sabato 31 ottobre 2009

Il dubbio.

Stamattina sono offuscato dal dubbio. Sarà la nebbia novembrina che sale e che fa sembrare tutte le macchine grigie metallizzate, chissà. Fatto è che l'altro giorno leggevo il mio giornale preferito, quando ho scorto un articolo che parlava di una cosa che, per esperienze passate di lavoro, conoscevo benissimo; mi ci sono subito attaccato come una cozza. Il giornalista non sembrava uno sprovveduto, anzi pareva una penna di taglio alto, scriveva usando con perizia l'arma dell'ironia, usando con abilità l'arma dialettica per demolire con sarcasmo duro e mordace un ente, indicato evidentemente come inutile. Tutto, dal nome stesso, alla sua presunta attività, veniva con intelligenza usato in questa opera utile di demolizione. Ebbene, conoscendo bene l'argomento dall'interno, raramente mi è capitato di leggere tutte assieme una tale sfilata di inesattezze, di castronerie validate, di cattiveria inutile e sfregiante, il tutto volto a dimostrare un teorema che non ha nessuna attinenza con la realtà. Ci sono rimasto male. A cosa può essere dovuto un livore così gratuito e degno di miglior causa? Così mi sono venuti alla mente casi analoghi che mi erano accaduti anni fa, proprio nell'esame di situazioni che conoscevo bene, quando era in atto la campagna di stampa per l'abolizione dell'atrazina, quando sui giornali a firma di penne che si dichiaravano competenti della materia, si leggevano cose talmente travisate o addirittura contrarie ad ogni logica, da denunciare una totale incompetenza del settore. Quasi che, con un disegno ben preciso, si incaricasse un abile scrittore di parlar male del sarchiapone. Ricordo l'unica mia esperienza diretta, quando un sedicente giornalista, che mi aveva intervistato a riguardo dell'andamento della produzione agricola del momento, pubblicò un pezzo che diceva esattamente il contrario di quanto da me dichiarato e interpellato su come avesse completamente rivoltato il mio pensiero, mi rispose: - Sa, sul giornale, noi dobbiamo dare un po' di colore alle cose per interessare i lettori.- Questo è il punto e qui nasce il dubbio. Ma allora, in tutti quei casi in cui l'argomento mi è sconosciuto, quindi nella maggior parte dei casi in cui si parla di cose in cui ho solo una conoscenza superficiale e che in base a fior di articoli, mi indigno, prendo parte psicologica a quanto viene raccontato e parteggio o in cui, grazie a quanto scritto, darei in testa agli infami, ebbene, ma non sarà che anche in questo caso negli articoli suddetti ci sono solo mari di scemenze gratuite, cose false e senza costrutto, buttate lì solo per fare colore o come esercizio di capacità retorica. Ricordo che alla scuola retorica di Atene, passava l'esame solo chi, data una tesi convinceva gli esaminatori e appena questi si dichiaravano d'accordo con l'assunto, doveva essere dimostrato esattamente l'opposto. Solo allora si veniva promossi. Mi dicono esperti in vari rami, medici, tecnici e così via, che quando leggono di cose in cui si ritengono esperti non riescono a capacitarsi delle scemenze che ci trovano. Ma se fosse davvero tutto così, se questa fosse la realtà globale del giornalismo, specie di quello alto, delle penne di qualità? Che dubbio, raga!

venerdì 30 ottobre 2009

Montone arrosto.

Il cono perfetto dei 5680 metri dell'Elbruss lontano più di cento kilometri si stagliava lontano con le curve precise dei suoi fianchi che si collegavano asindoticamente alla grande pianura coperta di neve, su cui il vulcano si formò milioni di anni fa. (La foto primaverile non vi inganni, l'ho fatta in un'altra delle innumerevoli volte che sono stato da quelle parti). Poi di colpo la notte ci sorprese lungo la strada del ritorno. Alla luce fioca dei fari di quando in quando i posti di blocco, già presidiati da imponenti OMON in mimetica che scrutavano con le torce all'interno delle macchine. Il possaporto dell'Italianiez era guardato più con stupore che con accuratezza e non si leggeva ancora nei loro occhi i bagliori dell' incendio ceceno, di certo manovrato ad arte sfruttando con sagacia le antiche ruggini montanare, che a pochi kilometri sarebbe scoppiatodi lì a un decennio. Ad uno di questi controlli incrociammo un potente fuoristrada targato Asti. Però come gira la gente. Guardando meglio, i quattro ceffi barbuti che la abitavano non venivano certo dalla pigiatura della freisa. "Cecenzy" mi assicurò Andrej, chiarendomi subito dove finivano tutte quelle macchine che vengono rubate dalle nostre parti. Un' altra conseguenza della perestroijka. Comunque, superata l'ultima collina, comparvero in fondo alla valle i primi casermoni di Cerckiesk. Ci aspettavano a cena e passammo a prendere dei fiori per la padrona di casa. Che passione hanno i russi per i fiori. In mezzo ad una situazione che parrebbe tetra e scolorita, nel grigiore bianco sporco della neve che lascia posto alla ruggine ed al fango primaverile, il colore dei fiori deve essere un forte antidoto alla depressione. Anche alla sera tardi potevi trovare un piccolo chiosco aperto dove preparare un bel mazzo. Arrivammo al villone del fratello dell'aspirante banchiere, dove ci attendeva un gruppetto di ospiti riuniti per accogliere lo straniero. La signora gradì l'omaggio floreale, ci fecero un po' di feste, poi le donne, moglie di Andrej che ci aveva accompagnato compresa, si ritirarono a mangiare in un' altra sala. Si sa, i costumi del Caucaso sono alquanto turcheschi. Il villone era recente e voleva testimoniare le improvvise fortune dei padroni di casa, con una grande ostentazione di mobili moderni di importazione, seppure un gran tappeto appeso al muro, dava spazio alla tradizione. Su un grande tavolo centrale imbandito con molti piatti di portata di insalate varie, troneggiava, in un enorme vassoio di almeno due metri, il barano, un montone intero arrosto, tagliato a pezzi minuti a formare una succulenta montagna di carne profumata. Cominciarono i brindisi; nella mia pridlazhenija, d'obbligo per chi a turno alza il bicchiere, parlai a lungo della mia soddisfazione di essere finalmente lì e di conoscere dei veri Circassi, popolazione che mi aveva morbosamente incuriosito fin da piccolo, quando facevo la collezione di figurine dei Popoli del mondo ed ero affascinato proprio dal Cicasso che era raffigurato come un severo e baffuto cavaliere con lunga pelliccia di astrakan. La mia prolusione fu molto apprezzata e la votka cominciò a scorrere lieve. Scoprii al mio fianco un agronomo e subito scattò la simpatia tra colleghi. Con l'aiuto di Zhenija si parlò di agricoltura e mi sembrò di essere a Castellazzo Bormida ad una cena di Coldiretti. Il sosia di Bresniev, aspirante banchiere, naturalmente presiedeva il tutto con fare paterno; spiegò, strizzandomi l'occhio, come la sua fede nel comunismo lo avesse portato ad una posizione importante, così da consentirgli di partecipare, in quel tempo di cambiamenti, alle nuove occasioni che si presentavano. Quando manifestò la serie di problematiche che impedivano l'immediato investimento di una serie di macchine da 50.000 dollari per fare le maglie, capii che della banca, per ora c'erano solo i depliant e che la strada era ancora lunga e futuribile. Lasciammo la compagnia a tarda notte, un po' malfermi ma ancora abbastanza lucidi per evitare il bacio in bocca del baffone sopraciliato, che mi afferrò stretto tentando di soffocarmi in un impeto amoroso dai sentori alcoolici. Del barano, nel grande piatto di finto argento, rimanevano solo le ossa.

giovedì 29 ottobre 2009

Passare le acque.

Con un pulmino sbuffante, tanto che ogni tanto ci si doveva fermare per far raffreddare l'acqua, percorrem-mo la strada verso est, lungo la riva del Kuban, il fiume che scendeva impetuoso dai contrafforti caucasici e che qui ormai non lontano dalla pianura era già largo e consistente. Le acque scure e impenetrabili allo sguardo, un misto tra il viola e blu scuro, correvano dure e violente come lo spirito di questa terra di monti aspri, isolati e forse proprio questo patrimonio genetico si trasmette alle genti che le abitano, un crogiolo di razze nemiche tra di loro, sempre pronte però a rivolgere verso l'esterno i carichi di odi antichi che nutrono tra di loro. Kabardini, Circassi, Avari, Ingusceti, Ossetini, Balcari, Karaciaievi, Ceceni, Daghestani e chissà quanti altri, tutti con dialetti diversi ma egualmente ostili, come del resto la maggioranza delle popolazioni che sono rimaste chiuse tra i monti, difese dall'esterno ma non da sé stessi. La strada saliva adagio fino al confine della repubblica Kabardino-balkaria dove stesa sui fianchi di una collina rude e coperta di neve ci aspettava Kislovodsk, la perla di questa regione, la stazione termale che gli zar vollero costruita a somiglianza delle cittadine delle acque svizzere e tedesche. La Montecatini del Caucaso. Qui sgorga la Narzan un'acqua miracolosa che il russo medio anela come panacea di tutti i mali. Lo stabilimento che la imbottigliava voleva nuove linee per sostituire le orrende confezioni sovietiche di vetraccio verde sporco. Presentammo un bel progetto, ma ci sarebbero voluti i piccioli e parecchi; si sarebbe visto in seguito, intanto girolammo per la cittadina con le sue costruzioni fin de siècle che si degradavano lentamente per l'incuria. Dalla stazione dove arrivava direttamente il vagone con la famiglia dello zar a passare le acque, lungo una grande arteria centrale ormai spoglia e trasandata, fino alle kursaal di stile prussiano dove una sparuta truppa di curandi beveva con avidità l'acqua miracolosa che sgorgava dalle fontanelle tra le pareti di marmo giallastro. Era il paradiso sognato da Zhenja che qui trascorse almeno due periodi di vacanza con la famiglia. In russo non si usano espressioni come fare le ferie, andare in vacanza e così via. C'è solo un verbo che va per la maggiore, "otdikhat' " che si traduce "riposare". Questo era l'unico concetto di vacanza del lavoratore sovietico. La meritata putijovka, che si poteva avere secondo i meriti o meglio le raccomandazioni per trascorrere un mese al mare in Crimea o sulle rive del Baltico a Jurmala, oppure meglio, in uno dei sanatorij che sorgevano numerosi nei vari posti termali in giro per l'Unione sovietica, da Jangantau, negli Urali a a quelli del Caucaso, proprio fino a Kislovodsk il più ambito di tutti. Magari toccava a te e non a tua moglie, che sarebbe stata premiata nell'anno successivo, ma quello era "riposare". Zhenija mi portava qua e là a mostrami le bellezze del posto, magnificandone la tranquillità e la pace, senza contare i benefici per la salute e roteava gli occhi sognanti, guardando con desiderio il lontano sanatorij che spiccava bianco sporco sul fianco del parco coperto di neve ghiacciata. Anche qui le cose cambiavano rapidamente; fine della putijovka, amico caro, se vuoi riposare te la devi pagare la camera e la mensa pure, con che soldi non si sa, rimuginava meditabondo Zhenija con gli occhi bassi e rancorosi. Stavano aprendo infatti, due o tre locali privati (l'aria della privatisazija stava soffiando anche lassù) e in uno che ostentava tavoli nuovi di legno chiaro mangiammo un paio di pesci secchi con vodka, vista la cena a base di baran che ci aspettava al ritorno. Bisogna contentarsi quando l'iniziativa imprenditoriale è ancora acerba ma volenterosa. C'erano anche i caffè, con una macchina arrivata appositamente dall'Italia, ci apostrofarono con un sorriso magnificatorio i due splendidi occhi azzurri che raccoglievano le ordinazioni nel locale deserto. Li ordinammo golosamente; erano imbevibili, un saporaccio di gomma bruciata sovrastava tutto. Ci disse la ragazza che nessuno la sapeva usare quella macchina infernale e che si erano bruciati subito tutti quegli strani anelli di gomma che stavano tra il caffè e il vapore, ma il padrone aveva detto che andava bene lo stesso, tanto nessuno sapeva che gusto dovesse avere il caffè all'italiana e quello andava benissimo. 750 rubli cadauno.

martedì 27 ottobre 2009

Fegato di merluzzo a colazione.

