sabato 26 ottobre 2024

Caucaso 28 - I monasteri da Dilijan ad Alaverdi

Monastero di Haghartsin - Dilijan - Armenia - Caucaso - maggio 2024 (Foto T.Sofi)
 

Il lago di Sevan

Siamo arrivati in fondo al lago, qui la costa si insinua tra le colline nascondendo i paesini che hanno un'apparenza di abbandono. Sembra che dopo la caduta dell'URSS, il crollo delle presenze di turisti russi abbia dato un colpo abbastanza pesante all'economia locale, con il conseguente spopolamento della zona. Lungo il lago si vedono infatti zone con quelle che potevano essere aree balneari o comunque luoghi di vacanza, ma il senso di abbandono è inequivocabile e tutto l'intorno ne risente. Quando arriviamo al promontorio che mostra sulla cima la costruzione del monastero di Sevanavank, tutto sembra prendere vita, quantomeno questa presenza attira fedeli e mantiene una attività. Anche la religione ha sempre mosso il business, molto in altri tempi, ma anche adesso è certo. Infetti la scalinata che porta alle costruzioni ammucchiate sulla sommità mostra un certo passaggio di fedeli ma anche di turisti, incluso un gruppo di chiassosi cinesi che guadagnano in fretta la cima tra gridolini delle ragazze e selfie sparsi lungo la salita. Come ho già detto questo promontorio, prima del maldestro e criminoso tentativo di semiprosciugare il lago, era un'isola, detta l'isola degli uccelli, staccata dalla riva e raggiungere il monastero prevedeva anche un passaggio in barca, facendo sì che l'eremo fosse di fatto isolato, tanto che si dice che qui venissero mandati i monaci diciamo così birichini, in modo che non avessero più occasione di essere tentati da donne o ragazzini, che poi alla fine i problemi son sempre gli stessi, in tutti i tempi. Si sa che la carne è debole.

Sevanavank

Le prime costruzioni risalgono al IV secolo, poi distrutte da Tamerlano che potendo non ne risparmiava nessuna, mentre le attuali risalgono al 1400, sebbene distrutte più volte dai terremoti. Per la verità di chiese ne rimangono solo due, la terza fu abbattuta durante il periodo sovietico e le pietre utilizzate per costruire una casa di riposo in città. Sic transit gloria mundi si potrebbe dire, tuttavia il luogo, che dal '90 si è è ripopolato di monaci, presenta nuovamente un rifiorire delle sue funzioni originarie. Sulla cima domini il lago e le due chiesette stanno lì con le loro pietre antiche ricoperte da licheni che le disegnano di trine colorate rosse e azzurre, mentre il cielo si infittisce di nuvole spesse, cariche di pioggia che però non vuole scendere, sempre più aggrovigliate con il solo desiderio di negarci un tramonto di fuoco che ci aspettavamo da questa posizione privilegiata. Così tutto il panorama assume quella colorazione di piombo che tanto caratterizza i laghi e li rende tristissimi. Scendiamo con calma mentre il cielo si scurisce ancora ed i pochi banchetti lungo le scale hanno ormai chiuso, avendo deciso che per il turismo la giornata è finita ed i monaci hanno altro a cui pensare e riprendiamo la via, fermandoci ad un'altra food court lungo la strada, che rappresenta sempre una valida soluzione per ingollare il necessario numero di calorie ed oltre, per proseguire poi fino a Dilijan, una deliziosa cittadina dal sapore passato, nel bel mezzo di un parco nazionale tra le montagne, fatto di foreste di latifoglie e alture che nascondono paesi abbandonati e una serie numerosa di monasteri e chiese antiche che vedremo domani. 

Case di Dilijan

Chiamata anche la Piccola Svizzera armena, era popolarissima in epoca sovietica, quando qui veniva tutta la nomenclatura dei politburò a "riposare", come diceva il mio amico Zhenja. Adesso c'è più calma naturalmente e forse proprio per questo il luogo è ancora più godibile. Noi siamo in una villetta in periferia, con un piano tutto per noi. Quelli che possono, adesso sfruttano le loro case per ospitare i pochi che arrivano ancora da queste parti ed arrotondare in qualche modo in questi tempi difficili. Il mattino ci trova un po' insonnoliti in questa atmosfera montana. E' ancora presto quando usciamo in città per passeggiare tra le sua antiche case che danno sulla valle circostante completamente ricoperta di fitti boschi di latifoglie. Qui ti rendi davvero conto di quale fosse la struttura e l'aspetto di una città armena dell''800, con le sue grandi case di pietra e di legno, con gli ampi balconi che ne circondavano il primo piano, sostenuti da sottili ed eleganti colonnine lignee, che coprivano lunghi porticati sotti i quali ancora adesso è piacevole passeggiare. Non stupisce che questa area così ben conservata, fosse focalizzata alla creazione di un interesse turistico di un certo spessore, senza considerare la splendida natura che circonda la città e le gemme architettoniche che i dintorni conservano, almeno nelle parti che i terremoti così frequenti e distruttivi, hanno evitato nei secoli di radere al suolo. In giro non c'è quasi nessuno e tutto ciò contribuisce ad aumentare l'atmosfera di solitaria bellezza che l'ambiente nel suo complesso ti ispira. 

