Arrancavo su una bicicletta rossa da ragazzino sulle strade davvero poco trafficate di una Valle San Bartolomeo di cinquanta e più anni fa. Neanche ancora sognavo la Vespa che non avrei mai avuto. Non si portavano soldi in tasca allora. Se c'era una specifica richiesta la mamma mi dava le venti lire per il cono di gelato quando alle due passava il carrettino e finiva lì. Ma in fondo nessuno della banda di under ten sentiva la necessità di averne. Girava così il mondo, né migliore né peggiore di oggi, come le ruote della bicicletta con la cartolina fissata con la molletta che scoppiettava tra i raggi per simulare il rumore del motorino, ma solo per il tuo piacere. In quel periodo non si pensava ancora alle ragazze, o per lo meno questo era un problema vago e dai contorni poco definiti, che era messo un po' in disparte per essere ripreso, come frutto irraggiungibile, qualche anno dopo. Un mistero da chiarire col tempo, al momento gli interessi erano altri. Andare a correre sui carrettini alla villa dell'amico ricco o pedalare fino al fiume a fare il bagno in mutande nell'afa del pomeriggio, tra moscerini e cicale, quelli erano i desideri primari.Qualche volta, altre stradine un po' più lontane, sterrati faticosi su cui la biciclettina faticava ad arrampicarsi, fino alla cima della collina, in alto sulla strada del Dazio, facendo il giro largo sul crinale da cui dominavi la valle. Ma non mi è rimasto niente di quel paesaggio delicato, forse bello, di una linea marcata che forse oggi avrei apprezzato e che probabilmente a quella età, poco avvezzo al concetto di bellezza astratta, lasciava indifferenti. Quello che interessava invece era un grande frutteto di pesche che scendeva dalla cima verso il basso, una coltura a cui la zona non era avvezza e che destava curiosità. Quelle pesche mi apparivano enormi e bellissime, così appese ai bassi alberelli che popolavano il campo in un ordinato quinconce.
Erano tonde ed enormi, con una vaga sfumatura rosata da un lato, verde oro dall'altro e una peluria delicata a ricoprirle che ti risvegliava sensi ancora sopiti. Mollavamo le biciclette nel fosso e poi come indegni razziatori cominciavamo a staccare un paio di frutti, scelti tra i più grossi e succosi dagli alberi più vicini. Poi andavamo a rosicchiarceli un po' più in là, nascosti in una ripa, rintanati come i ladri che si spartiscono il bottino, evidentemente consci di fare una cosa mal fatta, del consumare un furto il cui senso di colpa era ampiamente superato ed annullato dalla soddisfazione di quel rodere rotondità, sicuramente ancora acerbe e dure come pietre. Era il godere della mala azione più che un razionale ottenimento di beneficio pratico. Né ci sfiorava rimorso di reato commesso, come se inconsci che il portar via qualcosa, là dove ce n'era tanto, potesse essere considerato come vietato. Non rientrava neanche nella confessione dal prete. Poi una volta, arrivato a casa, scoppiò il bottiglione. Non si seppe mai quello che era successo davvero, ma me ne presi un fracco, in sintonia credo con quanto accadde nelle altre case dei miei complici. Sembrava solo che fossimo stati individuati dal proprietario del pescheto e minacciati di denunce varie. La parola carabinieri mi rimbombò nelle orecchie per tutta la sera tra uno sganassone e l'altro, che arrivavano da tutte le due parti in causa, anzi mi sembra che mia mamma usasse una ciabatta, per non farsi male le mani. Insomma, ogni tempo ha i suoi modi, quelli erano, allora i sistemi per insegnare a distinguere il male dal bene. Siccome mi ricordo ancora perfettamente quella notte di tregenda e che per parecchi giorni a seguire, nessuno della banda uscì più di casa, evidentemente per il terrore di essere rastrellato dalle forze dell'ordine in agguato, credo che l'avvenimento sia stato comunque di una qualche utilità nella mia crescita successiva. Può anche darsi che i Fiorito e compagni, non abbiano mai rubato pesche da ragazzini. Chi può dirlo?
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