseguente cerimonia funeraria. Forse solo nell’antico Egitto questo aspetto è così ossessivo e presente in ogni atto quotidiano. Poiché i mesi estivi sono liberi da attività agricole, in questo tempo si celebrano i funerali. Ma ohibò si muore tutto l’hanno, allora come risolvere la faccenda? In ogni casa, bellissime costruzioni con alte facciate a forma di prora di nave colorate per ricordare la leggenda che li vuole arrivati dall’Oceano, c’è una stanza in cui si mette l’eventuale morto, sottoposto a particolari trattamenti perché resista anche un anno (l’odore comunque non è gradevolissimo), e si usa per lui una parola specifica che significa malato gravissimo che comunque non guarisce più. Morto lo si può definire solo dopo che è avvenuta la cerimonia funebre, nel corso della quale viene disperso quasi l’intero patrimonio accumulato dal defunto; un modo di redistribuzione della ricchezza che in altre culture viene affidato ai matrimoni. Il metro del successo nella vita si misura con la dimensione del proprio funerale. La cerimonia può durare anche un mese. Si costruisce un piccolo villaggio tra le risaie, dove vengono invitati parenti, amici e interi villaggi vicini a seconda delle disponibilità. La bara in legni finemente dipinti da schiere di artigiani, viene posta su una piccola torre al centro delle costruzioni. La gente arriva e il maestro di cerimonie annuncia le provenienze ed i nomi e il numero maiali che sono stati portati vivi e ben legati a spalla, per essere sacrificati. Come è ovvio, questo è fonte di critiche a non finire sulla tirchieria dei parenti vicini e lontani, quando invece in occasione del loro morto erano stati portati maiali ben più grassi e pasciuti. Infine comincia il sabba dei sacrifici, dei maiali e dei bufali che il morto aveva accuratamente accumulato in vita, in una arena dove il sangue scorre a fiumi tra i muggiti di terrore e i colpi di machete che calano sulle giugulari delle vittime, fatte poi a pezzi, scuoiate e cotte dagli addetti in giganteschi pentoloni ai margini dell’arena. Intanto per giorni e giorni si mangia e si beve e quando si va a casa, a seconda dell’importanza, si riporta un bel pezzo di carne per i giorni successivi in cui si spettegolerà a non finire sull’evento. Intanto i giovani occhieggiano le ragazze dei villaggi vicini (c’è un saggio tabù che proibisce i matrimoni all’interno dello stesso villaggio) e la vita continua. Al termine la bara viene portata in una grotta e buttata per la verità senza troppa cura sulle altre, di decenni precedenti, mezze sfasciate in un ossario alla mercè del mondo. Fuori della grotta si mettono le statuette a sembiante dei defunti. Ci si può fare invitare facilmente ad una di queste cerimonie, basta portare un piccolo dono (qualche stecca di sigarette ad esempio), si viene fatti accomodare assieme ad altri locali e si mangia quello che gli inservienti fanno continuamente girare. Noi ci siamo piazzati vicino ad una famiglia un po’ altezzosa in verità, ma pare che fossero i parenti ricchi del villaggio vicino, avevano addirittura portato un bufalo molto grasso, come ci fecero notare con sussiego prima dello sgozzamento. Questa cultura della morte permea così fortemente questa società, che il ragazzino sedicenne che avevamo assoldato come guida ci fece sapere che parte di quei soldi guadagnati avrebbe cominciato a risparmiarli per comprare il suo primo bufalo che lo avrebbe accompagnato nell’ ultimo viaggio. Diceva con occhi sognanti:”Avrò un funerale che se lo ricorderanno tutti!” e guardava la mia bambina che aveva undici anni con orgoglio, pavoneggiandosi un po’. Curioso vero? Negli altri giorni camminammo di villaggio in villaggio a vedere le splendide case ornate dalle decine di corna di bufalo che testimoniavano l’importanza della casata. Anche questo è un modo di vivere, vivere per la propria morte, per avere la propria piramide più grande degli altri, per guadagnarsi la propria piccola, personale immortalità, forse è proprio questo il file rouge che lega tutte le culture.

My friend Moby Dick.

Da qualche giorno sul blog di Bressanini impazza la polemica sulla balena e sugli Islandesi risaliti sul Pequod. Nel 1979 ero sull’isola, che a mio parere non ha eguali in Europa come concentrato di situazioni naturali estreme. Una dozzina di cascate, tutte diverse (a canne d’organo, a velo di sposa, a salti successivi, rombanti come il Niagara, ecc.), vulcani fumanti e campi di lava, il più grande ghiacciaio d’Europa che finisce in mare e tu puoi girare tra i piccoli iceberg che si staccano tra le foche che fanno onk, onk, geyser, fumarole e altri fenomeni vulcanici, fiordi profondi, deserti di sabbia e chi più ne ha più ne metta. Se avrete anche un’estate col sole sarà la fine del mondo altrimenti vi ammuffiranno gli scarponi oltre a prosciugarvi il portafoglio, perché la vita è carissima. Non ci hanno mai saputo fare con l’economia da quelle parti così sono passati da una svalutazione all’altra e adesso è anche saltato il banco. Così si sono rimessi a cacciare le balene come allora, anche se pare che in Giappone i magazzini siano pieni di carne invenduta perché non va più di moda per il sushi. Comunque c’è un posto dove arrivano le baleniere, non molto distante da Reykiavik e mentre arrivi sei ancora inseguito dalla puzza di uova marce del riscaldamento geotermico, con cui l’isola va avanti. E’ il fiordo delle balene, Hvalfiordur, incassato tra due rive basse e circondato da costruzioni in legno malandate. La nave era arrivata poche ore prima, aveva mollato il cetaceo su un grande scivolo di cemento su cui era stato trainato a terra e se ne era andata a rinnovare la caccia. Quando siamo arrivati, il grosso del lavoro iniziale era già compiuto. Rimaneva visibile solo la grossa testa del cetaceo ancora da attaccare, mentre il resto del corpaccio era gia stato quasi completamente sezionato; il grasso tagliato a grandi cubi bianchi da una parte, la carne ben divisa dalle ossa dall’altra, qua e là frattaglie varie. Scarti non ce ne sono, perché pare che anche qui sia come la storia del maiale, non si butta niente. Oh quante sono già ‘ste cose che non si butta via niente! Un gruppo di rudi lavoratori si affaccendavano attorno alle montagne rosse con lunghi arnesi che sembravano mazze da hokey , dove al posto della parte ricurva stava un largo coltellaccio, con il quale squartavano, tagliavano, spartivano, squadravano. Attraverso piccoli altoparlanti veniva diffusa, non si capisce per quale ragione, una musichetta bavarese, allegra come quella delle riunioni delle SA nella birreria di Monaco. C’era nell’aria un odore di morte, di sangue, di pesantezza. Al fianco, i rivoli di fluidi tornavano adagio adagio al mare lungo lo scivolo. Ce ne andammo alla chetichella, dopo aver fatto qualche foto, guardati male dai tizi con le lame. Ci fermammo solo dopo molti kilometri su di una scogliera mozzafiato a fotografare delle colonie di pulcinella di mare vicini ai nidi. C’era una chiesetta di legno vicino, sulle pareti un dipinto, pescatori che acchiappavano i pulcinella con una specie di rete per farfalle e dietro la chiesa, su un muretto a secco, una foca scuoiata. L’uomo è predatore. Dopo qualche tempo chiusero la pesca, ma la scena mi rimase un po’ storta e quando anni dopo mi mangiai un a fetta di balena a Tokio, faticai un po’ a mandare giù il bolo. Per questo non andrò mai a visitare un macello suino.

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