La statua di Mkitar

Un pope, nella sua lunga tunica nera e il tocco cilindrico calato sui capelli disordinati, passeggia assorto nei suoi pensieri, nelle mani un libro, il breviario?, col dito dentro, certo per tenere il segno. Ha gli occhi semichiusi, il viso serio di chi ragiona sul destino delle anime in questo mondo così difficile da interpretare, da capire o chissà che invece non sia il tesoriere del convento, molto preoccupato dei conti che faticano a quadrare. Qualche casa è unita l'una all'altra da sovrapassaggi che, collegandole, aiutano anche a mantenerne salde le strutture, come nei nostri paesini di montagna, la prima difesa contri i feroci movimenti della terra. Ferro battuto, legni istoriati, rocce scolpite con disegni antichi, croci e stemmi che riportano ad un medioevo non così lontano come la conta degli anni vorrebbe. Fronde che stormiscono lontane sulle colline e che sono la colonna sonora del luogo. Poi basta spostarsi di qualche chilometro fuori città ed eccoci a Goshavank, un gruppo di edifici raggrumati gli uni sugli altri, cappelle, chiesette e ambienti utili alla vita di un monastero, biblioteca, refettorio, magazzini. Fuori, severa e scura, la statua al fondatore Mkitar, scienziato e scrittore, ti osserva mentre varchi l'ingresso di pietra. La chiesa di S. Gregorio l'illuminatore, è la più importante con la sua spettacolare volta nella quale gli archi di pietra si incrociano segnando una splendida crociera quadrata centrale da cui arriva una luce che diresti divina. 

Goshavank

Fuori, nella parte posteriore del complesso, una collezione di croci di pietra, tra le quali spicca quella siglata da Poghos che si dice essere la più bella dell'Armenia. In effetti se la osservi da vicino, assieme alle sue compagne che certo non sono da meno, ti sembra di guardare una sorta di lavoro all'uncinetto che si appoggia sulla pietra luminosa che quasi illumina lo spazio circostante. Certo di monasteri, di chiese il Caucaso è pieno, alla fine ne vedi tanti e il rischio è quello di confonderti o di aver poi un ricordo confuso che assomma tutto in un mescolone di dettagli ed elementi architettonici che vanno a fondersi in un minestrone di sensazioni di generica e confusa bellezza. Ma non è così. Basta riguardare una foto, rimestare un ricordo e subito un elemento distintivo ti salta poi alla memoria e rinnova quel piacere che hai provato, quella sensazione di appagamento che tutta la bellezza assoluta ti sa dare e che alla fine rimane ben fissa nella memoria. Un breve tratto di strada e siamo ad Haghartsin, che, come ricorda il nome è "il gioco delle aquile", un altro gruppo di costruzioni nascosto dal bosco al quale arrivi discendendo una ripida strada in un vallone. Chiare costruzioni dai ripidi ed eleganti tetti a spiovente, sui quali spicca il tamburo ottagonale, che i 16 archetti alleggeriscono ulteriormente, alto con il cono terminale aguzzo che si libra su tutto. E' un'altra bella costruzione molto omogenea di quel periodo d'oro per l'architettura armena, che gira attorno al XII-XIII secolo e che tante bellezze ha seminato in ogni parte del paese. 

La quercia 

Dappertutto noti croci e simboli della cultura armena, dai bassorilievi alle lettere dell'alfabeto sparse anche sulla campane. Sculture ovunque, nella pietra si allinea il disegno potente dello scalpello che crea storie, volti, immagini, molte che riportano le aquile della tradizione che hanno contribuito al nome del complesso. Tre chiese, opera globale dell'architetto Minas, che ne fece il suo capolavoro, la minore delle quali, è una replica in piccolo della principale. E poi un vasto refettorio con mobili replicati su modelli dell'epoca. All'interno tombe di regnanti che hanno fatto la fortuna del luogo e le splendide strutture che culminano in oculi centrali da cui la luce entra prepotente a fendere l'oscurità degli ambienti portando quello che sembra davvero un anelito divino. Non per nulla qui si dice si avverta "la voce di Dio", al punto tale che lo sceicco arabo al-Khashimi, che ha visitato il luogo nel 2005, è rimasto talmente colpito da questa emozione da finanziare completamente i lavori di restauro del sito, caso direi decisamente anomalo in tempi moderni che un islamico finanzi un tempio cristiano. Mi sembra non poca cosa. E poi ancora molte khachkar tra le quali una di quasi 800 anni, detta anche la croce infinita per il suo disegno che crea un effetto di repliche continue. Dietro la chiesa anche quello che rimane di una antica quercia, un tronco corroso dai secoli e ridotto ad una crisalide cava, dentro il quale si può addirittura penetrare, e riuscendo a fuoriuscirne lateralmente e senza danni, avere la certezza della risoluzione dei propri desiderata e della corresponsione delle grazie richieste. 

Haghpat

Poi la strada prosegue in una lunga valle montana verso nordovest e dopo Vanadzor pieghiamo decisamente a nord traversando una costa di montagne per avvicinarci ancora di più al confine georgiano. Altre due gemme ci aspettano nascoste nella valle del Debed, una gola profonda scavata in un altopiano con la parte superiore piatta ed estremamente regolare che percorri velocemente, salvo poi precipitare verso il fondo in una serie di tornanti ripidi e avvolti dal bosco. Si tratta di altri due complessi monastici posizionati in alto in modo da dominare le gole stesse e che quindi propongono viste mozzafiato sul panorama sottostante. Prima Haghpat, decisamente scenografico, domina su un piccolo centro abitato sottostante ed è costituito dal solito insieme di cappelle, chiesette, biblioteca, refettorio e altri magazzini vari destinati alla vita conventuale. Gli interni, dove domina la pietra grigia, sono piuttosto spogli, ma questa povertà d'arredo fa risaltare ancor di più la struttura architettonica con il gioco delle volte sostenute da grandi archi che si incrociano, in particolare la grande sala centrale della chiesa principale, bene illuminata dalle aperture della cupola, sostenute da imponenti e massicce colonne ornate da ricchi capitelli. Qui sono visibili dei begli affreschi che raccontano di come dovevano essere policrome e ornatissime, all'origine. Anche il campanile che spicca esternamente non è consueto in questo tipo di costruzioni. 

