lunedì 30 luglio 2012

Un haiku dalla montagna.



Resta immobile
la lucertola verde.
La calda estate.



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Tarda primavera.

domenica 29 luglio 2012

Recensione: M.Ovadia - Il popolo dell'esilio.

Un lavoro interessante questo libro-intervista di Moni Ovadia, l'artista bulgaro dalle straordinarie perfomances artistiche ed allo stesso tempo capace di profonde ed eruditissime analisi intellettuali sui grandi problemi del mondo moderno. Attore, scrittore e musicista, che di solito affronta il problema ebraico con l'incredibile autoironia di cui è capace questo popolo, qui prende in esame tutta la questione mediorientale con pagine di grande intensità, tenendo sempre ben fermo il suo punto di vista fortemente critico verso verso il governo israeliano e le sue azioni degli ultimi anni. Proprio lui che si sente fortemente un ebreo della diaspora di cui sottolinea la valenza positiva e l'importanza per il suo popolo di mantenerne vivo lo spirito. Vede con orrore il montante nazionalismo israeliano che sta divorando la parte migliore dell'ebraismo e lo denuncia con la commozione del pacifista vero che deve constatare l'irresolubile contrasto che continua ad acuirsi tra due popoli gemelli, molto più simili di quando vogliano essere lontani tra di loro. Continua a rimarcare quanto il nazionalismo mortifichi proprio gli aspetti più fondamentali dell'ebraismo, il concetto di terra mai di proprietà dell'uomo, l'invenzione del sabbath, inteso come consacrazione dell'importanza dell'uomo, per essere veramente libero e mai completamente schiavo dell'altro uomo, rimarcando infine come la terra non è stata data perché l'uomo si trasformi in fanatico nazionalista, ma proprio perché dimostri che l'unico modo per costruire la pace è saper vivere sulla propria terra da straniero tra gli stranieri. Un libro per conoscere un altro punto di vista, dall'interno, su una questione che rappresenta uno dei massimi punti di criticità del mondo attuale.


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sabato 28 luglio 2012

Serata gastronomica.

C'è una regola fondamentale per ottenere il successo di una manifestazione. Tu dagli da mangiare e la gente arriva come la calata degli Unni. Ieri sera alla serata gastronomica estiva, non riuscivi a passare per la strada principale del paese. Non è che ci fossere specialità da sballo, alla fine si tratta sempre di polenta e salciccia che però contentano tutti e la fila davanti al paiolone dove mio cugino rimestava con un lungo bastone, arrivava fino a metà paese. Nella piazzetta in fondo un gruppo di bravi ragazzi cuocevano gofri in batteria, le fanciulle poi li rimpinzavano di salumi, gorgonzola e nutella (non in contemporanea naturalmente). Ma vorrei invece poratre la vostra attenzione su un'altro piatto tipico della valle le "patate salà". Ecco che sulla salita dietro la chiesa un gruppo di volenterosi lavora dietro un gran pentolone, la "brunsa" della tradizione, dove bollono in poca acqua le patate, Bintje a pasta gialla coltivate oltre i mille metri, che con la montagna il gusto ci guadagna naturalmente e che ormai hanno sostituito le antiche "piattelline" ormai introvabili. 

La patata di montagna ha un gusto particolare, non si può negarlo, più sapida e corposa, la pasta compatta e soda che non si disfa in bocca in modo volgare. Assieme ai tuberi magici però, proseguono la loro attenta bollitura grassi e grossi salamini che cuocendo, profondono i loro grassi pastosi che vanno ad arricchire le compagne di avventura rendendole davvero ricche e complete. Il segreto è tutto lì, la poca quantità di acqua che unita al calore univoco fornito dal contenitore di ghisa fa sì che questi umori si condensino formando una particolare crosticina, il "rimà" gustoso e croccante che rende questo piatto all'apparenza semplicissimo e povero, assolutamente straordinario e degno della tavola di un re. Nella strada, lunghe tavole dove i rifugiati della fornace cittadina, dimentichi dello spread, popolano numerosi la valle, forse qui spinti dalla recessione che li ha allontanati da lidi più esotici o piuttosto invece dal profumo dei salamini che si spande nell'aria. Intorno le note di musiche occitane con stuoli di ballerini accalorati e più in alto, tra vapori della polenta, si levano invece le note accattivanti di Zombie dei Cranberries, attraverso il sound deciso degli Ixie con la bellissima voce di  Chiara , un gruppo pop-rock che vale la pena davvero di ascoltare, non per niente è la band di mio cugino. 




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poesia della griglia
Febbre suina
Rosso anguria.


venerdì 27 luglio 2012

Recensione: G. Faletti - Appunti di un venditore di donne.

Altro libro da ombrellone senza lodo ovviamente, ma per la verità anche senza infamia, questa ultima "fatica" di Faletti. Lo so che tutti i miei amici letterati, storceranno subito il naso, ma nell'ambito della letteratura di consumo c'è ben di peggio, siamo sinceri. In fondo questo noir, tipico delle sue corde, si lascia leggere volentieri, mentre l'onda sciaborda il bagnasciuga, e la voglia di vedere come va a finire ti spinge a continuare fino al termine, i caratteri sono grandi e li leggi anche senza occhiali mentre succhi il ghiacciolo. D'accordo il nostro cabarettista non sarà certo un grande scrittore, ma in fondo l'ho un po' rivalutato. Lo stile è scarno, ma i personaggi li delinea discretamente e te li immagini molto bene, anche se le donne sono tutte bellissime e i cattivi cattivissimi, ma i continui colpi di scena, le sorprese che in fondo, conoscendo il pollo, ormai ti aspetti, non sono peregrine, d'altra parte il soggetto si adatta molto bene al cinema, contratto già firmato mi sembra. Anche l'incipit è curioso e ti aggancia subito (Io mi chiamo Bravo e non ho il cazzo.) tanto per metterti subito in argomento. Un tipo molto particolare ma con una mente fina che allena con le crittografie (qui il nostro Faletti  si è fatto aiutare da Bartezzaghi) e che di lavoro mette in contatto la domanda con l'offerta. La merce che tratta, donne, ma solo di gran classe. L'ambiente della Milano fine anni 70, torbido e scuro con le sue notti che preparavano la Milano da bere, una mala che non ha più l'innocenza del bar del Giambellino di Iannacci, ma le bische clandestine, la coca e la mafia appena arrivata al nord, nel pieno della furia delle Brigate Rosse, fanno da cornice ad una storia come sempre esagerata che parte molto bene e che poi si esaurisce un po' strada facendo. Le pagine le senti intrise della vena depressa dei personaggi, senza giustificazioni per chi imbocca le strade sbagliate, ma una specie di umana pietà, di compassione, forse questa è la vera natura dei comici, sempre nascosta dallo sberleffo e dalla battuta.. Va bene, Manzoni è un'altra cosa e anche il finale dei Promessi Sposi è letterariamente più giusto, ma insisto non si pretenda troppo, tanto il tempo dell'ozio estivo non va impegnato in pensieri troppo profondi.