Ed eccoci di nuovo sul treno del sud. Anzi, adesso stiamo scendendo dai larghi predellini nella fumosa stazione di Cherckiesk, trascinando tutte le nostre masserizie con l'aiuto di Andrej che si prodiga a farci evitare l'intervento di interessati facchini (per meglio seguire i dettagli del viaggio, secondo suggerimento troverete in fondo una specie di mappa). Era un biondino giovane, Andrej, o perlomeno che sembrava giovane, con l'occhio furbetto di chi ha capito che in un mondo che sta cambiando devi salire sul treno giusto. Caricammo tutto su un pulmino cadente che ci portò subito all'unica struttura ospitativa della città: la gastiniza Kimik, un basso residuato di architettura sovietica di periferia, di proprietà del complesso Kimik appunto. Era usuale a quei tempi in cui in effetti gli alberghi non servivano se non ad ospitare incaricati delle varie organizzazioni, comandati a svolgere una attivività fuori sede, la kommandirovka, di avere delle strutture dove ospitarli. Una bionda e stanca addetta al bancone (erano solo le otto di mattina) emerse da un retro dove ronfava alacremente e stropicciatasi gli occhi azzurri e controllati i documenti, la mia camera (liux) passò di colpo da un dollaro a 35 dollari, essendo io straniero. Per bilanciare, Zhenja si accontentò della camera standardna a mezzo dollaro. Doccia calda per togliere le incrostazioni delle due notti in treno e poi, via decisi verso la colazione, in un club aperto appositamente per la nostra bisogna. Pare che nell'immaginario russo, l'occidentale mangi come un lupo feroce, per cui avemmo fegato di merluzzo con uova, filetto al coriandolo, una insalata, una scodelletta di smietana e gelato. Spendemmo l'equivalente della pensione della mamma di Zhenja che, stravolto dal fatto, svuotò tutti i piatti con una avidità atavica e l'occhio stranito. Quindi si parte per il primo dei molti incontri che Andrej ci aveva preparato. Era una fabbrichetta di maglie che necessitava di ammodernare alcune macchine. Il proprietario ci ricevette con grande entusiasmo. Era un sosia perfetto dei Bresniev nelle dimensioni, negli occhi sporgenti e soprattutto nelle cespugliose sopraccilia, con una tremenda tendenza ad abbracciarti strettamente con finale di classico bacio sulla bocca. Impreparato all'evento ci cascai facendo comunque buon viso a cattivo gioco. Quanti personaggi come questo avrei conosciuto negli anni a venire. Tutti maggiorenti del partito, apparatcniky con cariche più o meno importanti che avevano fiutato l'aria del cambiamento e adesso che spirava il vento della privatisazija si apprestavano a diventare proprietari di tutto, passando da un potere provvisorio alla possibilità, in un mercato quasi selvaggio, di vedere il vero colore dei soldi, quelli veri e verdi, i dollari, quelli con cui si sarebbe potuto fare tutto, questa era la vera libertà. Intanto questo tipo aveva fondato anche una banca, mettendo insieme alcuni amici, con cui si proponeva di entrare nel giro grosso. Non era molto difficile in quel momento avere di queste iniziative e credo che i pochi scogli venissere risolti con metodi alquanto spicci. Comunque, come di tradizione, voleva che ci fermassimo a pranzo, ma avendo già un altro programma, rimandammo per la cena. Non si poteva rifiutare saremmo andati alle otto nella nuova villa del fratello che per l'occasione, il giorno prima aveva proprio per noi ammazzato il montone. Impossibile rifiutare la tradizionale ospitalità caucasica.

lunedì 26 ottobre 2009

Un altro blogger alessandrino.

Rimbrottato sul web perchè non riesco più a scendere dal treno per il Caucaso, darò, giustamente, una giornata di tregua, anche perchè mi preme presentarvi una figura molto interessante che aiuterà, chi è interessato a meglio comprendere il virus dell'alessandrinità, integrando quello che a suo tempo, aveva già così ben detto il mio illustre compaesano semiologo e frequentatore del mio stesso liceo, oltre che della storica farinateria Savino (che tra l'altro ha riaperto da poco i battenti con risultati tutto sommato accettabili). Veniamo al dunque. Con un'operazione a mio parere meritoria, l'Archivio di stato di Alessandria sta pubblicando a puntate i cartolari del Conte Pietro Civalieri, un Alessandrino Doc di cui riporto la silhouette ripresa dal volume presentato qualche sera fa, che ha visto alcuni momenti dei più potenti cambiamenti della storia Europea e Sabauda prima e Italiana poi, descrivendola con un atteggiamento tipicamente alessandrino e quindi anche sotto questo aspetto interessante. Queste migliaia di pagine che ci ha lasciato, con un racconto quasi quotidiano, costituiscono un vero e proprio blog antelitteram per capire il suo tempo ed anche per penetrare meglio l'atteggiamento tipico dell'alessandrinità. Essendo vissuto tra il 1787 e il 1870 ha potuto vedere tutti i fatti che partono dalla rivoluzione a Napoleone, alla restaurazione ed il passaggio dal piccolo regno sabaudo alla formazione dello uno stato italiano, vivendo i moti rivoluzionari e le guerre di indipendenza da un punto di vista interno e quindi assolutamente privilegiato. Ancor giovane viene mandato in missione nella Parigi postrivoluzionaria dove è ricevuto da Napoleone e conosce Chateaubriand che lo invita a casa sua e gli mostra:
diverse cosarelle indigene de' selvaggi d'America portate da lui stesso da quel lontano paese
o Madame de Stael che lo ricolma di sguardi languidi e gentilezze, oppure dell'incontro con la bellissima Duchessa di Castiglione, che in sua presenza, durante il ricevimento dall'imperatrice, viene colta da malore e che lui aiuta offrendole la sua boccetta di sali d'aceto che lei trattiene senza restituirgli. La rivede il giorno dopo ed ella lo ringrazia e anche se si scusa della dimenticanza:
votre petit flacon est toujours sur ma cheminée et me rappelle votre amable
procedé
ma se la tiene e lui non manca di far notare che
il mobilino , che era bello in verità, di cristallo tagliato a guisa di diamante
e tutto piccino ch'egli mi havea costato Lire 15.
Molto alessandrino, come le molte descrizioni di fatti e di persone della città che egli racconta con il nostro solito stile, lodandone le doti ma immancabilmente stilettando i difetti alla fine, con il più classico in cauda venenum.
La Marchesa di Sangiorgio era alta di statura, giammai bella...avea
sufficiente talento naturale e ben fornita d'istruzione. Nobile il tratto ma
mordace il parlare e quantunque di continuo applicata alle pratiche della
Religione, non era da taluno creduta veramente divota...Il suo tono allontanava
tutti da lei e non fu mai corteggiata e amata, quantunque il suo stato di fortuna
gli permettesse di ricever gente ed anzi ambivalo. Lasciò debole memoria di sé in tutte le classi e compianta, credo, da pochi.
Anche lui non resiste a tentar di definire il nerbo dell'alessandrinità:
Un non so che di protervo germina nell'animo alessandrino che fa distinguere
ovunque i suoi rampolli. Io il credo conseguenza della origine di questa
città che contrasse fin dal suo principio un non so che di rozzo nei modi e di
indipendente nel carattere che alimentossi di continuo nelle vicende delle guerre
... e le alternate vicende politiche la fecer cambiar di padrone tante volte in
pocho tempo, e impararon gli abitanti dall'esperienza acquistata ad esser cauti,
prudenti e ristretti in sé stessi, onde evitare le reazioni disastrose che
portan seco l'avvicendar de' governi di diverso colore e non v'ha dubbio che
l'uomo che si sia formato in quelle qualità, acquista energia nel pensare e
quindi l'indipendenza dell'opinione.
Indipendenza che avrà sempre fortissima quando dal gossip cittadino e dalle maldicenze licenziose gustosissime, passa ai commenti politici criticando duramente, con battute di un sarcasmo feroce il governatore Galateri inviato dalla Corte Sabauda per mettere a posto questa città di furfanti ( e in quel periodo si fucilava con una certa scioltezza), mettendone in ridicolo le manie di rendersi bello e presentabile o raccontandone con voluttà tutte le gaffes di quel "imbecille ed inetto governatore" che ogni giorno si immagina, venissero commentate con sarcasmo al Caffè o nel ridotto del Teatro . Ma non voglio più oltre togliervi il piacere di scorrere queste memorie raccolte da Panizza (direttore dell'Archivio) e Ivaldi con le dottissime note di Livraghi, tanto più che rivolgendovi all' Archivio di Stato di Alessandria potrete ottenere copia gratuita dei primi tre volumi pubblicati che vanno dall'inizio al 1836. Tanto per essere alessandrini fino in fondo.

sabato 24 ottobre 2009

индийский или китайский?