Il campanile

Svetta sul culmine della collina come fosse una cappelletta distinta e solo lo slancio di verticalità che lo contraddistingue lo fa individuare nel suo uso, non appena intravedi sopra il timpano, dalle piccole bifore laterali, la minuscola esedra sommitale che ospita le campane. Elegantissimo con i suoi angoli smussati che terminano in decori tipicamente persiani, anche le modanature delle pareti esterne sono di complemento di una vera e propria opera d'arte assoluta. In un altro vasto ambiente laterale, forse un magazzino, al quale tuttavia la serie di archi e volte conferiscono una dignità quasi sacrale, ecco apparire sul pavimento una serie di fori circolari, la parte esterna di orci che probabilmente erano destinati alla produzione tradizionale del vino, che proprio in queste aree ha visto la sua invenzione, se così la vogliamo chiamare. Magnifiche le cappelle esterne, con gli ingressi che appaiono come trine scolpite nella roccia tenera e sormontate da altrettante stupende croci. Torniamo quindi in fondo alla valle, verso Alaverdi la città industriale che è sorta qui in epoca sovietica con lo sfruttamento delle miniere di rame, oggi molto ridotte come produzione e quasi abbandonate, che presenta la faccia triste di ogni luogo postindustriale di epoca passata, con le sue file di capannoni in disuso, lasciati in preda alla ruggine e al degrado. Lo spopolamento che ne è conseguito contribuisce ancor di più a quell'aria di desolato abbandono che ammanta tutti questi luoghi che hanno avuto una storia recente di industrie finite nel nulla, nonostante, assieme all'attività della fonderia, dia ancora lavoro a qualche migliaio di persone. 

Madonna col velo islamico

Certamente l'aspetto dell'area è devastante, in linea con tutti i similari luoghi minerari delle altre parti del mondo. A soli sette chilometri invece, risalendo il bordo della gola, eccoci a Sanahin, altro centro culturale religioso di una certa importanza dove una comunità di monaci studiava i testi sacri, ricopiandoli e producendo opere d'arte straordinarie. Il gruppetto di edifici risulta qui seminascosto tra i rilievi erbose e le costruzioni emergono da lontano solo per le loro parti superiori. Su tutti domina il grande gavit, l'imponente e severo vestibolo della chiesa principale di San Astvatsatsin (Santa madre di Dio), con il suo lungo colonnato di sostegno  che devi percorrere per entrare nella chiesa, passando per la interminabile serie di lastre tombali scolpite, che formano esse stesse un incredibile decoro sacro. Molte le immagini sacre tra le quali spicca una curiosa Madonna con velo islamico, segno che le contaminazioni religiose da queste parti sono tutt'altro che rare. Ma anche l'altra, quella di St. Amenaprkich, ha una struttura straordinaria col suo grande vestibolo quadrato che anticipa la navata rettangolare ed altissima sostenuta da colonne grasse e tozze, completamente ricoperte di iscrizioni nel geometrico alfabeto armeno, quasi a contrasto con lo slancio della costruzione complessiva. In fondo, nell'abside che la tenda rossa lascia aperta e visibile, secondo la tradizione ortodossa armena, due monaci parlano tra di loro alzando gli occhi al cielo di tanto in tanto. 

I lunghi capelli grigi raccolti in una codina, un po' hippy d'altri tempi, si muove all'unisono con i cenni di affermazione. All'esterno le alte pareti alle quali la pietra squadrata darebbe un senso di pesantezza, sono alleggerite da una serie di archetti verticali che terminano in sottili ed eleganti colonnine che arrivano fino al suolo. Anche qui una costruzione a torre contiene il campanile. Attorno, tutta una serie di costruzioni minori, cappelle, le tombe degli Zacharia, la famosa biblioteca ed una chiesetta in rovina, della quale indovini a malapena la cupola crollata di pietre grigie ammonticchiate a terra. Dappertutto una imponente serie di khachkar, alcune bellissime davvero. Ce ne sono almeno una cinquantina, alcune all'interno, altre a far da corona, con la loro tenera pietra rossa a far da contrasto con il grigio delle pareti, sparse all'esterno. Insomma un altro luogo a cui la assoluta assenza di visitatori conferisce un senso di sacralità molto coinvolgente. Se non fosse per qualche banchetto lungo la scala che sale al monastero, davvero avresti la sensazione di vivere in un tempo diverso. Mille anni qui non sono niente, almeno questa è la sensazione. 


Distillatori di calvados

Mentre scendiamo passiamo davanti al cimitero recente, qui niente khachkar, ma grandi lastre tombali di granito nero sulle quali sono state riprodotte, credo con un sistema di elettroerosione, vere fotografie del defunto lì sepolto. Piuttosto impressionanti. Ma una signora ci chiama da dietro al suo banchetto, visto che passa poca gente di qua. Il marito ci fa subito entrare nella sua casupola che sta alle spalle del negozio stesso. Lo abbiamo beccato che stava distillando mele, in una specie di calvados di queste parti e vuole subito mostrarci il suo lavoro, insomma che qualcuno lo apprezzi. Ci racconta un po' del suo laboratorio contadino, poi parte l'assaggio, 56 gradi, un po' forte direi, ma lui ride contento; un po' di formaggio aiuta a far passare l'aggressività del liquore, ma quello di 62 gradi, lo lasciamo; è davvero troppo per noi. E' un pensionato, ha fatto l'insegnate di ginnastica e l'allenatore di basket, adesso si dedica solo alle attività di campagna, con gran gusto direi. Quelli che passano di qui, li invita solo per il piacere della chiacchierata, la moglie fuori al banchetto lo guarda con l'aria di chi ormai se lo trova a casa tutti i giorni tra i piedi e ne deve sopportare la presenza. Ma a questo punto la nostra strada volge a sud e ce ne andiamo anche se con la gamba un po' malferma e non si tratta della strada percorsa. Meno male che guida il nostro Saro.