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giovedì 26 luglio 2012

Una storia zen.

Il verde dell'erba sul limitare del bosco profuma di monte e mi ispira questa storia zen che vi voglio raccontare. Sotto il pino cembro dalle fronde nere, il maestro respirava ritmicamente mentre la carezza del vento muoveva l'erba alta come un onda in cui i barbagli del sole parevano spuma. Dischiuse un poco gli occhi, poi la mano mosse appena la campanella di cinque metalli, posata al suo fianco, che lanciò un suono vibrante che si propagò a lungo nell'aria come i cerchi d'acqua nello stagno dopo il tuffo leggero della ranocchia verde oro. I quattro allievi corsero subito da lui, inchinandosi profondamente, dopo aver interrotto i duri allenamenti che la pratica marziale imponeva loro ogni mattina. I loro muscoli, tesi e duri, rilucevano di sudore sotto il sole forte; si sedettero attorno al maestro e attesero che parlasse. "Allievi carissimi, esordì il vecchio carezzandosi la lunga e rada barbetta bianca, io non ho più nulla da insegnarvi e ormai siete giunti alla soglia della maestria. Le tecniche più difficili vi sono ormai ben note e le eseguite alla perfezione, debbo solo capire se dentro di voi c'è il vero concetto zen dell'arte marziale. 

Ora vi metterò alla prova e quello che tra voi la supererà, andrà nella capitale a rappresentare la nostra scuola presso l'imperatore e forse diventerà ricco e potente. Allora, domani sarete soli e starete ragionando tra di voi sulle tecniche che avete perfezionato, mentre camminerete sul sentiero che scende dalla montagna. Giunti al ponte di corda che attraversa lo strapiombo, vi fermate un attimo non prima di avere notato un guerriero armato di tutto punto che è in attesa sull'altra sponda. I lunghi anni di pratica marziale che avete alle spalle come vi consigliano di affrontare la situazione?". Il primo allievo si alzò e dopo essersi inchinato disse: "E' facile maestro, come ci insegna la tecnica della tigre, con rapidi balzi traverserei il ponte per cogliere di sorpresa il nemico ancora sul bordo del dirupo, lo attaccherei deciso e lo batterei sicuramente con colpi diretti e potenti". Il secondo allievo si alzò con calma e dopo avere salutato disse: "No maestro, questo comportamente sarebbe azzardato e precipitoso. Io attenderei il guerriero sulla mia sponda del ponte per attaccarlo appena lui sta per finire l'attraversamento. 

Con la tecnica del serpente, mentre lui è ancora incerto nel guadagnare la sponda, potrei colpirlo nei punti segreti e vincerlo più facilmente". "Io invece, disse il terzo allievo, mi avvierei lentamente sul ponte attendendo che anche lui facesse la stessa mossa, poi, con la tecnica della mantide che meglio conosco, lo sbilancerei con facilità, parando ed attaccando sui suoi colpi fino a fargli perdere l'equilibrio e a precipitarlo nella gola". Il quarto allievo rimase un poco in silenzio, poi dopo aver respirato profondamente a bassa voce disse: "Maestro. come tu ci hai sempre insegnato, pur senza dirlo mai apertamente, il segreto ultimo delle arti marziali è la comprensione del tutto e la fusione della nostra mente con quello che ci circonda. Io chiamerei quell'uomo, dicendogli: ehi tu, laggiù questo è una buona giornata per bere un thé assieme, e attraversato il ponte mi siederei assieme a lui vicino al fuoco mettendo a scaldare l'acqua e versando un poco del mio Pu Er, il thé della meditazione. Dopo averne versate le quattro tazze, parleremmo forse della brezza estiva o di canapa e sorgo". 

Il maestro si alzò un poco a fatica e tirò a sé l'allievo abbracciandolo commosso. "Finalmente riconosco in te i segni della maestria, tu hai capito davvero lo spirito di quanto vi ho insegnato in tutti questi anni e che queste zucche vuote non hanno ancora neppure sfiorato, sei dunque degno di andare a rappresentare la scuola presso l'imperatore che ti colmerà certo di onori e di ricchezze". Detto questo si ritirò finalmente sereno nella sua capanna mentre l'allievo si preparava al lungo viaggio. Nella notte prima della partenza i tre allievi ancora così lontani dal concetto estremo delle arti marziali, entrarono senza far rumore nella capanna, legarono strettamente maestro ed allievo e corsero a buttarli nel dirupo, poi messe le vesti migliori se ne andarono nella capitale, dove divennero politici ricchi e famosi.