La notte in treno è lunghissi- ma, intermina- bile. Per la verità quel treno era sporco e puzzolente da far schifo, un vero cesso, il cesso poi non parliamone, impraticabile. Zhenja era esterrefatto. Lui che mi aveva magnificato la comodità e l'efficienza delle ferrovie sovietiche, non si capacitava di quel cambiamento che, atteso e desiderato da tutti con la speranza di un benessere a lungo bramato (non certo di libertà, cosa di cui si interessa solo chi già ce l'ha), a poco a poco invece erodeva in tutti i campi le poche certezze e le cose già acquisite. Queste si andavano perdendo in cambio di nulla o tuttalpiù di lontane future opportunità. Ricordo la sua faccia sconsolata, quando al mattino tornò nella nostra tana con le pive nel sacco, dopo essere andato a cercare il servizio del thé, dal grande samovar situato in cima al vagone. -C'é solo calda acqua, prego la scusa- borbottò depresso; eppure sui vagoni doveva sempre esserci thé pronto, Indjsky o Kitajsky, indiano o cinese a scelta. -Ecco- cominciava sempre così la frase quando era nervoso - quando c'era Lui, se succedevano mancanze di questo genere, qualcuno avrebbe preso la strada per Magadan. - meditava, quasi nostalgico, rimpiangendo e citando un gulag siberiano che andava per la maggiore ai sui tempi. Eravamo già intanto entrati in territorio ukraino. Alla stazione di Karchov, dove il treno sostò per un po', ci aspettava Alexiej a cui lasciammo un po' di materiale per organizzare gli incontri che avremmo avuto di lì a qualche giorno, quando saremmo tornati. Poi il treno ripartì lento ma costante. Fuori, per quanto si scorgeva tra i ricami del ghiaccio, una infinita terra bianca, solo leggermente ondulata, una serie non scandita di bassopiani privi di punti di riferimento. Traversammo il Don vicino al Mar d'Azov senza scorgerlo, tanto mi confondevano le sfumature di bianco e di grigio dell'orizzante lontano. Un mondo alieno quasi impossibile da raggiungere e da vivere. Non una casa, non un paese, neppure lontano. Eppure una cinquantina di anni prima, quanti italiani da queste parti a calpestare questa neve, persi in questo ghiaccio, nei racconti di qualche mio vecchio collega del Consorzio che se l'era fatta tutta a piedi per tornare a casa, lasciando qui, chi qualche dito, chi una gamba, chi la vita. Storie senza un senso di logica in questo deserto bianco. Tornati in territorio russo, il pallido bagliore del giorno comincia a scemare, anche se scendendo sempre più a sud la notte arriva più lentamente. Alle stazioni una coorte di venditori assale i vagoni con mercanzia varia, soprattutto mangereccia, zampe di pollo bollite, pesci secchi o affumicati, uova, pyrosky e polpette, guanti e calzettoni di lana ruvida. Hanno la merce disposta a terra su cassette di legno, che le babuske, qualcuna ancora con i valenky, gli zoccoli di legno e feltro spesso, lasciano per lanciarsi all'assalto dei vagoni. Una vecchietta insiste a lungo, mostrandoci la sua composta di cetrioli, un'altra con un grosso contenitore di smietana vuole riempirci le scodelle. Zhenja è inorridito dai prezzi; in quelle settimane di liberalizzazione e di trasparenza, di glasnost e perestroyka, l'inflazione cominciava a mordere e si intravedeva il triste futuro dei mesi successivi, ma chi non era abituato, chi viveva in un mondo in cui i prezzi erano immutabili da decenni, addirittura sbalzati a rilievo sulle scatole di latta dei biscotti e del thé, tutto questo straniva e spaventava. Lui che viveva di certezze, era come sbalordito di fronte a questi cambiamenti così imprevisti, così negativi a fronte delle aspettative. Benvenuti nel libero mercato, ragazzi, sembravano dire i venditori di barrette di schifezza dolce similMars a 500 rubli cadauna. Zhenja che fino a tre anni prima era felice perchè ne guadagnava 300 al mese, guardava senza capire bene quello che stava succedendo, il futuro prossimo che si stava preparando. La seconda notte fu meglio della prima. Non sentivo più la puzza e la stanchezza accumulata mi fece dormire. Al quarantunesimo minuto, dopo le 31 ore previste, il treno entrò lento nella stazione di Cerkiesk, con trenta secondi di anticipo sull'orario. Io ero stupito, Zhenja, invece si era rasserenato, finalmente una cosa normale, come tutto dovrebbe essere. In fondo alla banchina, stretto in un cappotto liso, ci aspettava Andrej.

venerdì 23 ottobre 2009

Odore di formaggio.

Che lunghi i treni russi! Non se ne vede la fine, né la locomotiva che scompare lontano, in cima al binario nel buio della notte. Salimmo nella vettura numero 6 trascinando il bagaglio alla ricerca del nostro scompartimento. Non c’era la vettura coupé con gli scompartimenti da due e il nostro aveva quattro letti che avevamo acquistato in blocco per poterci barricare dentro al sicuro. Ci mettemmo subito nella cosiddetta tenuta da viaggio, pantofole e tuta a più strati. Il viaggio in treno in Russia ha una valenza diversa che da noi; a meno che non si tratti di una eletricka locale per pendolari che si muove entro i cento kilometri; così i viaggi in treno sono infiniti e possono durare giorni. Si dice là che cento anni non sono un tempo e cento kilometri non sono distanza. Gli spazi sono infiniti e uguali, le ore non hanno lo stesso valore. Ci si prepara ad affrontare questo momento come un periodo della vita da trascorrere comodamente, se possibile. Il numero di strati della tuta è riferito alla possibilità di trovare temperature molto differenti tra di loro, la presenza variegata di ogni sorta di pantofole giustifica la terrificante puzza di formaggio andato a male che aleggia nell’aria viziata dei vagoni, dove i finestrini sono tutti bloccati a causa del freddo esterno. Per fortuna dopo una ventina di minuti il cervello si adatta e la puzza scompare dalla mente in modo automatico. Già il freddo. Normalmente ci si aspetta che lo scompartimento sia una specie di forno ad oltre trenta gradi, ma quella volta, come altre, il riscaldamento funzionava poco mentre la temperatura esterna continuava a scendere. Quindi equipaggiamento pesante, mentre sul finestrino i fiori di ghiaccio delicati e leggeri si allargavano sulla superficie. Però non eravamo stati fortunati, dal nostro schermo sul mondo esterno adesso buio e gelato, penetravano sibili di aria tagliente. Utilizzammo quasi tutto il nastro adesivo che avevamo con noi per le emergenze, al fine di chiudere buchi e fessure. Il treno si mosse adagio e silenzioso, prima di lanciarsi verso sud sul binario infinito. Avevamo ormai sparso le nostre cose per rendere più umana la nostra permanenza in quel luogo ostile, quando la capa vagone, una nanerottola infagottata in una divisa sciatta e sgualcita di due misure più grandi del necessario, bussò alla nostra porta e con occhio astuto ci comunicò che essendoci due posti liberi ci avrebbe mandato altri due passeggeri. A nulla valsero le proteste di Zhenja che mostrò, biglietti alla mano, di aver pagato per quattro posti. Si accalorava per difendere la posizione, ma dal tono della voce dimesso capivi l’inutilità dell’ opposizione al potere. La voce della guardiana del gulag era tagliente: – Tovarishy, se ci sono posti vuoti ho il dovere di riempirli.- Usava ancora l’appellativo compagni, che stava cominciando ad andare in disuso in quel momento di disfacimento delle regole e dell’ordine. Discutemmo un po’, ma la graduata , che si calcava continuamente il cappellaccio sulle ciocche di stoppa grigia che le uscivano sulla fronte, sembrava irremovibile. Solo la vista dei rubli, la ammansì. Ci accordammo per mille rubli che si ficcò in una tasca interna della giubba mentre trascinava il suo culone lungo il corridoio, fino al suo stambugio. Finalmente soli, cercammo di distenderci a riposare un po’ mentre le scosse del treno erano diventate un ritmo regolare e quasi amico e il mondo esterno una cupa caligine sconosciuta.

giovedì 22 ottobre 2009

Il treno per il sud.

Forse qualcuno si chiederà il motivo di questo amarcord sovietico che, credo, se siete d'accordo, ci accompagnerà come la lagna monocorde di una trifonia mongola, anche nei prossimi giorni. Il fatto è che ho miracolosamente ritrovato una agenda dell'epoca in cui mi segnavo con cura gli eventi giornalieri, per me così carichi di nuove esperienze. Aggiungete questo all'abitudine di conservare anche una piccola documentazione iconografica e il gioco è fatto. Dunque ci siamo lasciati ieri mentre andavamo verso la Yugovagsal, la stazione del sud, con le gambe un filino malferme in seguito alla cena che avevamo avuto con il presidente di una importante fabbrica di vodka, a cui avevamo venduto una linea di riempimento, con al seguito sottopancia ed amica del cuore. Dato che mancava una quindicina di giorni al suo ricovero annuale in clinica per disintossicare il fegato provato dal suo duro lavoro, ci aveva dato dentro con i campioni appena imbottigliati del suo stesso prodotto, coinvolgendoci nei brindisi ripetuti. D'altra parte, come diceva lui, la sua era una malattia professionale, se fosse stato presidente di una miniera avrebbe avuto la silicosi e sarebbe stato anche peggio. Lo riportarono in albergo sostenuto dall'autista e dal sottopancia, mentre la signora che aveva finito una intera bottiglia di Cinzano rosé, cantava allegra Funiculì funicolà. Comunque la stazione era vicina, ma quando scaricammo le valigie dalla macchina, l'ambiente non era rassicurante, giravano ceffi di ogni genere, alcuni a gruppetti con la faccia di chi si spartisce il bottino dopo la rapina, altri appoggiati agli stipiti come avvoltoi in attesa di preda. Zhenja e G. che ci accompagnava, si guardavano attorno con cautela, resi attenti dall'esperienza che in in quel periodo, in cui si stavano sfaldando le maglie di un regime oppressivo e controllore, raccontava di una Mosca particolarmente pericolosa per gli stranieri. I moscoviti, poi, avevano sempre avuto particolare astio per la gente del Caucaso, i cosiddetti culi neri, furfanti e dediti per costume ed inclinazione naturale al malaffare, responsabili di ogni nefandezza che accadeva a Mosca, come si è ben dimostrato successivamente, nella guerra cecena, che tutti in Russia appoggiavano entusiasticamente. Si sa la gente del sud è tutta mafiosa e al più sono solo dediti a far festa suonando la dambrà (un tipo di mandolino) e a mangiare lepioske (una sorta di pizza). Comunque avevamo, tra campioni, materiali di lavoro e viveri di sussistenza quasi cento chili di valigie in due e si imponeva un facchinaggio. Scendemmo con cautela lungo un tetro sottopasso, dove stazionavano venditori improvvisati di giornali e cibarie varie. Un bel cartello sul muro recitava "Servizio bagagli: 40 rubli", ma la cosca dei tartari che aveva in mano il business e che ci aveva subito individuato e circondato, dopo una lunga trattativa si accontentò di soli 10.000 rubli. Un vero affare, prendere o lasciare, d'altra parte, come ci spiegò bene il loro caporale, di stranieri non ne circolavano quasi e anche loro tenevano famiglia. Ci trascinarono i colli lungo la fetida banchina, fino al treno che partiva a mezzanotte precisa. G. mi abbracciò salutandomi e raccomandò a Zhenja di stare in campana. "Prego la scusa - disse lui - ma vado a cercare il capovagone". Così salimmo per trovare lo scompartimento che avevamo prenotato, tramite un amico che ci aveva raccomandato (i biglietti allora non si compravano alla biglietteria, ma tramite "conoscenti") per averlo (pagando il giusto) tutto per noi. Ci aspettavano 31 ore e 42 minuti di viaggio prima di arrivare alla repubblica Karachiajevo-Cherckieskaja.

mercoledì 21 ottobre 2009

Il colbacco di volpe.