Il pavimento a Sanahin

SURVIVAL KIT

Gli orci ad Haghpat

Monasteri della zona di Dilijan e Debed - Goshavank - A circa 20 km in un villaggio di nome Gosh, fondato attorno al XII sec. dal sapiente Mkhitar Gosh, estensore del primo codice penale, di cui si vede la grande statua. Uno dei migliori esempi di architettura armena. Nel cortile si vede quella che è considerata la più bella Khachkar dell'Armenia. Haghartsin - Altro capolavoro artistico ad una quindicina di minuti da Dilijan, privo di mura esterne con molti pezzi importanti. Infine, più a nord a pochi chilometri da Alaverdi, nelle gole del Debed, i monasteri di Haghpat e Sanahin dalle architetture molto interessanti e se vi rimane tempo a una ventina di chilometri il monastero di Akhtala, unico della zona a conservare una serie molto completa e piuttosto ben conservata di affreschi.

Una khachkar

Sanahin
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lunedì 21 ottobre 2024

Caucaso 27 - Il lago Sevan

Cimitero di Noraduz - Lago Sevan - Armenia - Caucaso - maggio 2024 - (foto T.Sofi)

 

L'altopiano

Dopo il caravanserraglio la strada scende di poco lungo sconfinati pascoli ondulati. C'è anche un banchetto che vende meravigliosi coltelli di ossidiana, dalle lame lucenti, davvero belli anche se a prezzi di affezione. Il venditore, che li fabbrica anche, sembra molto contento del nostro apprezzamento anche se alla fine non compriamo niente. Li mostra in silenzio, facendo scorrere le dita grosse e callose, sulla lama di pietra scheggiata da colpi attenti e perfetti per far saltare le schegge senza rovinarne la linea come facevano i suoi progenitori neolitici, gli occhi come fessure, le labbra strette se pure piegate in una specie di sorriso. Poi li ripone sull'asse del banchetto, pur apparentemente contento che qualcuno abbia apprezzato il suo lavoro. Lontanissime piccole casupole, riparo estivo di pastori e solo raramente qualche casa isolata, presidio di poteri lontani, sperduti in queste marche di frontiera, quasi completamente spopolate. Un fiumicello di montagna percorre tutto l'altopiano compiendo curve e controcurve con meandri larghi che frenano la corrente, a volte perdendosi in un acquitrino di canne, quasi che l'acqua non avesse nessun desiderio di scendere a valle e volesse invece rimanere quassù il più a lungo possibile, per abbeverare greggi, per potere scorrere calma con lo sguardo rivolto a questo cielo finalmente azzurro e libero dalle brutture che di certo troverà più a valle. Poco dopo ecco infatti un altro simbolo di questa voglia di purezza assoluta. 

La fonte

Un piccolo recinto di pietra che racchiude una fonte di acqua quasi gelata, d'altra parte le placche di neve scendono fin qui dai rilievi vicini, che gorgoglia, ricca, da un cannello in una vasca antica, sormontata da una grande croce scolpita nella pietra grigia e da una scritta in armeno di incerta interpretazione, almeno per me. Un fonte alpestre che sapor d'acqua natia rimanga nei cuori esuli a conforto e a lungo illuda la lor sete in via, direbbe il Vate. Un invito ai viandanti a sedere sul muricciolo e a riposare un poco prima di scendere da questo mondo antico e pastorale, poggiando se ce l'hanno la loro verga di avellano. Per strada non incontriamo quasi nessuno, le poche auto che incroci, sono vecchie Zigulì scassatissime o Lada sovietiche mezze arrugginite, che pure se la cavano ancora su questi sentieri di montagna, arrampicandosi sulle carrarecce tra i monti. Eppure laggiù all'orizzonte dove la terra scende ancora, un diverso tipo di azzurro si confonde col cielo. Il sole si è ormai fatto strada tra le nubi e balugina come un'esplosione di stelline su uno specchio. Una superficie in cui le nuvole si rispecchiano per continuare il loro cammino, a sua volta circondato da altri monti lontani. E' il lago Sevan, l'ultimo dei tre grandi laghi di montagna che sono rimasti a questo paese. Gli altri due, un tempo parte della grande Armenia, raccontata da Polo, il lago di Van e quello di Urmia, sono rimasti rispettivamente alla parte estrema dell'Anatolia turca ed all'Iran. 