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mercoledì 25 luglio 2012

Recensione: M. Pieraccini - L'anomalia


Come è giusto, quando arriva l'estate viene il tempo delle letture da ombrellone. Non voglio ritirarmi da questo compito informativo. Eccovi dunque, porto su un piatto di silver plate, tra una fetta di cocomero, un ghiacciolo alla menta e un pezzo di cocco bello, questo: L'anomalia, un classico triller mescolato all'intrigo internazionale. C'è un po' di tutto, da Cernobyl all'11 settembre col condimento della guerra chimica e batteriologica appena scampata. La particolarità è che tutto l'ambaradan, pur con frequenti flash back esplicativi,  si svolge ad Erice ad un convegno internazionale di fisici, con tanto di Zichichi in odore di sospetto. Tutto è ben condito dalla mentalità logica e matematica dei ricercatori, non per nulla l'autore è appunto un fisico e scienziato nel campo delle microonde e prende spunto proprio dalla cosiddetta Anomalia di Catt, un paradosso irrisolto dell'elettromagnetismo classico, vedere qui per chi volesse approfondire. Così tra misteri, servizi segreti, un paio di cadaveri e tante considerazioni sull'essenza dell'universo, la teoria delle stringhe e le tare filosofiche che la matematica e le sue elucubrazioni porta con sé, driblando tra l'equazione di Dirac e quella di Schrodinger, si arriva al finale velocemente, ancor prima di aver finito ghiacciolo e cocomero.Piacerà di più agli amanti della matematica forse, ma non pretendete molto, abbiamo detto che son fatiche da spiaggia.






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martedì 24 luglio 2012

Ritorno a Fenestrelle

Il forte di Fenestrelle
E' un po' come ritrovarsi con i vecchi compagni di scuola. Ogni volta che ci vengo, in questo piccolo paese delle Alpi Cozie, con le sue case anni sessanta mescolate alle vecchie baite montanare dai tetti di lose ricoperte di muschio, corrose dal tempo e sbrecciate, mi pare di ritornare in un luogo del passato. Un passato acquisito, tra l'altro, non essendo neppure uno dei luoghi della mia fanciullezza, ma con un sapore di vecchio a volte un po' stantio. E' una valle che tiene lontano i giovani, priva di interessi a loro consoni e anche gli anziani, che non ne sono poi così appassionati. I nativi hanno convissuto con i redditi del boom economico e delle lusinghe delle fabbriche della vicina Torino, mai interessati, né necessitati a dedicarsi all'accoglienza turistica, sempre considerata più un fastidio che un'opportunità. Diciamo che è un posto per amatori che riescono ad apprezzare sfumature di grigio particolari, curatori di ricordi specifici, bibliotecari dedicatisi a nicchie neglette del sapere, roba per pochi insomma, dove devi aver proprio voglia di venire. E davvero poca gente trovi in giro. 

Qualche faccia nota da decenni, persone con cui ti intendi con un cenno della testa anche se non li vedi da un anno, qualche curioso capitato per caso che si aggira per trovare qualcosa di notevole da raccontare arrivando a casa, la sagoma nera in controluce del forte, la cui sommità si perde tra le nuvole mille metri più in su, tra le asperità della cima del monte. Una sentinella silenziosa in attesa di qualcosa non è mai arrivato. Eppure in quest'aria sottile, col sole che tenta di penetrare nella coltre globosa delle nubi spesse del pomeriggio, senti profumi delicati, resine antiche, ronzii di mosce non insolenti. Nella pietra dei muraccioli crudi leggi un senso di indifferenza a tutti quei fatti che solo qualche chilometro più a valle ti parevano così importanti, così fondamentali, da seguire con attenzione ed il timore di un futuro pieno di incognita. Solo voglia di fare respiri profondi, di perdere l'occhio nel verde cupo della montagna, l'orecchio solo un poco distratto dal gorgogliare lontano del Chisone, un rivolo d'acqua di torrente estivo che attira le capre dal vicino prato scosceso. No, davvero non si sta male qui, l'occhio non più turbato verso il crinale del monte, la mente in stand by a respirare il profumo del fieno, a lasciar trascorrere le ore, che forse è questo il fine della vita, non certo lo spread.


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Febbre suina
Rosso anguria.

domenica 22 luglio 2012

Estate sovietica.

Stazione Komsomolskaja - Mosca - giugno 2012

Eh già. Ho nostalgia della Russia. Detta così è un po' banale, ma, credetemi, quando mia moglie ha approfittato di una occasione e con una amica ha fatto un giro da quelle parti, ho provato una malinconia profonda. Il senso sordo che ti viene dentro quando pensi a qualcosa che hai perduto ormai irrimediabilmente e che ancor di più si acuisce se butto un occhio alle immagini che si è portata a casa. Certo mi raccontano di una Mosca molto diversa, più ricca e colorata, che si sforza in ogni modo di far dimenticare il grigiume sovietico, ma che non riescono a cancellare quel senso sfumato di malinconia nordica e orientale allo stesso tempo, di chi non vuole scordare nessuna delle sue radici, che vuole essere diversa ma uguale, moderna ma legata ad un passato mai rinunciato e ben presente nei suoi geni. Eccomi ancora là a scendere le lunghe scale mobili della metro, arrivando nello splendore delle volte della Teatralnaja o della Majakovskaja, dopo essermi ben guardato attorno per non contravvenire alle precauzioni suggerite dall'amico Eugenio, sempre preoccupato, forse troppo, della mia incolumità. Erano tempi difficili, ma in fondo non così pericolosi come ti raccontavano e ti potevi mescolare senza problemi alla folla di giovani ragazze nei leggeri vestitini estivi che si sedevano sulle dure panche della metro con un libro in mano. Domeniche estive meno affollate dei giorni di lavoro, mentre guardavi le stazioni passare, Kurskaja, Baumanskaja, attenzione a Elettrozavodskaja, l'ultima prima di Ismailovsky Park.  