Il gennaio del '93 era gentile a Mosca e la temperatura scendeva di poco sotto lo zero, ma G. mi portò ugualmente all'Arbat, pieno di bancarelle, a comprami una shapka degna di questo nome, perchè non si viaggia in Russia d'inverno senza un colbacco decente. Trattammo un po', G. fa sempre una faccia schifata quando deve comprare qualcosa, forse fa parte del suo modo di condurre la trattativa; alla fine ne scegliemmo uno giallastro di volpe che mi piaceva molto con quella sua virgola scura sul davanti. Con venti dollari avevo la testa calda e potevo pensare più tranquillamente, così ha finito per accompagnarmi per anni in tutti i miei vagabondaggi invernali eurasiatici e la tengo cara ancora oggi anche se è un po' spelacchiata, quella vecchia volpe siberiana gialla. Andammo poi al Sadko, l'unico supermercato aperto in quel periodo dove trovare generi di conforto che mi tenessero su il morale durante il cammino. Fuori c'erano le vecchine che riportavano i carrelli per qualche rublo di mancia. Agli angoli, c'erano anche le venditrici di gelati, dei cilindroni di cialda, ripieni di un buonissimo gelato alla panna che sapeva di burro, di latte fresco. Ce ne prendemmo uno da una biondina che vendeva anche guanti fatti in casa. La gente cominciava ad essere intraprendente. Le cose cambiavano rapidamente nell'URSS e stavano sparendo anche i distributori di kvas agli angoli delle strade. Erano degli armadioni di acciaio dove infilavi una monetina da 3 kopechi (sì c'era la moneta da 3), poi, velocemente afferravi un bicchiere di latta legato ad una catenella perchè non se lo fregassero e lo mettevi sotto un getto di liquido opalescente ambrato che lo riempiva fino all'orlo e te lo bevevi col collo un po' storto a seconda della lunghezza della catenella. Aveva un sapore acidulo ma non sgradevole; chissà se qualcuno se lo fa ancora in casa questa specie di protobirra, un fermentato a basso tenore alcoolico di cereali o di qualunque altro scarto vegetale casalingo. Se lo saranno dimenticato anchi i russi oggi, come da noi la miscela Frank che mia mamma metteva alla sera nel caffè e latte. Comunque al pomeriggio la valigia era pronta, i documenti di viaggio anche, il fido Zhenja che mi avrebbe accompagnato, pure; io, che certo avevo un po' di timore, ero però eccitatissimo per quel lungo viaggio che mi preparavo a fare, di treno in treno alla scoperta di una Unione Sovietica per me assolutamente sconosciuta ma fascinosa. Mentre a tarda notte andavamo verso la Yugovagzal, la stazione dei treni che vanno verso Sud, non sapevo ancora che stavo partendo dall'URSS e dopo quasi due mesi sarei tornato nella Russia, un paese nuovo carico di una serie inaspettata di nuovi problemi che i suoi abitanti, così ansiosi di cambiamenti, non si attendevano.
Continua...

martedì 20 ottobre 2009

Due ruote.

Che giornata bigia. Magari tra un po' piove, così tarpa definitivamente le velleità degli sportivi, siano essi runner (ormai in partenza per la grande mela) che ciclisti (vista la fine delle grandi classiche). Che si appendano le biciclette al piolo in cantina. Beh mica tutti lo fanno. Certo Angelo non lo faceva. Chi è della mia città e frequentava il cenacolo (nel senso che era frequentato da un certo Ceni) del Bar Baleta, non può dimenticarselo certo. Da anni, aiutava, se pur già anziano pensionato, il buon Gino nei vari servizi del bar, curando con occhio benevolo le schiere di giovani sfaticati e gli studenti poco diligenti che, marinando le lezioni (che vocabolo di sapore antico!), passavano le mattinate ai biliardi. Ma Angelo aveva una passione smisurata e gli occhi, un po' tristi quando serviva le gazzose, si accendevano improvvisamente di viva luce, quando qualcuno gli allungava una battuta sulle biciclette e il ciclismo. Aveva corso forse un paio di stagioni tra i professionisti in gioventù e la bici e le gare gli erano rimaste nel sangue e in fondo al cuore aveva un grande sogno, forse simile a quello che tutti coltivano quando si appassionano ad uno sport: diventare campione del mondo. Certo detta così suona un po' velleitario e pietistico, ma quell'idea che stava in cima ai suoi pensieri non era poi così folle. Benchè ormai ultrasessantenne, partecipava infatti ogni anno ai campionati del mondo di ciclismo per amatori che si svolgevano in Austria e che erano divisi per categorie di cinque anni in cinque anni. Questa gara mondiale era un appuntamento autunnale a cui dedicava tutto il suo tempo libero nel corso dell'anno. Allenamenti scientifici alle sei di mattino sulle colline intorno a Novi che a suo dire avevano caratteristiche del tutto simili al circuito salisburghese, ore di fatica e sudore per preparare il fisico alla prova annuale. Aveva un grande nemico, un belga fortissimo, di un anno più giovane, che era stato un buon professionista e che tutte le volte lo fregava in volata. Quando lo sollecitavamo sull'argomento, storceva la bocca con un sorriso amaro e diceva: " Sì, sì va forte, ma io lo so che roba prende prima della corsa" e se ne andava borbottando col vassoio dei bicchieri vuoti, meditando contromisure e bombe miracolose per la successiva stagione. Si sa, il doping è sempre stato parte integrante del ciclismo di tutti i tempi ed un aiutino viene giustificato con connivenza negli ambienti delle due ruote e la sua bomba era il Vov di cui faceva grande uso prima di ogni allenamento perchè gli dava a suo dire grande energia. Quell'anno però era diverso. Aveva, credo appena superato i settantacinque e ci raccontò che sarebbe passato nello scaglione di età successiva, lasciando l'arcinemico nella categoria 70-74. Quell'anno ce l'avrebbe fatta sicuramente a diventare campione del mondo. Era il più forte e cominciò già in inverno una preparazione forsennata in un crescendo continuo fino all'estate. Ma il destino aveva mescolato diversamente il mazzo di carte anche quella volta. La discesa che affrontava senza paura, era sempre stata la sua grande forza. Ma un camion o forse da solo, spinto dalla sua sola voglia di vincere, fermò il suo sogno e il suo sorriso amaro lungo le strade amiche della sua fatica, quando al termine di una di quelle velocissime discese, lo trovarono, dopo l'ultima curva, in fondo ad una scarpata. Chissà se qualcuno conserva ancora una foto di Angelo da mandarmi.



Ecco qua, la foto è arrivata, Grazie Gino, anche il nostro Forrest Gump aveva i suoi momenti di gloria.

lunedì 19 ottobre 2009

Se ancora occorresse sottolinearlo, la grafia cinese è fortemente influenzata da una attenta osservazione di quanto ci circonda. Così il radicale semplice Mù - "occhio" era disegnato nell'antichità come una classica losanga con il segno della pupilla al centro, il più classico dei pittogrammi; se non sbaglio si trova identico nei geroglifici egiziani con il segno Irt che significa appunto vedere. Col tempo il segno venne verticalizzato per uniformarlo alla grafia classica e stilizzato per praticità, riducendo la losanga a rettangolo e la pupilla ai due tratti orizzontali interni. Il carattere serve poi unito ad altri per formare innumerevoli parole della lingua comune, sempre però costruite con il senso poetico della Cina contadina. Così unito al segno di "albero" dà il significato di "ispezionare" (Xiang) rimarcando questo aspetto birichino dell'occhio che osserva stando nascosto dietro ad un albero, quindi guarda, non visto, per poi dare un giudizio successivo non condizionato, anche perchè gli ispettori dell'imperatore erano assai severi ed incorruttibili nel riportargli le magagne che osservavano andando in giro per l'impero; niente mazzette, se no, quando colti sul fatto naturalmente, zac, via la testa. Non è certo che poi questo servisse realmente ad eliminare la corruzione che forse è un tarlo insito nell'uomo, che nessuna scure di boia può fermare. Basti ricordare a questo proposito che i contratti standard che si firmano in Cina contengono una clausola che rimarca l'impegno per il venditore a non usare strumenti di corruzione verso la parte compratrice. Se è necessario sottoscriverlo, significa che la cosa è un bel problema, nonostante tuttora sia prevista in molti casi appunto la pena di morte. Ma per i cinesi , quantomeno era importante che almeno l'imperatore e le persone che lo circondavano non fossero corrotti, perchè questo dava armonia a tutto quello che ne discendeva e l'esempio (dice il solito proverbio cinese) viene dalla stanza più alta. Che levità, che senso della poesia, come quello appunto, che conduce al secondo carattere di oggi: Mi -sorridere-. Quando si pensa a quanto abbiamo appena detto, per esempio, i muscoli mimici si contraggono e gli occhi si stringono fino a diventare piccole fessure, piccole appunto come come granelli di riso, ovali e sottili, dunque ecco accanto al segno di occhio quello del riso (-Mi- appunto che serve anche a ricordane la pronuncia fonetica). Ridere fa bene, sorridere ancora di più, serve a vedere il modo e le sue corruzioni con un occhio (appunto) distaccato e sereno.