Il lago a sud

E' la riserva idrica più importante del paese, date le sue imponenti dimensioni, un grande mare interno in alta quota visto che siamo attorno ai 1900 metri. Il suo nome significa lago nero, ma non per il colore delle acque che invece è di un azzurro vivo. Pare infatti che durante una delle consuete invasioni arabe (questa è terra di continue battaglie e tentativi di conquista), gli abitanti della città che sta proprio alla fine del lago, attraversarono a piedi la superficie ghiacciata per rifugiarsi sull'isolotto adiacente che ancora oggi ospita un antico monastero. Anche gli invasori si avventurarono sullo strato indurito, ma vuoi che fossero troppi, vuoi che la forza delle preghiere abbia fatto il resto, fatto sta che il ghiaccio si ruppe e l'esercito invasore finì a mollo e tutti annegarono, facendo sì che la superficie del lago fosse completamente nera di corpi che galleggiavano. Leggende, ma questo lago ha continuato ad avere una storia tormentatissima, fino all'epoca sovietica, quando un celebre ingegnere russo, quello colpevole della devastazione ecologica del lago di Aral, tanto per intenderci, tale Manasserian, all'inizio del secolo, propose di abbassare il livello delle acque, scavando canali di scolo, per favorire l'agricoltura nei dintorni. Era il momento in cui si celebrava l'epopea della battaglia tra l'uomo e la forza della natura, quasi una potenza nemica, ferale e quasi ferina, da combattere e distruggere, esattamente il contrario di quello che accade adesso insomma, dove si tende ad esagerare dall'altra parte.

Il lago Sevan

Lo scempio fu cominciato direttamente in epoca staliniana, con il fine di abbassare il livello della profondità delle acque di almeno una cinquantina di metri, fortunatamente alla fine degli anni '50, con la morte di Stalin, mentre il livello era già sceso di una ventina di metri, visto lo scempio in atto che avrebbe trasformato il Sevan in una pozza fangosa, il progetto fu arrestato e anzi si cercò di riparare deviando le acque di altri fiumi con canali sotterranei. Ma la soluzione tentata a volte si dimostrò peggiore del danno già cominciato e altre volte fu interrotta da guerre e grane varie, che la zona chiama a sé come una calamita. Al momento per fortuna, la situazione sembra stabilizzata, anche se parecchio danno è stato fatto. Comunque sia il lago è ancora bellissimo, con la sua solitaria pittoricità, le poche case lungo le rive ed il senso di solitudine che conferisce sempre l'alta quota. Vero è che sono sorti molti siti dove in estate si è espanso un turismo balneare, visto che il ritiro delle acque, che arrivano anche sui venti gradi ad agosto, ha formato una serie di piacevoli spiaggette. Scesi dall'altopiano, di qualche centinaio di metri, intanto arriviamo all'estremo sud del lago e lo costeggiamo sulla strada M10 che ne percorre l'intero perimetro a sinistra verso nord. La sensazione è di calma assoluta e le rive sembrano quasi disabitate, anche se è vero che siamo ancora fuori stagione, ma come tutti i laghi alpini mi comunica un certo qual senso di tristezza. Un frammento di arcobaleno esce dalle nubi e si tuffa nel lago quasi a volerti invitare a seguire le tracce della pento d'oro.

Il cimitero di Noraduz
Oltretutto sembra che anche la famosa trota del Sevan, che assicurano deliziosa, sia ormai praticamente scomparsa, sostituita dal coregone del Ladoga, pesci rossi e gamberi anatolici, insomma, tra cinesi, russi e turchi 'sta povera Armenia, vogliono proprio farmela a pezzi e sostituirmela etnicamente. La strada prosegue lungo il lago e dopo una quindicina di chilometri, all'interno di una tozza penisola che si allunga verso le acque, c'è un piccolo abitato di case basse e malandate. Al loro fianco un'ampia superficie ricoperta da un folto prato che con i raggi del sole ormai conclamato, si mostra verdissimo. All'interno, come una fungaia anomala, una incredibile serie di steli rosse, si alza da terra in ogni forma e dimensione. Siamo nel cimitero di Noraduz, il più grande rimasto di questo tipo, dopo che gli Azeri hanno distrutto e spianato, quello medioevale di Julfa sul confine dell'enclave azera di Naxçivan che ne presentava oltre 10.000, in una sorta di genocidio culturale che lo ha trasformato in un poligono di tiro, dopo la caduta dell'URSS. Entri in questo campo di memorie e davanti a te, a perdita d'occhio, si estende una foresta di pietre rosse che escono dal terreno, oltre mille pare, che risalgono addirittura al IX secolo. Qualcuno dice anche prima. E' probabilmente la più grande collezione a cielo aperto di Khtachkar, una delle arti artigianali artistiche, proprie unicamente di questo paese. 

Tomba di un bimbo

Questo tipo di stele, formato di una pietra rettangolare, generalmente di arenaria rossa, più facilmente lavorabile, presenta una bella croce circondata completamente da una serie di figure o di fregi naturalistici, tralci di vite, foglie, uva, disegni geometrici e dischi solari. Il luogo oggi, ha perduto la sua sacralità cimiteriale, ci passano le greggi, brucando il verde pascolo ed i ragazzini ci giocano a pallone, ma l'atmosfera tra questa selva di pietre rosse, battute dal sole che sta per tramontare dietro le colline, trasformandole in pale infuocate, sopra le quali, i licheni e le muffe secolari hanno aggiunto all'opera dell'artista umano, quello casuale ma straordinariamente efficace della natura, danno uno spettacolo che ti lascia senza fiato. Un gruppetto di donne infagottate di scialli neri vicino all'ingresso, vendono lavori a maglia, calze spesse per l'Inverno, guanti e sciarponi colorati, ma senza insistenza. Noi procediamo fino al centro del prato passando vicino alle mura dell'antica chiesetta che lo presidia e fermandoci continuamente ad ammirare le croci ed i loro complicati bassorilievi. Quelle piccole a terra, allineate a gruppetti di quattro o cinque, portano solamente la sagoma del corpo bambino che racchiudono. Un senso di serena pietà le circonda, con quel segno sbozzato dei corpicini sepolti gli uni accanto agli altri, senza nomi o distinzioni, forse per una malevola epidemia o chissà come altrimenti. 