Scendevi mescolandoti alla folla di gente che sciamava nei prati nella forte luce estiva, con cartocci di pesce secco sotto il braccio o pacchetti che male nascondevano cetrioli e pane nero, da sbocconcellare sull'erba del parco. Passeggiare senza una meta precisa, guardare le mille cosucce sui banchetti, il blu delle ceramiche di Dje'l, il fondo nero del legno dipinto delle spille, i colori accesi delle stoviglie laccate, le rose degli scialli, le figurine precise e microscopiche delle scatole di Palech, la trasparenza dei cristalli, la geometrica perfezione dei colori dei tappeti che copriva la sommità della collina. Ecco là un vecchio triste che vende spillette e medaglie di un passato sovietico forse rimpianto, qui una babuska grassa e paciosa con le sue matrioske in scala di grandezza e il prato dei pittori che espongono le loro tavole povere e di fortuna, i tavolini pieni di militaria, dalle volonterose maschere antigas, ai visori notturni, alle bussole, mescolate con i falsi zippi americani. Magari mi compero un altro Kommandirsky da regalare ad un amico, ma sì, questo dei carristi; no grazie niente caviale, Eugenio mi ha detto di stare attento che è tutto polistirolo colorato di nero, meglio andare da quel cameriere amico dell'Ukraina che se lo frega in cucina e lo rivende a 10 dollari la scatoletta. Me ne tornavo verso sera con qualche pacchetto in mano avvolto in una vecchia Pravda. Ancora due passi sul Kalzò per arrivare a rifugiarsi, passata l'anonimo stanzone della hall del vecchio Pekin, nelle sua camere tristanzuole dagli alti soffitti, che sapevano di sovietica muffa, sotto gli occhi annoiati e persi nel vuoto della dejurnaja del piano. Mi dicono che adesso è tutto rinnovato ed è ormai un albergo del nuovo lusso moscovita. Il tempo delle mie estati sovietiche è davvero perduto, senza ritorno.


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venerdì 20 luglio 2012

Meglio un asino vivo?



Se volete fare qualche sorriso di compatimento, fatelo pure, ve ne do licenza. Per carità è pur vero che è sempre meglio un asino vivo che un dottore morto come diceva mia suocera. Lo so, sarò patetico, forse scontato o banale e non insistete, è inutile farmi notare che ogni scarrafone è bello a mamma sua (e ancor di più a suo papà) ma lasciatemi stare, sto scoppiando di soddisfazione e di contentezza. La mia bambina è arrivata al suo traguardo importante e adesso è pronta alle prossime sfide. Grazie Arathy di avermi dato questa gioia!



Buon compleanno Tiziana!



Oggi la mia ragazza compie gli anni. Voglio farle pubblicamente gli auguri, soprattutto per il peso, in ogni senso, che ha deciso di accollarsi tanti anni fa, quando mi ha scelto per percorrere insieme il resto della nostra vita. Certo è ancora molto giovane e ne ha di tempo davanti, ma il mio augurio è quello di poter mantenere ancora e sempre la serenità che abbiamo avuto assieme fino ad adesso. In fondo non ci serve davvero molto di più. 


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mercoledì 18 luglio 2012

L'estate sul canale.

Le estati sono sempre state torride. Ma il nostro caldo estivo è diverso da quello dalle altre parti del mondo. Il monsone d'Oriente dove calore si confonde con umidità appiccicosa, a scrosci di pioggia, ad aria spessa che ti fa sentire a disagio mentre tutto intorno a te continua una vita chiassosa e movimentata, come abituata e intoccata da quel disagio. I paesi del deserto dove invece il sole morde come un cane rabbioso e rende le strade deserte; dove il secco e l'arsura implacabili annullano la parola e quasi rendono impossibile il movimento e tutto appare come immobile e mummificato dall'incantesimo di una strega cattiva. Le estati del nord chiare e luminosissime, dove pure senti l'afflato del tepore del cielo, ma avverti come un'ansia di approfittare di uno stato che sarà sempre troppo breve, troppo a lungo atteso ed in un attimo perduto e che subito si mescola a qualche brezza già troppo fresca, quando arriva la sera. E poi la nostra estate mediterranea calda e tenera allo stesso tempo, fatta di frinire di cicale e di profumi di erbe marine o di fieno e di paglie tagliate, di terra che respira, di ombre cercate e riposanti, di scrosci di temporali e di afa meridiana. 

Ero solo un ragazzino, ma nelle mie estati di paese, cercavo con ansia la corrente fresca che ti spirava incontro, mentre scendevi pedalando forte per aumentare la velocità, giù dalla discesa che dalla piazza portava verso la Cerca e l'aria ti asciugava le guance, mentre il rumore che la cartolina che avevi fissato alla ruota posteriore scoppiettava al vorticare dei raggi, simulando il rumore del sognato e mai avuto, motorino, il famoso, ironia della parola, Mosquito. Arrivavamo in basso al canale con le canne da pesca artigianali e si finiva sotto un salice e, infilato maldestramente il cagnotto nell'amo tropo grande, si rimaneva muti a guardare la lenza troppo spessa che affondava nell'acqua ferma in attesa di un'arborella di pochi centimetri, mentre l'occhio seguiva affascinato gli insetti che si muovevano sull'acqua tenuti a galla dalla loro assenza di peso e dalla tensione di superficie. Si muovevano a scatti qua e là some pattinatori su uno specchio di ghiaccio grigio e verde, sola vita in movimento oltre alle grandi libellule dalla testa blu che si tenevano in equilibrio sugli steli dell'erba di palude. Passavamo le ore in silenzio, sognando forse i piccoli sogni che si formano quando ancora la vita è soltanto un futuro di campi inconoscibili e i desideri non riescono a essere grandi perché ancora hai l'innocenza di chi non sa. Si tornava verso la grande piazza a sera, mentre il sole era ancora alto sulle colline, con i quattro pescetti pescati in un sacchetto e la salita così faticosa da rimontare. Dopo di allora, perduta l'innocenza, non sono mai più andato a pescare.


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martedì 17 luglio 2012

Considerazioni sul Tai Ji Quan 9: Dan Bian.