domenica 18 ottobre 2009

Dune 2

Quella di ieri era una minaccia e va mantenuta. Dunque bisognerà descriverlo questo deserto che tanto mi prende, coi suoi colori soprattutto. Già, il colore del deserto che accarezza le dune durante tutte le ore del giorno e accompagna il rumore del motore dell'auto alternandosi in dissolvenze continue negli scatti del contachilometri. Quando il mantello nero di Nut si sfuma in grigio, già in alto si sta combattendo la battaglia tra il rosa dell'aurora e l'arancio destinato a trionfare. Sulle dune più lontane la veste rosa si muta di colpo in giallo cupo, che si rischiara pian piano col passare dei minuti. Mentre il sole si alza, il giallo si illumina sempre di più fino a che le creste delle dune, ora più vicine, formano linee dorate e preziose. Poi, mentre la pista si infila tra le sabbie, il bianco abbacinante copre ormai tutta la landa a perdita d'occhio, scontrandosi all'orizzonte con l'azzurro terso e limpido. Dopo il meriggio, lungo tutto l'arco di caduta del sole, è un alternarsi continuo di tutta la gamma delle ocre. Dapprima tenue e chiarissime, quasi a confondersi col bianco, poi terre gialle che vanno scurendosi col passare delle ore, le sfumature d'ocra dipingono i fianchi dolci dell'erg modellati da un vento sottile ma sempre teso. Infine, mentre le dune circondano la pista alte come montagne, tutto il sangue che il sole perde nella sua voglia di vivere, riempie terra e cielo, impregna la sabbia poco prima che, mescolate al viola ed all'indaco, le lunghe dita nere ricolino giù dai fianchi ripidi e impercorribili. E' proprio tutta una sbrodolata di frasi fatte, ma è proprio così che accade. Però, su tutte le sensazioni che il deserto provoca, quella che più ti prende alla gola è anche la più letteraria di tutte: la paura. Anche se il deserto è vivo, e scorgi qualche traccia di animali qua e là, o cerchi il branco dei cavalli selvaggi nel Namib o vedi dromedari lontani o piccoli insetti che si nascondono nella sabbia, solo la stretta strada asfaltata col suo nastro nero o la pista battuta da antichi passaggi, sono punti di riferimento che rassicurano, anche se da ore non si incontrano altre auto e si cerca ansiosi la prossima balise. Però quando ci si ferma a lato e si percorrono anche solo pochi metri oltre un monticello di sabbia terrosa o ci si inoltra tra due grandi dune, improvvisamente i recettori inviano alla mente una sorta di tarlo inquietante. Ti giri e non vedi più nulla di amico, l'ambiente ti è totalmente alieno e senti che nessuno ti potrà mai aiutare, che sei irrimediabilmente perduto, che non ritroverai mai più la pista, adesso avverti soltanto l'assenza di tutto. Poi, fatti solo pochi passi, salito un mammellone roccioso o il sif tagliente e mobile della duna, ritrovi soltanto poco lontano la strada. Quella tenue striscia battuta diventa subito una cosa conosciuta, che appartiene alla tua cultura; è un punto di riferimento psicologico che rincuora, è il legame tra il tuo pianeta e questo altro mondo sconosciuto, immenso, pericoloso. Poi un giorno ti lasci alle spalle anche l'ultima oasi, alle sabbie si sostituiscono infiniti falso piani stepposi coperti di alfa dura e tagliente; la cultura fondata sul dattero è sostituita a poco a poco da quella dell'ulivo. E' ormai il mediterraneo, una dimensione familiare e amica, quasi monotona.

sabato 17 ottobre 2009

Dune.

Vi piace il deserto? Attenzione perchè oggi ho voglia di sbrodolare, quindi la faccio lunga, siete avvertiti. Sarà questo inverno precoce, ma parlare di deserto, una delle mie passioni, mi consola. Per carità è velleitario parlare di un argomento di cui si è già sommersi di libri di poeti, foto di grandi maestri, pubblicazioni avvincenti. Si è già detto di tutto, anzi già troppo, per cui se uno parte per una traversata ha già la testa piena di spazi infiniti, paesaggi disperanti, tramonti struggenti a cui ogni persona di buon senso deve soccombere di schianto. Quindi prepararsi alla delusione del troppo sognato. Macché , è tutto come avevi letto , sognato, anche di più. Quello di cui ti illudevi di poter dire:"tutte balle per i gonzi" è proprio lì a schiacciarti con la sua evidenza. Pensavi ad immaginette oleografiche da legione straniera, frasi fatti di mediocri scrittori, coloriture di aspiranti esploratori che si travestono da eroi, eppure ce le hai lì davanti da toccare, da vedere, per poter dire goffamente: è impossibile che sia così bello. A questo punto, come avevi letto nel libro, che ti aveva fatto un po' sorridere per la sua ingenuità, ti devi lasciare avvolgere dal nuovo pianeta che ti circonda, devi assimilarne il ritmo per sperimentare sensazioni nuove e grandi. Frasi fatte, però è così che succede. Ne ho visto solo qualcuno di deserto, dalle propaggini cespugliose del Taklamakan cinese a quelle di Gibson, le dune grige del Rub-alKhali yemenita, quelle rosso fuoco del Namib, quelle giallo ocra del grande erg occidentale, le sassosità egiziane, l'infinito viola di Timimoun, il tenue rosa del Tar indiano o il giallo pallido della Death Valley fino alle piccole dune islandesi e altri ne vorrei vedere. Certo frasi fatte. L'immensità del deserto. Si viaggia per ore per raggiungere un posto "vicino". Parli del prossimo paesino ed è come dire Venezia se sei a Torino. Dopo giorni di viaggio controlli la carta e vedi che hai fatto un trattino piccolissimo e allora scatta la seconda frase fatta. La disperazione e l'annichilimento del deserto. Se dopo trecento kilometri sei ancora tra le stesse dune di sabbia sottile che il vento porta a cancellare la pista, se dopo ore o giorni, la pietraia del serir continua implacabile battuta dal vento, ti senti davvero piccolo ed estraneo per sconfiggere questo universo e allora per sopravvivere devi allearti con esso, assumerne il suo ritmo. Allora basta poco per fare diventare possibile e vincere quella che credevi solo una espressione letteraria. Tutto diventa più naturale, quasi familiare. Fermarsi ad una tenda beduina, senza lingua comune, bere assieme un thé alla menta scambiandolo con un piccolo dono; scandire i momenti della giornata secondo il movimento del sole; percorrere il deserto secondo piste antiche e approdare alle oasi, isole che galleggiano nel mare sabbioso e godere un riposo tranquillo sotto i palmeti tra un gorgoglìo di canaletti. Nutrirsi col Deglet Ennour, il dito di luce che pende a cascata dalle palme, il dattero, frutto di un'agronomia secolare su cui si è fondata una grande civiltà fatta di tolleranza e allearsi con l'animale che sconfigge il deserto, il dromedario dallo sguardo scostante ma fiero, perchè è l'unico a conoscere il centesimo nome di Hallah. Mi avete fatto venire sete, ma molto ancora vorrei dire per cui riprendo domani.

venerdì 16 ottobre 2009

Ovulo o porcino?

Quando due tizi stanno assieme per una settimana in una camera d'ospedale, condividendo lo stesso problema, gli stessi timori e percorrendo la stessa strada, si crea una comunanza ed uno spirito di corpo tipico degli appartenenti a sodalizi classici, come la caserma, il club, l'associazione sportiva. Così ieri risalivo le colline della Val Borbera invitato a godere di quei magnifici boschi, dall'amico recente che, tra le sue peculiarità ha anche quella del cercatore di funghi. Il fungo è un organismo strano, che mi attrae morbosamente; cresce in una notte (?) e poi se ne sta lì acquattato sotto le foglie ad aspettare che mani attente ed amorose lo colgano. Come i fiori, creato per essere colto. Che gran soddisfazione deve essere l'aggirarsi qua e là tra roveri e castagni, tra il crepitare leggero delle foglie gialle cadute, girando lo sguardo nella ricerca. Poi, nella piccola radura, la magia del gonfiore sotto il tappeto colorato denuncia il sospetto che man mano diventa certezza, guidato dall' esperienza e dall'inteso profumo. Ti chini, scosti i rametti bagnati di rugiada ed eccolo lì il tondo cappelletto scuro del porcino oppure, così raro, l' ovale arancione dell'ovulo reale bambino che quasi scoppia nel tentativo di liberarsi dalla volva giallina che lo avvolge come una placenta, prima che la sua voglia di libertà la squarci per ergere orgoglioso il gambo esile a sostenere l'ombrello maestoso. Ebbene, io che bramo queste piccole emozioni, non sono mai riuscito a goderle. Ricordo un anno, molto tempo fa, in cui una felice congiunzione meteorologica aveva fatto esplodere una produzione di funghi mai vista. Colleghi esperti nell'affare tornavano a casa raccontando di raccolte immaginifiche con decine di kilogrammi di bottino. Provammo anche noi ad andare, in un posto classico che doveva fornire una resa epocale. Tornammo a casa dopo una intera giornata con due miserevoli funghetti che avevamo trovato scoperti proprio in mezzo al sentiero. Per poco non li pestavamo. Purtroppo è così, semplicemente noi non li vediamo, non li sappiamo scovare, manca l'esperienza. Sarà anche che noi si arriva sul campo di battaglia verso le nove e mezza, quando i cercatori tornano già alle macchine con le sporte cariche? Comunque l'amico ci ha consolati invitandoci a cena, totalmente autoprodotta, salame e pancetta del maiale dello zio, vasetti di ogni ben di Dio, sottaceti e sottoli, inclusi i famosi peperocini ciliegina ripieni di acciuga e capperi, tagliatelle paglia e fieno fatte a mano con una quantità di porcini da resuscitare, coniglio al rosmarino e pollo alla cacciatora maison con giardiniera. Profumi di erbe di quella fantastica terra tra Piemonte e Liguria. Riesling e croatina per bagnare una grande cucina; liquore alla menta della padrona di casa per digerire. Bello stare in campagna, meglio ancora andarci a trovare gli amici fungaioli quando ti invitano.

giovedì 15 ottobre 2009

Tavolo verde.

Chi, tra i miei lettori, mi sa dire cosa sta succedendo a Piazza Affari? Anche se non se ne parla molto, la Borsa sta salendo a più non posso dall'inizio dell'anno. Ma non c'è la crisi?E le migliaia di aziende che chiudono? In qualità di analista da bar, ho notato che stanno salendo anche gli indici legati al mercato obbligazionario. Questo è molto strano, in quanto le due cose sono antitetiche, direbbe uno studente del primo anno di economia. Quando uno sale l'altro scende e viceversa, nella logica del soldo. Mmmmm..... gatta ci cova. Mi direte, ma com'è che sei così morbosamente interessato a questo arido argomento, tu, poeta tuttologo così distante dalle sirene speculatorie dell'affarismo? Devi aver cura di patrimoni milionari? Niente di tutto questo. La realtà è che fin da piccolo sono sempre stato affascinato dalla meccanica dei giochi; non tanto il giocare in sé, ma capire l'intrinseco che sta alla base del funzionamento di un gioco, di qualunque tipo esso sia, dalle carte (qualche volta magari parliamo di poker e di bridge) alla matematica, a tutto quanto metta in moto una competizione ludico mentale. E checché se me dica, la borsa è uno dei giochi più interessanti che siano stati inventati, altro che risparmio e investimento produttivo. Tutte balle. Laciamo stare i cassettisti, per cui valgono altri tipi di ragionamento e non dovrebbero neanche leggere le pagine economiche dei giornali per non farsi venire mal di testa, ma per tutti gli altri, la borsa è il più grande tavolo verde esistente, dove si puntano somme considerevoli con la speranza di moltiplicarle tra una miriadi di varianti, gradualità di rischi, decisioni ragionate, colpi di fortuna e non ultimo le grandi emozioni in gioco, posto che le cifre interessate sono importanti per chi le rischia, non come il pokerino in famiglia dove si azzardano i cento euro per passare la sera o i due euro del superenalotto. C'è tutto in questo gioco, l'emozione della perdita (o della vincita), che è una delle componenti importanti dei giochi, il calcolo ragionato (ci sono specialisti che passano la vita a studiare grafici e curve), l'azzardo e la strategia, il tutto calibrato con rara complessità per un gioco che diventa così non comune. Dunque come in ogni gioco, ognuno pensa di avere la propria strategia vincente, come i martigalisti appassionati della roulette per intenderci. Io, in più di 35 anni, nel mio piccolo, ho maturato la mia, che vi passo su un piatto d'argento, così come l'avevo captata anni fa da un vecchio bancario pensionato, frequentatore della borsa a cui erano rimaste due passioni, il golf ed il cosiddetto parco buoi. Era alto e segaligno e passava qualche ora al mattino nella saletta contrattazione di una banca a commentare con altri sventurati come lui, l'andamento dei titoli che si dipanavano sul monitor, in attesa, atteggiamento tipico di tutti i giocatori professionali, di assestare il colpo decisivo. L'unica cosa importante per guadagnare in borsa - diceva con occhio astuto - è quella delle fonti. Bisogna avere un buon contatto, con uno, meglio se due o tre, grandi esperti del mercato, e prenderli come punti di riferimento. Quando vuoi entrare con un acquisto od una vendita allo scoperto, li devi consultare con fiducia, chiedere come va il mercato rispetto a quel titolo ed avere il loro spassionato consiglio da amico, e che sia motivato logicamente. Dopo di che, fare l'esatto contrario. Ti dicono che è certo che il titolo, sta per salire, grazie a buoni fondamentali o a notizie appena giunte e quindi bisogna comprare decisamente? Tu vendi senza stare a pensarci troppo. Quell'altro titolo sta per crollare perchè il mercato lo giudica troppo gonfio o esposto a rischio, tu compra deciso. Non sempre andrà bene, certo, ma è la media che conta ed alla fine si guadagna sempre (quasi). C'è un motivo? Certo; schiere di analisti bocconiani, con master nelle migliori università di economia prevedono un andamento? E' giusto, perchè il mercato ha una sua logica e delle regole che segue e quindi sono prevedibili e studiabili, ma in questo mondo diventa poi preponderante l'inatteso, l'evento imprevedibile che capovolge la previsione e che accade nella maggior parte dei casi. Intanto, in questo momento mi sembra che il mercato si stia gonfiando oltremisura, insomma che si stiano tirando le reti in attesa che si riempiano di pesciolini, come si diceva una volta. Voi comportatevi di conseguenza e specialmente se avete inteso che io sia un grande esperto, continuate a comprare!