Nel cimitero

Le più recenti sono state erette attorno al XIII secolo e sono più grandi e raffinate, le più antiche più semplici e rozze, anche se  forse, l'imprecisione del tratto è dovuto più all'ingiuria delle intemperie che alla mano dell'artista che le ha create che di certo rozzo non era. Che meraviglioso colpo d'occhio! Alcune sono assiepate come una barriera senza spazi, altre sorgono spargole qua e là come cresciute naturalmente, altre ancora stortagnole o addirittura cadute a terra, come vinte dal peso dei tempi, davanti a lastre tombali ingobbite dalla spinta delle radici sotterranee o dalla forza smisurata dei terremoti che percuotono periodicamente questa terra. I fregi ne ornano i bordi con archetti e trine eleganti, i rami di pampini ne completano le campiture, mentre le figure più complesse e misteriose si affidano alle interpretazioni più di fantasia. In qualche gruppo più fitto si innalzano piccoli obelischi che spiccano alla vista di lontano, quasi ci fosse un disegno preordinato, una mappa da seguire che porti ad una meta finale nascosta e densa di mistero. Hai assieme un senso di mistico e di fatato al tempo stesso, un passeggiare in un regno fantasy in attesa dell'arrivo di qualche creatura d'altri mondi. Fatichiamo a staccarci dal sito, ma non vogliamo perdere il tramonto dal punto più a nord del lago, dove spicca sulla collinetta in mezzo alle acque la sagoma della cupola del monastero di Sevanavank, dove ci avviamo prima che diventi sera.

Figure


SURVIVAL KIT

Lago di Sevan - Uno dei più grandi laghi in quota del mondo, rappresenta il 5% della superficie dell'attuale Armenia. A 1900 metri. Attualmente ha avuto un certo sviluppo turistico. Da vedere il famoso cimitero di Noraduz sulla riva occidentale, che conserva centinaia di croci antichissime (Khachkar) e il monastero di Sevanavank, su quella che dopo il calo di acqua è diventata una penisola con una altura che domina tutto il nord del lago. Una strada di oltre 200 km lo circonda completamente e che si può percorrere per gustarne ogni panorama in ogni direzione, che nella riva est raggiunge quasi fino ad un paio di chilometri il confine azero.

Steli di khrachkar

Khachkar antica IX sec.
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venerdì 18 ottobre 2024

Caucaso 26 - La valle del Tatev

Passo di Selim - Armenia - Caucaso - maggio 2024 - (foto T. Sofi)


La funivia

Il tempo si intristisce sempre di più, rilasciando una nebbiolina bassa e uggiosa che ti lascia solo indovinare lo splendido paesaggio circostante, fatto di montagne lontane, pascoli rigogliosi e verdi vallate, dove cominci ad intravedere le spaventose spaccature del territorio che a breve scenderà verso il confine iraniano, ormai a qualche decina di chilometri, mentre quello del Nagorno Kharabakh, che ormai dovremmo definire Azerbaijian a tutti gli effetti scorre alla nostra sinistra da tempo. L'area di questo estremo lembo di Armenia è davvero selvatica e solitaria e comincia a manifestarsi anche nella strada che, di chilometro in chilometro, si fa sempre più malandata e piena di buche fangose. Anche i rari agglomerati di case sembrano ordinati baraccamenti predisposti sulle alture circostanti, lasciate dai tanti camion che ballonzolano trascinandosi verso sud. Quando arriviamo a Halidzor, il villaggio rimasto in questa area un tempo insediamento piuttosto importante sulla riva sinistra delle gole del fiume Vorotan, fatto di chiese, monasteri e piccoli villaggi, sulla via del deserto iraniano, oggi abbandonati, è quasi sera. E' una zona particolarmente interessante proprio per queste sue tracce di presenza umana che ha avuto il suo massimo fulgore attorno all'anno 1000, che ne facevano evidentemente  un punto di transito importante su un ramo della via della seta che puntava proprio verso sud est. Oltre a queste presenze rimane la bellezza dei luoghi con i suoi canyon profondissimi, le  acque che li percorrono, gettandosi in salti successivi con ardite e ruggenti cascate, i boschi impenetrabili delle sue balze. 

Nella chiesa

Le case dell'attuale paesino sono un residuato sovietico, posto sul limitare del precipizio, cosa che garantisce viste spettacolari sulle gole. Il nostro alberghetto, una serie di bungalow in legno è proprio in splendida posizione. Il precipizio è ad un passo, la sponda opposta sembra potersi toccare con le mani. Scende la notte e non si sente un minimo rumore. Poi, lontanissimo, giù nella forra l'abbaiare di un cane che forse cerca una luna nascosta dalle nuvole basse. Una casetta di legno affacciata sul vuoto ci aspetta per cena. Specialità locali e ambiente molto familiare ci aspettano, sembra di essere nei territori più sperduti e lontani da Mosca, all'epoca delle mie peregrinazioni caucasiche, quando ancora ero io, il mercante in cerca di opportunità.  D'altra parte con gli spiedini di pollo e di maiale, non sei mai morto e poi le deliziose patate al forno con la pancetta e una grassa e ricca purea, ti fanno satollo in fretta. Il vino poi, lo fa direttamente il padrone di casa, così come il brandy, ruvido e forte, che concluderà la cene. Non sarà l'Ararat 25 anni della mia giovinezza, ma tra queste montagne sarebbe sciocco lamentarsi, mentre devi solamente goderti il momento e l'atmosfera. La notte è buia e senza luci, l'umidità penetra nelle ossa e le pareti di legno della tua camera, scaldano solo a guardarle. La mattina arriva di colpo e anche se la giornata non sembra migliore di quella di ieri, pazienza, continuiamo a goderci questa atmosfera sfumata da film fantasy, più che altro abbuffandosi di una pantagruelica colazione, ricca delle presenze locali. 