Il nono movimento della forma 24 Yang è dan biān - 单鞭 , che significa : Un solo colpo di frusta. E' una delle tecniche più tipiche del Tai Ji e comprende, per la mano destra la cosiddetta posizione ad uncino, che è una forma di parata, deviazione di colpo avversario o liberazione da una presa al polso, mediante una leva articolare derivata dal Tang Lang Quan (o stile della mantide religiosa, vedi sito del maestro Colmi). Questo particolare movimento a spirale avvolge e devia le forze della presa o del colpo dell'avversario agendo in particolare sulla articolazione del polso. Partendo dal termine del movimento precedente in cui si era arrivati in Gong bu, peso sulla dx, entrambe le mani avanti, palme avanti in spinta, il torso inizia una rotazione verso sx di quasi 180° mentre il peso si sposta sulla gamba sx, quindi percorre la rotazione inversa verso dx (peso sulla dx) e poi ancora verso sx (peso sulla sx). Come si è visto il peso, nelle tre fasi distinte, si sposta alternativamente sulle gambe mantenendo il bacino, che comanda la rotazione sempre alla stessa altezza. La gamba sx nella fase 2 viene ritratta verso la destra e poi compie il passo verso sx appoggiando il tallone nella fase 3, prima di spostarvi il 70% del peso. Contemporaneamente il braccio dx compie un arco verso il basso (prima fase), poi un arco verso l'alto (seconda fase) e chiude il palmo ad uncino con un piccolo movimento a spirale nella terza fase, rimanendo a circa 45° gomito verso il basso e spinto verso l'interno, uncino verticale verso il basso. 

Il braccio sx, esegue un movimento inverso, con un semi arco verso l'alto, (prima fase), uno verso il basso (seconda fase) e una parata finale con uno spostamento di 180° con il palmo rivolto verso il proprio viso che passa davanti agli occhi fino a terminare completamente a sx col taglio della mano a premere in avanti. Lo sguardo segue alternativamente la mano sx (1), la dx (2), la sx (3). Le tre fasi comprendono un ciclo di respirazione. E' importante durante il movimento mantenere il torso eretto evitando di piegarsi in avanti. Le braccia devono sempre essere leggermente piegate con i gomiti verso il basso con una leggera tensione verso l'interno. Il movimento di formazione dell'uncino della mano dx deve essere una armoniosa spirale e tutto il movimento comandato come sempre dall'interno del bacino, deve svolgersi in armonia sincronizzata e a velocità costante. Questo movimento enfatizza la suddivisione dell'energia nelle diverse parti del corpo aumentando il flusso sanguigno nella regione addominale e migliorando la fase digestiva. Inoltre rinvigorisce gli organi interni ed aiuta ad aumentare la flessibilità delle giunture. Per aumentare la comprensione del pensiero che sta alla base della tecnica del Tai ji, vi propongo una poesia di Wu Yu Xing, un maestro della metà dell''800.

Mano ad uncino 

Il tuo spirito sia come il gatto che afferra il topo.
La tua presa come il falco che afferra il coniglio.
La tua immobilità come la montagna.
Raccogli il soffio vitale come quando tendi l'arco.
Rilascialo come quando scocchi il dardo.
La mente comandi, il Chi sventoli, il Tan Dien sia il perno.
Allora la tua forza fluirà come filo di seta che si scioglie.






Refoli spiranti da: Fundamental of Tai Ji Quan - Wen Shan Huang - S.Sky Book Co - Honk Kong -1973
Moiraghi : Tai Ji Quan - geo S.p.A. 1995
Kung Fu and Tai Ji  Bruce Tegner -Bantam book - USA - 1968
www.taiji.de
Huard - Wong . Tecniche del corpo - Mondadori Ed. 1971




lunedì 16 luglio 2012

La storia di Autunno Fiorito e il rifiuto della posizione del dimissionario.


Autunno fiorito e Kao Tsung. 


E' noto come, nel Celeste impero, mentre si è sempre mantenuta una grande pruderie per tutto quanto riguarda il sesso, non solo nella pratica pubblica, ma anche e soprattutto nel linguaggio, ci sia sempre stata una totale disinibizione su tutte quelle altre funzioni corporee e fisiologiche che invece da noi vengono etichettate come sconvenienti a partire dalle varie rumorosità, per finire agli eventi veri e propri. Nessun imbarazzo dunque per queste esigenze, a partire dalle ben note toilettes comuni, che ancora qualche anno fa i turisti nostrani affrontavano con un certo imbarazzo. D'altra parte in tutto il periodo Ming era assolutamente comune che una servitrice accompagnasse i padroni nella toilette, aiutandoli alla bisogna con una catino di acqua calda e pannicelli di lino umidi e profumati. A testimonianza di ciò, si racconta che il grande amore tra l'imperatore Kao Tsung e la bellissima concubina Autunno Fiorito, sia nato proprio in queste circostanze. Il giovane principe, accompagnato come di consueto di primo mattino, nella apposita sala dedita a queste funzioni,  terminate le sue incombenze e colpito dall'avvenenza della fanciulla che armeggiava col catino, le spruzzò un poco di acqua sul viso, gesto di una allusività davvero indecente. Si vorrebbe dire: la sventurata rispose, ma evidentemente la scafata ragazza, certo non priva di un suo disegno, ribatté con un famoso verso di una celebre poesia licenziosa: "Umilmente ricevo il dono di questa pioggia", che rappresentava un invito assolutamente esplicito e molto preciso, con un seguito obbligato. Autunno fiorito passò così da servetta ad imperatrice imponendo la sua volontà al debole consorte, preso, come si suol dire, per la gola. La storia racconta che dovesse avere una notevole vitalità in quanto, ad oltre 70 anni, si concedeva frequenti diversivi con un giovanotto ventenne della sua guardia privata. Tuttavia ad Autunno Fiorito, nonostante la sua natura, che potremmo definire esuberante, nessuno chiese mai le dimissioni e morì in tarda età, ben attaccata al seggio della sua regione, emanando decreti sulla educazione delle donne.


Refoli spiranti da:  C. Leed - Storia dell'amore in Cina - SEA -1966


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Nán 

Per un amico triste.


domenica 15 luglio 2012

Un'ammiratrice sconosciuta?