Disclaimer
La presente va intesa come scemenza quotidiana e non come sollecitazione al pubblico risparmio. Ehehehe...

mercoledì 14 ottobre 2009

La scoperta dell'America.

Non so se sia una questione genetica o Alzy che incombe, ma io, con le date, anche quelle importanti ho sempre dei problemi. Mi confondo. Per esempio tra il 12 ed il 14 ottobre, ho sempre dei dubbi su quale sia la data della scoperta dell'America. Chi se ne frega, direte voi, e invece non è cosa da poco, in quanto l'altra è stata una data fondamentale della mia vita. Proprio così, 37 anni fa ero un giovane virgulto, certo bellissimo (come potete immaginare), una via di mezzo tra Sordi e Bobby Solo, ma la testa era quella che poteva essere, già ce n'è poca adesso, figuriamoci allora quando ancora non mi rendevo bene conto di avere tra le mani la schedina giusta del superenalotto della vita. Quel mattino, mentre andavo a sposarmi, non mi chiedevo neanche come mai la mia Tiziana avesse accettato di legarsi a me e di sopportarmi per tutta la vita. Mentre pilotavo con cura la 500 verso Torino lungo la trafficata e stretta strada nazionale, (non c'era neanche ancora l'autostrada, pensa un po') ero come in uno stato di torpore mentale che mi impediva di fare troppi ragionamenti, con la testa già troppo impegnata a fare le cose che bisognava fare. Così le emozioni si susseguivano alle emozioni e quando la mia ragazza comparve sul sagrato vestita di bianco, era così bella che non riuscivo a capacitarmi che avesse deciso di venire proprio da me. Sono i misteri insondabili della psiche femminile. Poi tutto scivolò via secondo copione, lei radiosa (non sapeva ancora che rogna si prendeva), io sempre più stordito da una posizione che mi è poco congeniale, quella di essere al centro dell'attenzione; anche se per fortuna in questi casi, il fulcro di tutto è sempre la sposa, io ero come contaminato dalle radiazioni di bellezza che emanava lei. Arrivarono le foto, poi il pranzo; la mia mamma non era stata bene, troppe emozioni forse o i calcoli alla cistifellea in movimento, fatto sta che prima della torta il caro amico B. dopo avermi scrutato un po', mentre la mia sposa sfarfalleggiava felice tra i tavoli, mi disse:" Siedititi un attimo, è meglio che prendi questa" e mi allungo una pastiglietta di Ansiolin. In un attimo tutto divenne più lontano, più ovattato, più tranquillo, i convitati che si congratulavano, le bomboniere da distribuire, i parenti da ringraziare. Fu l'unica volta della mia vita che presi un ansiolitico, pensate un po' che fesso. Così mi godetti poco di uno del giorno più fortunato della mia vita. Alla sera, mentre tornavamo a casa, il sorriso di mia moglie però mi fece capire che proprio due giorni dopo la scoperta dell'America avevo fatto Bingo.

martedì 13 ottobre 2009

Spuma di Atlantico

Generalmente in Portogallo ci si va in estate. L'Algarve mostra allora lo splendore delle sue spiagge e la luce accende di colore gli azulejos nei vicoli dei paesi antichi. Non invece ci andammo in un gennaio piuttosto freddo, in cui però un sole pallido vinceva quasi ogni giorno, le brume atlantiche. Risalimmo lentamente la costa, godendo di ogni insenatura, così aspra quando è l'oceano a scavare e non l'onda calma del mediterraneo. Arrivammo così a Nazaré, un piccolo, anche se ben noto, paese di pescatori, disteso di fronte ad una enorme spiaggia dalle grandi dune. La furia dell'Atlantico, pur in assenza di tempesta, si abbatteva con potenza costante e le onde larghissime, risalivano per molti metri lungo l'erta sabbiosa, fermandosi un attimo, padrone della situazione, prima di ridiscendere, ma sempre rabbiose, graffiando quasi la rena per portare comunque con sé qualcosa o per lasciare un segno del loro passaggio, per marcare un territorio. Lontano dalla riva, centinaia di tralicci su cui erano stesi in bell'ordine i pesci a seccare e davanti le barche, anche queste in sicurezza, ben lontane dal bagnasciuga , come attente a non farsi portar via dalla furia spumosa che le avrebbe volute agguantare, trascinate fin qui, chissà con quale fatica; coloratissime però, come gemme smaglianti tra lo spolverio monocromo dell'umidità, ma con nomi che tradivano la vera essenza di questa vita come Jesus nos salvar o Providencia. Già proprio provvidenza come la barca famosa del Verga e in nessun posto ho sentito una atmosfera più vicina al senso dei Malavoglia. In questa spiaggia sconfinata, erano le dieci del mattino, lunghe file di uomini e donne, dalle vesti nere e dalle facce indurite dal vento, tiravano a riva le reti. Un lavoro di certo molto faticoso, antico, svolto con rabbia, i piedi piantati nella sabbia, i corpi spinti all'indietro, tesi a far da contrappeso alla forza del mare. Un tirare ritmato per fare almeno rendere la fatica, che ad ogni tensione fa guadagnare solo pochi centimetri, che ad ogni strappo avvicina al momento in cui il peso diventerà a poco a poco più leggero, forse troppo leggero, mentre l'ultima sacca risale la riva accendendo la speranza di una giornata fortunata. Non c'era allegria in quelle facce, non ci può essere serenità in questo tipo di fatica. Dopo un paio d'ore non ce la facevamo più neanche a guardare, per fortuna che ci si può rifugiare in uno dei tanti piccoli locali non lontani dalla riva dove riuscimmo a fatica a farci tirare su il morale da una açorda de marisco, una densa e saporosa zuppa di pane, crostacei e arselle e da un arroz de polvo con vinho tinto di rara tenerezza. Tutto aiuta.

domenica 11 ottobre 2009

Rosso anguria

Più o meno in mezzo all' Anatolia, lontano da grandi centri abitati, c'è un caravan serraglio ancora perfettamente conservato. Le grandi pietre squadrate sembrano state poste ieri una sopra all'altra con perfezione e maestria. Un sacco di gente deve essere passata da queste parti. La carovana dei mercanti arrivava a Sultanhani verso sera, entrava a cercare ristoro. I cammelli venivano ricoverati nelle grandi stalle, i cavalli bevevano e venivano accuditi. Anche gli uomini si riposavano al sicuro, per ricominciare il viaggio. Anche Marco Polo deve essere passato di qui, d'altronde di strade non ce ne erano molte per andare da ovest ad est e di viaggiatori anche. Mercanti viaggiatori, perchè erano poi gli unici a muoversi per secoli. Certo gli interessava fare soldi, per questo cercavano la globalizzazione, come qualunque mercante di ogni tempo, ma intanto giravano le idee e le informazioni. In qualche paese, aperto, era più facile muoversi, in quelli chiusi, ti tagliavano magari la gola, così sono rimasti fuori dalla globalizzazione, sono restati indietro, fedeli alle loro tradizioni, ma irrimediabilmente tagliati fuori dal mondo, duri e puri, liberi, condannando i loro discendenti a rimanere in una serie minore. Fuori dal caravanserraglio aveva una casetta un certo Hamza, un po' custode, che ti faceva visitare il monumento, anzi ti faceva accompagnare da uno dei figli, perchè lui dormiva al pomeriggio, un po' albergatore, perchè ti ospitava a casa sua dove aveva un paio di stanze con letti altissimi, come quello di mia nonna, di ferro battuto e dove comunque ti fermavi a mangiare (anche perchè non c'erano altri posti nel raggio di kilometri). Grandi baffi neri e basette già un po' ingrigite e una discreta pinguedine, gli piaceva chiacchierare con i viaggiatori (turisti) di turno, attorno al tavolo che offriva kebab ben rosolati, legumi e anguria rossa. Si finiva con il caffè turco, servito nei bricchi di rame dal lungo manico che punisce l'ingordo che non si ferma in tempo, facendogli ingollare un sorso di fondo granuloso e con un raki forte e limpido come l'acqua, in piccoli bicchieri di vetro, che lui vuotava di botto con grandi risate. Se ti andava, cercava di venderti un tappeto, ne aveva una stanza piena, che, appena mostravi interesse, i figli con precisione scaricavano ad uno ad uno dalla pila per mostrarli e per magnificarne il punto, i disegni, i colori. Poi ci si sedeva fuori sotto il pergolato ad aspettare il calar del sole dietro le mura gialle che a poco a poco diventavano viola, prima di cedere all'oscurità. Uno sbadiglio e poi a letto per partire al mattino, presto, a cercare un altro luogo un po' più lontano, con altri tappeti o altre mura o una anguria di un rosso diverso. Come un tempo forse, quando viaggiatore e mercante erano una sola cosa.

sabato 10 ottobre 2009

Economia e linguistica africana.