L'eremo

I due formaggi, uno più sapido e granuloso, uno morbido e dolce, sembrano appena arrivati dal gregge che ieri sera sfilava lungo la strada. Ma è soprattutto la panna acida densa e corposa che la fa da padrona, mi sembra quella che nelle baite di Dombay, in Circassia, mi rischiarava le mattine d'inverno negli anni '90. La signora continua a portare piatti, rossi pomodori ed i consueti ma terrificanti cetrioloni affettati, almeno per il mio stomaco, devo ancora digerire quelli che mi facevano ingollare prima che crollasse l'URSS, figuriamoci se mangio questi, ma tutto il resto è assolutamente delizioso e la padrona di casa, sembra offendersi se non facciamo onore. Non sia mai, sarebbe brutto. Ce ne andiamo verso le nove, che di cose da vedere, come sempre ce ne sono parecchie, anche se la giornata, sinceramente butta male. In effetti questa zona, dal punto di vista paesaggistico promette moltissimo ed ha moltissimo da dare , ma con la pioggia e le nuvole basse. si vede poco ed i colori sono molto attutiti, comunque sia bisogna fare di necessità virtù ed accontentarsi di quel che passa il convento, il convento appunto che è il punto chiave di questa area. Intanto si decide che visto che siamo arrivati fin qui, tempo o non tempo andiamo a fare la famosa funivia di Tatev che consente di raggiungere l'altrettanto famoso monastero di cui vi dicevo, un'altra delle meraviglie architettoniche armene. Bisogna ammettere che il salto è impressionante e la valle che scorre sotto di noi, mentre il vagoncino fila a tutta velocità, sembra farlo invece con grande lentezza, tanta è la distanza e lo spazio. 

La cascata

Anche se la luce non è ottimale, scorgi però il fiume che scorre in fondo e che questa unghiata ha scavato nella terra e nelle rocce, la grande cascata iniziale, che da lontano appare come un salto gentile che forma un bell'arco dalla fenditura a V e cade allargandosi come un velo di sposa e soprattutto puoi apprezzare le rovine dell'antico eremitaggio, costruito dai monaci nel 1600 circondato da un basso muro, che fu quasi completamente distrutto dal terremoto disastroso solo una cinquantina di anni più tardi. Deve essere un luogo suggestivo che si raggiunse solo con un tortuoso sentiero lungo i fianchi della gola e che la natura si sta riprendendo a poco a poco. Dall'alto si vede bene la massa verde che da secoli ha aggredito i muri e le rosse costruzioni di mattoni che a fatica emergono tra il folto dei cespugli. Pare che oggi ci viva ancora un monaco eremita, ma bisognerebbe andare a darci un'occhiata e la strada non è agevole. Verso il termine del lungo salto, ecco altre rovine dell'antico villaggio di Shinuhayr che dopo aver resistito per quasi mille anni è stato a sua volta distrutto, come quello di Khot e tutti i molti altri della valle, in un altro terrificante evento tellurico negli anni 30 del secolo scorso. Questa è una terra molto ballerina e questi disastri si sono succeduti nei secoli con una catena infinita di distruzioni epocali che hanno più volte costretto gli abitanti di queste valli sperdute ad abbandonare i loro territori ed a ricostruire i poveri paesi in altre posizioni, magari a torto ritenute più sicure. Pensate che attorno all'anno mille in questa area erano calcolati oltre 600 villaggi. 

Il monastero di Tatev

Alla fine comunque la funivia si ferma sulla balconata di arrivo, davvero un bel salto. La macchina di Saro ci dovrebbe raggiungere, ma non si vede nessuno. Cominciamo a preoccuparci, con questo tempo la pioggia e le strade fangose in uno stato piuttosto disagevole, non si sa mai cosa possa succedere. Dopo una mezz'oretta eccolo che arriva, aveva finito la benzina e come potrete capire da queste parti non è così agevole trovarne. Comunque anche questa è risolta e non ci rimane che scendere il sentiero che raggiunge il monastero, circondato come di consueto da una cerchia di mura. Il sito comprende due chiese, una più antica e maestosa, innalza il suo alto tamburo centrale sormontato da una bella cupola con dodici spicchi. Nonostante il tempo, il monastero è piuttosto affollato di fedeli. Nella chiesetta più piccola si S. Grigor, un pope dalla barbaccia incolta sta officiando una cerimonia, attorno a lui si assiepa un gruppo di persone a cui lui rivolge attenzione, uno alla volta, prende loro le mani, li consola e continua la preghiera sommessa rivolgendo poi le braccia al cielo. Intorno i ceri ardono sulle tavole di ferro disposte lungo i muri. Fili di fumo vanno verso la volta lontana a cercare uno spiraglio di uscita, senza fortuna. L'altare dietro, che la tenda di velluto rosso accostata di lato, ha lasciato scoperto, è sopraelevato come un palcoscenico in attesa dello svolgimento dell'atto successivo. 