Una caratteristica della maggior parte dei blogger è che, si comincia a scrivere per sé stessi, poi, man mano che qualcuno comincia a leggere le nostre elucubrazioni, si diventa sempre più narcisi e si gode del fatto che aumenti il numero dei lettori, o meglio ancora la qualità dei commenti. E' un processo automatico a cui pochi riescono a sfuggire. Certo puoi dire ma chi se frega, tanto che me ne importa se non mi legge nessuno, ma il  meccanismo perverso che il grande fratello del web ha messo a tua disposizione, sta lì come una porta segreta, di quelle che non si dovrebbero aprire, la mela dell'Eden che non si deve toccare pena la perdita dell'innocenza. Invece la apri e subito diventa come una droga. Tutti i momenti vai a dare un'occhiata, oddio, sono calate le visite. Sono le scemenze che scrivo ad essere sempre meno interessanti o la gente che al lavoro ha meno tempo di cazzeggiare? Ah meno male il calo del week end è stato minore del solito, beh la media mensile è in leggera ma costante salita, oh signur, non mi fanno più neanche un commento, neanche perdono più tempo per dire che scrivo stupidaggini. E' un tormentone. Non parliamo poi del collezionismo dei contatti provenienti da paesi stranieri. Evviva ho superato i 100. Ecco là ieri uno da Macao, la settimana scorsa un Mongolo (dalla Mongolia), oggi 30 secondi da Mauritius, sarà qualcuno in vacanza o un residente che è capitato per sbaglio? vediamo le parole chiave che ha digitato. Già perché magari non lo immaginate, ma si sa davvero tutto di tutti, mancano solo il nome e cognome, ma ci arriveremo presto. 

Però a questo punto, vi chiederete perché con 'sto caldo ho tirato fuori questa manfrina. La ragione è che le schede statistiche che consulto nevroticamente hanno evidenziato una anomalia piuttosto strana. In media la gente rimane sul mio blog circa 120 secondi, tempo ragionevole per leggere il post del giorno e magari anche quello del giorno prima. Bene, capita che da maggio ad oggi, praticamente tutti i giorni, dalla città di Colonia (Germania) qualcuno si collega e rimane agganciato in media per 2 ore e mezza (ho detto due, in lettere) visitando in media 50 pagine ad ogni volta, ma evitando di lasciare tracce visibili almeno nei commenti. Con questa media dovrebbe avere riletto circa tre volte tutti i post pubblicati in questi quattro anni. Il mistero si infittisce in quanto non ho amici in questa città che io sappia. Delle due l'una, o ho un ammiratore davvero perso di testa che trascorre sulle mie fatiche più tempo di quanto non faccia io stesso, o cerca di studiare la lingua italiana sui miei testi e in questo caso lo avviso che avrà risultati scadenti, oppure la Stasi non è stata chiusa e un apposito ufficio dei servizi di madama Merkel mi sta sorvegliando di brutto. In questo caso, mi scuso subito se mai abbia, in modo assolutamente involontario offeso la suscettibilità mitteleuropea, pronto a rimediare nel caso e a prostrarmi se può essere utile, pur di non essere sottoposto a processo (non si sa mai, ragazzi, meglio mettere le mani avanti). Se invece è vera la prima ipotesi, l'ammiratore o meglio la teutonica bionda valkiria che mi dedica una parte così importante della sua giornata, si appalesi in qualche modo al fine che possa ringraziarla personalmente della sua fedeltà davvero gratissima. Avrò un futuro nella valle del Reno?


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sabato 14 luglio 2012

Sui.

In Cina, in una tomba di circa 1000 anni fa (periodo degli Zhou occidentali) sono stati trovati scheletri di schiavi sacrificati per accompagnare il loro padrone nell'al di là. Si tratta di ragazzi tra i 7 e i 15 anni incatenati ai piedi e al collo. Il concetto che il lavoro dipendente sia in ogni caso una schiavitù con diritto di vita o di morte è un concetto ben radicato ed accettato, anche da chi lo subisce, nella mentalità cinese, come vediamo da tanti fatti di cronaca che emergono di tanto in tanto. Tutto questo è già ben ritrovabile nella lingua. Ecco allora l'ideogramma di oggi : Sui - trascinarsi, che come vedete dalla sua evoluzione millenaria  qui sotto, raffigura un uomo incatenato che si trascina faticosamente, con i piedi in grado di fare solo piccoli movimenti. E' un radicale molto presente nella lingua cinese ed è la prova grafica di questa realtà. Il radicale forma molti composti mantenendo questo senso di fondo. Ecco 致 zhì,  che significa dedicarsi. Ma il più chiaro ed evocativo di tutti è il moderno bisillabo che unisce a zhì  il segno che indica Forza, per dare il vocabolo 致力 -  zhì lì, che vuol dire :Lavorare per qualcuno (essere un dipendente), in altre parole offrire (volontariamente) il proprio lavoro, la propria forza come schiavo. 

Questo concetto del darsi in schiavitù volontaria, che rimane ben chiaro ai cinesi, è mascherato sotto varie forme nella cultura occidentale, che, con concetti dettati principalmente dai datori di lavoro e dal potere costituito, parla genericamente di dignità e nobiltà del lavoro, chiacchiere palesi per mantenere la tranquillità sociale. In realtà il rapporto tra padrone e schiavo è sempre concettualmente uguale. Chi si offre cerca di fare il meno possibile pretendendo il più possibile, chi ti prende pretende tutto quello che può spremerti in cambio del meno possibile, meglio ancora di nulla e se può ti prende anche quel poco che hai. In questa lotta oscillante stanno tutti gli stadi intermedi della nostra società e non c'è vergogna, né sommovimento etico se uno ruba o fa altro invece di lavorare o se dall'altra parte ti sfruttano senza pietà senza garanzie e pagandoti il meno possibile, usando la scusa di false necessità temporanee o con finti stages o partite Iva fasulle. E' un concetto ontologicamente incluso nella categoria del lavoro dipendente. Bisogna farsene una ragione e basta.