Ho visto che l'interrogativo sulla valuta dello Swaziland, quesito linguistico peraltro, più che economico, non ha riscosso molto successo. Mi dispiace che i problemi dell'Africa siano così di scarso interesse. Il continente dimenticato è lo specchio del pianeta, la cartina di tornasole che illustra le malattie future della terra e di chi la popolerà. Comunque per chi, timido per esporsi, ma comunque curioso di sapere come è andata a finire, ricordo che la lingua Swati appartiene al gruppo delle lingue Bantù presenti in tutto l'est-Africa. Una delle curiosità di questa lingua è che sono presenti i toni, ed un'altra, ed è quello che interessa nel caso esaminato, che i sostantivi sono composti sempre da un corpo e da un prefisso che è la parte che subisce le variazioni. In particolare il plurale che si forma in una decina di differenti variazioni del prefisso. Nel nostro caso la valuta dello Swaziland è il Lilangeni che al plurale diventa Emalangeni. Quindi non confondetevi e non fatevi prendere dal panico, se capiterete, come me, in questo piccolo paese, quando vi chiederanno di pagare 2 Emalangeni per una bibita al bar e frugando nel portafoglio troverete solo due monete da 1 Lilangeni. Non dovrete tornare dal cambiavalute insomma. Tenete infine conto che queste regole linguistiche, per quanto strane, sono di grande aiuto nella vita comune ed anche politica, in quanto, dovendo decidere in che modo fare cominciare la parola, bisogna per forza pensare un po' di più prima di aprire bocca e questo evita anche lapsus ed aiuta a non dire cose che sarebbe meglio solo aver pensato. E' un paese piccolo sì, ma con regole certe ed il re non ha bisogno di emalangeni per pagare né avvocati, né giudici, in quanto è capo unico degli avvocati e capo unico dei giudici egli stesso e può quindi non perdere tempo in queste cose e dedicarsi ad incrementare il numero delle sue seconde mogli e a pianificare le molte feste nazionali che si svolgono nel suo palazzo e nei ritagli di tempo governare il paese che, essendo piccolo non ha bisogno di grandi cure. Oltretutto la millenaria cultura del suo popolo gli fornisce pozioni che gli danno grande vigoria e può quindi agevolmente prendersi cura di tutto.

venerdì 9 ottobre 2009

In mezzo al Drakensberg.

Oggi ancora Africa, magari per puntualizare alcune osservazioni che a me sembrano di qualche importanza, ma che non sento mai fare da nessuno. Quando scattavo questa foto, preso dal piacere di poter guardare ed essere guardato da vicino da un piccolo di giraffa, curioso come tutti i bambini anche se controllato con attenzione, stavamo attraversando il Lesotho, un altro staterello del cono sud, una piccola enclave circondata e quindi completamente dipendente dal Sudafrica. Un territorio collinoso ricoperto di bush e savane, con la piccola capitale Maseru situata sul confine che ospita una delle poche attività del paese, le case da gioco, dove affluiscono nei weekend i Sudafricani a fare quello che è proibito a casa loro. L'unica altra cosa notabile di questo piccolo regno è il cappello a cono dei contadini, raffigurato anche nella bandiera, tanto per dire. Tutto intorno la catena dei Drakensberg con i suoi monti selvatici, le foreste, i cañon rossi e profondi, i piccoli B&B con le tazze da thé di porcellana che ti fanno sentire nella Svizzera sudafricana, pure essa parte di questa Mama Africa, così antica, così primordiale, così conquistabile, depredabile, controllabile, incontrollabile, così difficile da capire. Fermatevi a pensare un attimo. Questo continente è di certo quello classificato come senza speranza. E' il più povero e quello con possibilità di vita inferiore. Il più arretrato, il meno alfabetizzato. Ci si può andare, depredare quello che si vuole, portarci le schifezze di cui ci si vuole liberare, vendere quello che non si può più vendere. Ammazzare, rendere schiavi, sfruttare, un vero paradiso per tutti quelli che nei secoli hanno avuto potere da qualche parte. Europei, arabi, indiani, se ci andate adesso è pieno di cinesi. Cinesi da tutte le parti, che vendono che costruiscono, che portano via. Terra di nessuno che anche i cambiamenti climatici mettono tra i più sfavoriti, aumentandone la desertificazione, l'erosione e così via. Terra madre e maledetta dove con rara sinergia si accanisce tutto ciò che è nemico all'uomo. La carestia, la fame, le guerre, l'ignoranza, il clima, le malattie. Alcune di queste sono talmente micidiali da rappresentare l'incubo della mente, come Ebola o Marburg, virus che lasciano in vita attorno al dieci per cento della popolazione, altre subdole come HIV, uccidono con lentezza e si diffondono così con maggiore caparbietà, tanto che in molte parti oltre il 30% della popolazione è infettato, altre antiche come la malaria sterminano in silenzio decine di milioni di persone con una costanza ammirevole. Le stragi delle guerre poi decimano o eliminano interi gruppi etnici in pochi anni. Africa spopolata in pochi decenni quindi. Vediamo un po'. All'inizio del secolo scorso vivevano in Africa poco più di 100 milioni di persone che avevano più o meno lo stesso tenore di vita odierno, ma oggi dopo circa un secolo stiamo raggiungendo allegramente il miliardo con una progressione geometrica inarrestabile. Ma come, non era la strage degli innocenti, la desertificazione etnica, l'annichilimento totale? E' qui che si misura la tigna del genere umano; in presenza di evidenze che estinguerebbero qualsiasi specie in pochi decenni, noi ci moltiplichiamo a dismisura in maniera irrefrenabile. Più aumentano le possibilità e le cause di morte e più aumentiamo di numero. E' il motivo per cui la nostra specie si è imposta su tutte le altre, consumando tutte le risorse a disposizione e sostituendole con le proprie scorie; un fenomeno naturale che è stato quello vincente e che inutilmente si cerca di arginare perchè è anche quello che ci ha permesso di imporci nel pianeta per poterlo consumare tutto con progressione geometrica. Non c'è malattia, guerra, radiazione, carestia che ci fermi, al massimo un piccolo stop che non fa che aumentare la forza moltiplicativa della specie. Più si crepa e più ci si moltiplica, è la nostra forza; naturalmente cercando di spostarci verso quei luoghi dove si sta meglio per poter avere un po' di quel che non abbiamo. Certamente lì non ci vogliono, perchè, lì, un altro automatismo genetico fa sì che dove si sta bene, dove diminuiscono i problemi di fame, guerra, miserie e malattie, automaticamente non ci si moltiplica più, non serve. Se non si vuole che l'Africa si sposti in Europa e cessi di crescere, c'è solo una soluzione. Quando staranno bene come noi, non si muoverà più nessuno. Nel frattempo, se non arriva un asteroide a cancellare in un colpo tutta la vita sul pianeta, l'uomo ci sarà sempre, seduto sui cumuli di scorie che produce, tagliando la gola al suo vicino per rubargli un pezzo di pane che sembra sempre il penultimo. Nessun altro essere è come noi , forse solo i topi.

giovedì 8 ottobre 2009

Una mattina a Mbabane.

Oggi indovinello geografico, visto che, causa schiena, non ce la faccio ad andare a cercare una diapositiva nel cumulo degli scatoloni del passato. Qualcosa bisogna pur offrire ai lettori, se no si stancano di storielle e lamentazioni varie. Dunque, lo Swaziland è uno staterello africano, incastrato tra il Mozambico ed il SudAfrica, grande più o meno come le province di Cuneo e di Torino messe assieme. Colline digradanti, foreste basse, terra rossa, povertà e malattie come nell'Africa che lo circonda. Forse qui i conflitti sociali sono meno esplosivi, probabilmente a causa del fatto che è governato da una monarchia assoluta e quindi se qualcuno ha qualcosa da dire, alza la mano così gli rompono subito la testa e la cosa finisce lì. Lo si attraversa in una giornata e se non ti fermi in qualche riserva faunistica ad osservare gli animali, non ti resta molto da vedere. Siamo arrivati a Mbabane, la capitale, di prima mattina. La cittadina stesa pigramente sui fianchi di una serie di basse colline, si stava svegliando con le cime delle case più alte che emergevano lentamente dalle nebbie. Poca gente per le strade che, a poco a poco prendevano vita con le caratteristiche africane di sempre, rumori, allegria, odori, lento fluire del tempo. Niente di particolare da segnalare, ma una cosa ci colpì. Anche qui, come in molti stati a monarchia assolutista o quantomeno dove il capo dello stato ambirebbe a questa condizione di potere assoluto, da ogni parte, campeggiavano grandi cartelloni di sei metri per tre che raffiguravano il re, sorridente ed in abiti regali, sul trono accampagnato dalla prima regina. (Ah sì, oltre alla regina ufficiale, come in molti altri posti simili del resto, il re ha un intero harem di giovani fanciulle, seconde regine , diremmo, ma ad ogni festa, che conduce con grande sfarzo nel suo palazzo reale, ne invita altre, tra le quali sceglie sempre una ulteriore regina provvisoria con cui trascorrere lietamente la serata). Potremmo dire che questo re non ha molto a cuore le sorti del suo paese devastato tra mille altre nequizie dalla piaga dell'AIDS, con una delle percentuali più alte dell'Africa. Invece, guardando con attenzione i grandi cartelloni di cui vi ho parlato, notammo che non erano soltanto elogiativi dei meriti del sovrano, come capita altrove, ma che gli augusti reali si prestavano ad una importante campagna. Infatti, sia in inglese che in swati, recitavano, "proteggiti dall'AIDS, anche noi usiamo il preservativo", che infatti, colorato in rosso, faceva bella mostra tra le mani dell'augusta coppia. Selvaggi, direte voi, ma l'esempio che arriva dall'alto, nel bene e nel male secondo me, serve. Ma basta parlare di capi di stato che controllano l'informazione, d'altronde ormai sono rimasti pochissimi, Corea del Nord, Iran, Cina, qualche stato africano e pochi altri e veniamo invece al quiz che era il vero scopo della chiacchierata. Senza aiutini eh! Come si chiama la moneta dello Swaziland e soprattutto in lingua swati, quale è il suo plurale? Solita Nutella virtuale in premio e vediamo se almeno questo vi smuove.

mercoledì 7 ottobre 2009

Un liuto

Oggi sono un po' giù di corda, quindi non vi tratterrò a lungo, cosa del resto richiesta da molti; vi prego soltanto di porre la vostra attenzione su questo pensiero di Liu Chang Chin, uno dei più grandi poeti del periodo Tang.

Ascoltando il suono del liuto.

Sul tintinnare del liuto a sette corde,
sento il sibilo calmo del vento tra i pini.
Amo quel brano, anche se è antiquato;
la gente d'oggi, del resto, per lo più non sa suonare.

martedì 6 ottobre 2009

Cronache di Surakhis 21 : autunno.