Refoli spiranti da: E. Fazzioli - Caratteri cinesi - Ed. Mondadori



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venerdì 13 luglio 2012

La storia di Mei Li.



Era davvero bella Mei Li, una ragazza come se ne vedono poche, con quella bocca piccola e rossa come i coralli del suo banchetto, con quei piedi piccoli e aggraziati che lasciava intravedere appena, anche se sempre coperti dalle calzine colorate. Occhi grandi e capelli neri come il giaietto che sembravano mandare bagliori luminosi quando piegava la testa graziosamente di lato, per lanciare un'occhiata da sotto con la bocca appena incurvata in un accenno di sorriso ammiccante. Anche quando camminava sotto il sole estivo di Bei Jing, nei grandi viali che conducevano al mercato, non aveva quell'andatura ciondolante e volgarotta delle contadine che hanno da poco lasciato la campagna; quel gettare di lato la gamba col piede piatto e non abituato alle scarpe col tacco, come lo sono le ragazze di città, ma sembrava incedere come una principessa, diritta e sicura lungo la strada che a piccoli passetti la conduceva fino al mercato. Arrivava lì ogni mattina presto, al suo banchetto dei coralli e tirava fuori le sue cose con cura maniacale, lenta e precisa, esponendo le collane e i bracciali in perfetto ordine secondo le sfumature di colore, secondo le dimensioni delle palline, rotonde, perfette, attenta a non mescolare quell'armonia cangiante di rossi e di rosa sfumati e precisi. Di lato metteva i turchesi, ma pochi, quasi a non voler turbare la perfezione del quadro.

Non guardava nessuno di quelli che la circondavano vociando, come perduta in un suo mondo di sogno, anche lo sguardo sembrava sperso in un vuoto di sogni e di poesia . Carezzava i fili rossi che pendevano dai gancetti e la sua mente pareva correre lontano, verso giardini di peonie bianche, chiusi ad occhi indiscreti da muraccioli bassi e curati, piccoli stagni d'acqua con le carpe dorate che venivano a prender cibo in mucchio al bordo della vasca tra le grandi foglie di ninfea. Ti pareva di sentire, dal suo sguardo perduto nella linea dell'orizzonte, il canto di storie lontane, di fanciulle innamorate in attesa di un uomo partito a cavallo per la capitale. Le piccole orecchie quasi tese a cercare di sentire, tra il frastuono del mercato, vecchie poesie o il tocco leggero delle corde del Pi Pa che suonava canzoni antiche. Mentre i suoi vicini, quelli del banco dei tessuti e quegli altri che vendevano piccoli vasi di giada di terza scelta e paccottiglia varia per turisti, sghignazzavano volgari, ingozzandosi a tutte le ore di bocconi bollenti di maiale, mentre con le bacchette pescavano da un ciotolone comune mappazze di noodles in brodo, macchiando qua e là quei pantalonacci già unti e bisunti, scatarrando continuamente, con sputi e risate chiocce, lei a pochi metri, pareva immersa in un altro mondo, così distante, così lontano. 

Quando qualcuno le chiedeva il prezzo di una sua collana o di un paio di orecchini, lo dava con degnazione, ma senza scendere alla contrattazione in cui si affannava il resto del mercato, come per non sporcarsi, quasi per non scendere ad un livello così volgare. Un piccolo sorriso, poi lo sguardo vagava altrove perduto nel sogno. Se il cliente comprava, con piccoli gesti incartava il pacchetto e ritirava il denaro sudicio che le veniva consegnato, toccandolo appena con due dita quasi per non esserne contaminata. Poi si risedeva sul suo trespolo a continuare il sogno. Un sogno che diventava ogni giorno più netto e preciso, un sogno che coltivava fin da bambina, quello del giorno in cui un anziano ma ricchissimo commerciante di polli o di maiali, sarebbe venuta a chiederla in moglie, dandole la disponibilità di un conto in banca illimitato, una grande villa col tetto all'europea, nella nuova area di espansione fuori città, dove solo i grandi ricchi potevano abitare nello spazio recintato intorno al grande lago artificiale e dove lei avrebbe potuto godersi una vita ricca, grassa e senza pensieri, mostrando alle sue conoscenti, che avevano visto la bella Mei Li bambina, l'oro dei suoi gioielli e una grande Mercedes nera coi vetri oscurati con l'autista che l'avrebbe portata a fare spese in città.


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mercoledì 11 luglio 2012

Mietitura.

Stoppie di frumento.


Era rimasto l'ultimo. Ancora una decina di giorni fa, si confondeva nell'oro ramato degli altri campi di grano che lo circondavano nel falsopiano prima delle colline. Spesse, dense coltri di spighe, così vicine da tenersi in piedi l'un l'altra nonostante il carico di granella di cui erano orgogliose portatrici. Anche se col passare dei giorni, il capo chinava sempre di più, in quella fatica di vivere che sapeva essere vicina alla fine. Ma una fine gloriosa, ricca e ferace, piena di promesse e di orgoglio. Ogni campo, con una sua sfumatura leggermente diversa, con tutte le componenti dell'oro, a seconda delle varietà, così tante e differenti che l'intelligenza dell'uomo ha saputo creare in barba a chi, non conoscendo, pensa che il miglioramento genetico produca perdita di diversità. Qualcuna chiara, quasi bianca come la carta preziosa, altre del rosso acceso che la secchezza ha ormai avvinto, altre ancora quasi rosate per il sottile strato di pruina che avvolgeva le glume. Lunghe ariste a formare un tappeto sconfinato o corte spighe tozze e quasi nude, con la punta squadrata o invece aguzza ed elegante, altre ancora quasi deformi al centro per le cariossidi soprannumerarie che ne rigonfiano la parte centrale. Ma ormai il tempo era arrivato al termine ed i miliardi di cariossidi erano ormai pronte, secche al punto giusto per permettere di essere conservate, asciutte ma non avvizzite, anzi rotonde grasse, ricche e pesanti. Così ad uno ad uno, la grande macchina gialla, li ha ingoiati, quei campi rigogliosi. Con metodica ma implacata lentezza la larga bocca dalle lunghe zanne ingorde, è entrata impietosa a compiere il suo dovere. 

Taglia aspira frantuma dividi e poi ancora sgrana separa vaglia ripulisci ammucchia e avanza sempre alla stessa velocità, guadagnando terreno e spazio, facendo scomparire nel grande ventre la messe e lasciando dietro di sé soltanto l'andana diritta della paglia sminuzzata. Poi quando la grande bestia si sente piena, eccola correre al limitare del campo come un commensale della mensa di Trimalcione, mai sazio di piaceri, enfio di cibo, ma voglioso di averne ancora, a liberarsi vomitando quanto ingoiato ingordamente nel carro in attesa. Così a poco a poco se le è divorate tutte, le immense tavole gialle di spighe arcuate dalla canicola estiva. Era rimasto solo lui, quel grande campo quadrato al limitare della strada lunga e diritta, lontano da case e da capannoni fastidiosi. Dietro, una vigna verde e giovane risaliva la collina con promesse autunnali. Sembrava quasi che se lo fossero dimenticato, così isolato, sebbene ricco e gremito di spighe chiare dalle lunghe ariste che fremevano alla brezza, forse Centauro, forse qualche nuova varietà che io più non conosco. Ieri sono passato e quasi non l'ho riconosciuto il posto. Il destino si era compiuto. Il campo spoglio era disegnato dalle andane gonfie di paglia tagliata, infinite strisce regolari che disegnavano la geometria del lavoro, la perfezione del progetto. La terra ormai secca e dura che il calore estivo ha reso crostosa e resistente è rimasta ricoperta degli spuntoni gialli degli steli mozzati, duri come spine puntate verso l'alto. Ancora intravedi le file ordinate della semina tra la stoppia puntuta. Un taglio severo che lascia la coperta di una spazzola pungente, come quel barbiere dove mi portava la mia mamma da bambini, che brandiva la macchinetta in una mano e ti afferrava la testa deciso con l'altra, per il taglio estivo all'Umberta. Lontano, in un angolo del campo il grande mostro ormai fermo, ebbro per l'ordalia compiuta. I carri pieni se ne sono già andati al Consorzio Agrario a scaricare, assieme al resto, nel grande mucchio comune. Ricchezza, abbondanza, promesse di farine e di pane e molto altro. La carestia è ancora lontana.


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martedì 10 luglio 2012

Cinema ad Alessandria?

Vi ho spesso detto che Alessandria è una città morta, destinata a diventare una città fantasma, in cui non ci sono iniziative di nessun genere, figuriamoci se artistiche? Ecco qua a smentirmi immediatamente il successo dell'ultimo lavoro dei ragazzi di Paper Street (date un'occhiata al sito per apprezzare meglio), un gruppo di volenterosi e pieni di idee che si stanno facendo largo in questo mondo. Altro che Los Angeles o Bolliwood o Cinecittà. Qui, la nostra città si sta candidando come fucina di lavori cinematografici di qualità. Quindi beccatevi l'ultimo corto prodotto da Ferrando e Laugelli: La conseguenza di te (vedi qui i dettagli), che comincia a mietere impostanti riconoscimenti in giro. Aspettiamo dunque i prossimi lavori! Eccovi comunque qui sotto il corto al completo.



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Misteri alessandrini
Paper street.

lunedì 9 luglio 2012

Haiku a Roccagrimalda.

Tatsumi Orimoto - Elemento Vuoto.


Come vi avevo preannunciato, ieri al palazzo Borgatta di Roccagrimalda, suoni colori e profumi direttamente dal Giappone. Con Go dai (i 5 elementi), cinque grandi artisti del sol levante hanno esposto i loro lavori di arte contemporanea. Una suggestione da un mondo a noi poco conosciuto, ma davvero intrigante che ha mostrato le opere della performer Setsuko, maestra calligrafa, le celebri uova di Kawatani, le sculture di Azuma, le splendide  fotografie di Yamamoto, dalle suggestioni così sfumate, così evocative e infine le opere di Orimoto con la sua attenzione alla vecchiaia e alla malattia, argomenti scomodi in una società che inneggia alla gioventù e al predominio del vincente. Nello stesso ambito, la personale di Kinue Ohashi, maestra di origami (oltre che di Tai Ji della quale mi onoro di essere allievo), con i suoi Sogni colorati,  che fa dell'antichissima arte della carta piegata, diffusa in Giappone fin dall'ottavo secolo, l'Origami, un mezzo di espressione assolutamente personale. Ecco dunque nascere, dall'unione di centinaia di piccoli lavori di carta, grandi composizioni piene di colore e fantasia, un mondo pieno di sfumature, farfalle, fiori, animali, stelle, figure umane e geometriche. Le scene si ispirano a canzoni o alle brevi poesie giapponesi (haiku, tanka e altre), altre volte ad esperienze di viaggio e di vita dell'artista. Ma la nota dominante è comunque quella della semplice e profonda poesia che pervade tutte le sue opere e che si percepisce facilmente al primo sguardo. Le due ore che Kinue Ohashi ha dedicato a chi volesse, sotto la sua guida, cominciare a piegare i fogli sottili di carta colorata, vedendo la magia della nascita di forme con vita propria, sono state, il momento in cui questo paese ha mostrato la sua essenza: grazia, armonia e bellezza. Oggi vi lascio con un haiku di Ishida Hakio preso dal sito di Giappone in Italia.






Pesche bianche.
Il cuore si rivolge
verso la notte.


Kinue Ohashi - Origami.


Per chi volesse visitare lo studio di Kinue ad Ovada: 0143/ 821751 - ohashikinue@gmail.com


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Tarda primavera.



Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 119 (a seconda dei calcoli) su 250!