L'autunno su Surakhis era cominciato da poco; l'aria rinfrescava già un po'. la temperatura ormai era sempre attorno ai -20°C e cominciavano a sfarfallare, quasi ogni sera le flocculazioni di metano che al mattino coprivano il terreno di un bell'azzurro pallido. Paularius era esasperato, i dolori alla schiena lo avevano talmente sfinito che si era fatto trapiantare una colonna vertebrale nuova, ma si sa, su Surakhis la sanità era quello che era e nonostante tutti i crediti che aveva dovuto cacciare, avevano dovuto sacrificare tre donatori per avere una colonna decente. Dato che per queste operazioni non era conveniente tenere in vita il donatore si era fatto innestare anche le iridi del terzo che erano di un blu intenso. Ci aveva sempre tenuto ad avere uno sguardo ammaliante. Aveva invece soprasseduto ad utilizzare anche un apparato riproduttore nuovo, perchè le mani da quelle parti gliele avevano già messe una volta e non era stata una passeggiata. Adesso si sentiva un po' meglio, ma tutte quelle iniezioni gli avevano reso le chiappe insensibili anche alle vibromassaggiatrici. Non se la sentiva ancora di lavorare, ma, approfittando della sua momentanea assenza dal ponte di comando, tutti i succhiasangue ne avevano approfittato per saltargli alla gola. Era persino venuta fuora quella vecchia storia di corruzione con cui si era impadronito della miniera, roba che ormai nessuno ricordava più ed era anche ampiamente prescritta, ma sfruttando il fatto che il suo gruppo di corruptores non aveva potuto seguire la faccenda e pagare il giusto ai giudici era stato condannato a cacciare un miliardo di crediti al suo avversario di sempre, Cirricus il finanziatore. Quei dannati corruptores, incapaci di prendere una decisione se non gli si dice tutto, esecutori di quarta categoria buoni a nulla, mentre lui era malato, avevano trovato la scusa di non poter più intervenire a causa dell'opinione pubblica stanca di quei trucchetti. Ma quale opinione pubblica, quella ce l'aveva in mano completamente, grazie anche ai trattamenti subliminali che legalmente erano ormai stati inseriti in tutte le trasmissioni e dunque lo adoravano. Presto sarebbe stato anche nella terna tra cui scegliere i nuovi Santi. Certo quei crediti non li avrebbe mai cacciati fuori, c'erano ancora i rimanenti undici gradi di giudizio, ma era il fatto in sé che lo disturbava e il non avere tutto sotto controllo come al solito. Intanto si imponeva di sostituire il responsabile della sua squadra di corruptores, quell'avvocato Molini che già da un po' stava sulla lama del rasoio. Diede l'incarico ad un tetraploide vegano ermafrodita, che lo aveva già aiutato in molte occasioni e poi si catafottessero tutti, l'importante era avere il controllo dei plasmatori mentali e dei rubinetti dei contatori dell'aria. Decise di andare a stendersi un po'; tutte quelle storie gli avevano fatto venire mal di testa e anche un po' di febbre.

domenica 4 ottobre 2009

Soluzione.

Allora, visto il grande successo e il notevole interesse suscitato dal problemino, non volendo più ulteriormente essere sottoposto a pressioni troppo insistenti, passo a stendere la soluzione senza passare nella fase degli aiutini. Trattavasi di un problema ben conosciuto, come molti mi han fatto notare, a cui avevo cercato di mettere un vestitino nuovo, ma ai marpioni della logica-matematica non sfugge nulla, così....

Dunque cominciamo dal primo dato che recitava: la somma dei primi tre quadrati, quindi ovviamente (non riesco a scrivere i quadrati perciò...)

1 x 1 x 2 x 2 x 3 x 3 = 1 x 4 x 9 = 36

che sarebbe anche il risultato del prodotto delle tre quantità di confetti.
Le soluzioni possibili che danno 36 come prodotto sono 8:

36 x 1 x 1
18 x 2 x 1
12 x 3 x 1
9 x 4 x 1
9 x 2 x 2
6 x 6 x 1
6 x 3 x 2
4 x 3 x 3

E' pertanto giustificata la risposta di non poter dare una soluzione esatta essendocene 8 possibili. La seconda indicazione è che la somma delle tre quantità corrisponde al numero dei tavoli. Subito proviamo a fare le somme che normalmente darebbe la soluzione del problema (solo che voi solutori non conoscete il numero dei tavoli , eheheheh).

36+1+1=38
18+2+1=21
12+3+1=16
9+4+1=14
9+2+2=13
6+6+1=13
6+3+2=11
4+3+3=10

Appare evidente che l'informazione risolutiva è data dal fatto che la risposta sia "Non posso dare la soluzione" che data la mia ben nota intelligenza, avrei potuto dare senza problemi in sei di questi otto casi. L'impossibilità di dare una risposta quindi deriva dal fatto che il numero dei tavoli doveva essese 13 (che tra l'altro porta pure male agli sposi) e questo da due soluzioni possibili:

9+2+2
6+6+1

L'ultimo aiuto risolve il problema perchè se la soluzione fosse stata 6+6+1 non si sarebbe potuto dire "Ce ne sono rimasti di più al cioccolato" in quanto ci sarebbe stato un pari merito con un'altra tipologia di confetti. Quindi l'unica soluzione possibile rimane:

9 - 2 - 2

Mi è sempre piaciuto questo problemino che può essere risolto anche dai bambini che conoscano almeno la moltiplicazione e la somma (come ha segnalato giustamente Giovanna) e che non contiene nell'enunciato che un solo numero, il 36.
Visto che non ho stimolato più di tanto la vostra fantasia, però, il barattolo di Nutella che era in premio, dovrò slapparmelo io.

sabato 3 ottobre 2009

La mortella.

C'è stato un periodo all'inizio degli anni novanta in cui in URSS non girava un soldo, o meglio non girava un dollaro, perchè di pezzi di carta senza valore ne giravano un sacco e non era semplice portare a casa la pagnotta nella nostra attività di trading, così si pensò di tornare all'antico, recuperando il sistema più vecchio del mondo, quello che precedette l'invenzione del denaro, il barter per dirla in maniera moderna, ovverossia il baratto. Si cercarono i prodotti più classici della santa madre, dal legno, ai concimi, ai rottami di alluminio o al compensato, per arrivare alle pellicce. Niente fare, già tutto in mano a giri di antica data, in cui era meglio non andare a cercare di infilarsi e te lo si faceva capire subito con chiarezza. Così cominciarono a venire fuori le cose più strane e arrivavano in ufficio telex che proponevano materiali di cui prima si doveva capire l'uso e successivamente se quella roba era vendibile da qualche parte. Arrivavano anche campioni ineccepibili per dimostrare la qualità della merce, che per un po' fecero bella mostra di sé nelle nostre bacheche come ad esempio le corna di cervo giovane, disponibili in grande quantità in Čita e in Yakuzjia, che arrivavano già affettate in sottilissime slides (forse con uno strumento tipo mandolina), già pronte per il ricco mercato farmaceutico tradizionale cinese oppure il veleno d'api offerto a grammi, di cui le repubbliche caucasiche sembravano avere grossa produzione. Una volta ci proposero, da una zona siberiana, una bile d'orso in cambio di tre Toyota (veniva assicurato che quella era la quotazione regolare del mercato), ma anche qui, a mio parere latitavano i compratori. Un tizio a cui avevamo proposto una macchina imbustatrice di sementi da orto (il mio passato di esperto sementiero, mi attraeva morbosamente verso questo mondo), ci offrì in cambio un vagone di semi di zucca. Non parliamo dei girasoli ukraini, con i cui campioni andammo avanti mesi a sgranocchiare in ufficio. L'unico affare che andò in porto in effetti furono un po' di TIR di semi di erba medica e trifoglio di pessima qualità per altro, che ritirammo in cambio di una fornitura di caffé. Però il tarlo più grosso che rimase in testa per parecchio tempo riguardava una offerta che si ripeteva di tanto in tanto per grosse quantità di "клюква" di cui il dizionario (invero un po' datato ma preciso) dava il lemma: "mortella di palude". Ce n'erano a disposizione tonnellate e tonnellate. Solo che nessuno sapeva a cosa servisse. Doveva essere una specie di bacca che pullulava tra i sarmati e i siberiani e di cui queste genti evidentemente andavano ghiotti, se ne raccoglievano queste quantità. Qualcuno per caso l'ha vista o assaggiata? Datemene eventualmente conto, per favore. Chissà se l'amico Xesco che fa il cuoco da quelle parti, l'ha mai utilizzata nella sua cucina che mi dice, unisce tradizione e sperimentazione. Rimase un buco nero nelle nostre conoscenze ed ancora oggi, ogni tanto, ritorna alla mente questa, forse, grande occasione perduta. Poi tornò a girare il dollaro e queste cose a poco a poco svanirono nei ricordi. Ogni insuccesso è una opportunità che non si è saputa cogliere e questa dovrebbe essere la riflessione di oggi, cari Michelle e Obama.

giovedì 1 ottobre 2009

Rosa confetto.

Dicono che il modo migliore per sopportare meglio il dolore fisico sia concentrarsi sui numeri. Così mi è venuto in mente di proporvi una mia riedezione di un vecchio giochino di logica-matematica che anche se conosciuto, è pur sempre simpatico. Soliti premi virtuali per chi pubblicherà per primo la soluzione. All'ultimo matrimonio a cui sono stato c'erano dei confetti buonissimi, tanto che al termine della ricca cena mi sono seduto ad un tavolo con un amico per guardare la bella sposa che ballava, portando con me tre ciotoline quadrate, ognuna delle quali conteneva uno dei tre tipi di confetti che avevamo prelevato dai bicchieroni. In una c'erano quelli al pistacchio, nell'altra alla mandorla, nella terza al cioccolato. Ma erano talmente buoni che tutti quelli che passavano di lì, ne prendeva qualcuno facendo finta di guardare dall'altra parte e alla fine nei tre quadratini ne sono rimasti proprio pochi. Allora quel furbone del mio amico mi fa: "Tu che sei un tuttologo, indovina quanti confetti sono rimasti di ogni tipo, ti do un indizio. Il prodotto dei primi tre quadrati è lo stesso che si ottiene moltiplicando tra di loro le tre quantità dei tre tipi di confetti rimasti". "Son tuttologo ma non astrologo, gli risposi, i dati non sono sufficienti, dammi qualche altro indizio" risposi io un po' piccato. "Hai ragione, ti posso allora aggiungere che se li conti tutti assieme, i confetti rimasti senza considerare il tipo, hai esattamente il numero di amici maschi della sposa che c'erano stasera." Feci un rapido calcolo mentale, ma dovetti arrendermi "Guarda che non ci arrivo ancora, non posso proprio trovare la soluzione." "Non hai tutti i torti- replicò lo sbruffoncello-ma adesso ce la dovresti fare: ne sono rimasti di più al cioccolato". A questo punto poichè, sono sì tuttologo ma non cretino, diedi la soluzione di cui vorrei che voi deste anche una spiegazione logica, se no son capaci tutti di andar per tentativi. E non barate, se vi ricordate la vecchia versione, evitiamo di fare i furbi, che tanto controllo e magari mi passa il mal di schieda.

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