La valle sottostante

Fuori, adesso che la foschia si è alzata, l'erba umida sembra smeraldo e ti bagna le scarpe mentre fai il giro delle mura fino ad arrivare allo strapiombo sulla valle, duecento metri più in basso. Nascosti contro le mura alcuni ambienti, antichi magazzini e refettori, ospitano adesso una sorta di museo che raccoglie la collezioni delle croci, meravigliose steli scolpite da mani di artigiani sensibili e fantasiosi. Le grandi macine del frantoio testimoniano invece che qui si lavorava comunque e che, come dalle nostre bande, i monasteri vivevano sul substrato agricolo del circondario, certamente allora ben più diffusamente popolato. Insomma un luogo interessante da molti punti di vista, storico, religioso, artistico e non ultimo naturalistico, visto lo scenario maestoso che lo circonda e si capisce bene il tentativo in atto di rilanciarlo dal punto di vista turistico, vista anche la situazione piuttosto depressa della intera regione. Ma è ora di riprendere la strada che oggi ce n'è ancora molta da fare. Ripercorriamo dunque il tratto già percorso fino al Vorotan pass, poi dopo una cinquantina di chilometri prendiamo la strada M10 che gira decisamente a nord per superare un altro rilievo di monti. Subito dopo il passo di Vardenyats o Selim come era chiamato un tempo, proseguiamo sull'altopiano tra pascoli verdissimi, dopo avere zigzagato su una serie di tourniquet sul fianco della montagna per poi scendere subito dopo dagli all'incirca 2400 metri, verso pianori e altri pascoli che proseguono all'infinito. 

L'ingresso

Qui su una balconata rivolta a nord, contro la montagna ecco comparire una costruzione bassa e massiccia che racconta di una grande epopea storica. Si tratta del Caravanserraglio di Orbelian, uno di quei luoghi dove le carovane trovavano riparo la notte, quando percorrevano queste piste spesso infestante da briganti o, come ci racconta Marco Polo nel Milione, che qui certamente passò nel suo viaggio di andata, "da Saracini e son cattiva gente" e prosegue al cap.21: "...quivi dimoran la state tutto il bestiame dei Tartari del Levante per lo buono pasco che v'è, di verno non vi stanno per lo gran freddo, che non camperebbono le loro bestie...". Che emozione, certamente qui tra queste spesse mura di pietra, è passato certamente anche il Marco diciottenne, ansioso di avventura, con la sua smania di conoscenza ed ha calcato questo ingresso, ha governato le sue cavalcature al centro, dormendo in una di queste rientranze laterali, dove i mercanti trovavano tranquillità e sicurezza durante la notte, scambiandosi informazioni attorno al fuoco, raccontandosi di prezzi e materiali reperibili, di spezie, di tessuti, di gemme e poi, certamente, di leggende e storie, quali solo l'oscurità della notte sa inventare, magari al suono dei cembali di qualche femmina locale, una Sherazade che tentava di profittare del passaggio di quegli stranieri che arrivavano da lontano e che il giorno dopo sarebbero ripartiti. 

L'interno

L'ingresso è su un lato, segnato da un basso portale triangolare, con bei fregi, sormontato da una nicchia a muqarnash; ai fianchi due altorilievi di animali, un toro ed un altro fantastico, forse un leone o una chimera. All'interno la sala a volta, sostenuta da colonne laterali, si allunga con una infossatura centrale dove rimanevano gli animali, per agevolare la pulizia evidentemente, mentre ai lati si susseguono le nicchie dove gli ospiti passavano la notte. L'ambiente manifesta in ogni caso una notevole dignità architettonica, considerando anche che siamo in una sperduta banda dell'Asia e mostra bene quale era la vita del mondo di quasi mille anni fa, percorso comunque da un flusso ininterrotto di genti che spostavano merci, che creavano commerci, contatti e allo stesso tempo contribuivano alla circolazione delle idee e delle conoscenze. Vi assicuro che con tutte le implicazioni che riesce a raccontare, questo luogo è emozionante e stare qui a guardare la valle, con un cane da pastore accucciato ai miei piedi che ansima, buttandomi uno sguardo interrogativo di tanto in tanto, mentre aspetto di sorbire un sorso del caffè che Saro sta facendo sul fornellino, non ha prezzo. Un pastore a cavallo sposta più in basso i suoi torelli scuri. Il vento dell'est spira forte sul crinale, porta con sé sentori di lontano oriente, di mondi sconosciuti che invitano ad andare, andare avanti senza fermarsi. C'è ancora tanto da scoprire dietro quelle colline lontane che nascondono l'orizzonte. 

La valle al passo di Selim


Il bungalow
SURVIVAL KIT

Hotel Old HalidzorHalidzor-Tatev main road (H 45) 5.3 km from Tatever ropeway, Halidzor station - Struttura di ospitali casette di legno con allegato campeggio, con camere comode e spaziose. Pulito, bagno tutto funzionante. Posizione panoramica molto bella sulla valle. Gestori molto gentili. Possibilità di cenare in struttura, cosa molto comoda se si arriva alla sera. 19.000 dram in 5, incluso vino e brandy prodotto in casa. Ottima occasione per assaggiare cibo locale. 34 € la doppia, colazione abbondantissima inclusa, uova, pomodori cetrioli (classici), due tipi di formaggio, burro casalingo e una sensazionale smietana. 

La chiesa di Pietro e Paolo

Valle di Tatev - Zona molto interessante dove il terreno scende di quota verso la piana iraniana, dall'altopiano armeno, frantumandosi in molte valli e gole laterali. Qui c'era un antico insediamento di molti villaggi ora abbandonati a causa dei terremoti succedutisi nel secoli. Da vedere le Wings of Tatev - La campata aerea di funivia più lunga del mondo, oltre 5 chilometri. da fare in 11 minuti di ansia a più di 300 metri di altezza. Finita nel 2010 da allora è nel guinness dei primati e consente di raggiungere il famoso monastero anche d'inverno. Poi il Monastero di Tatev, un magnifico esempio di architettura armena molto ben conservato e ancora attivo con le chiese di S. Grigor e quella di S.Poghos e Petros e diverse altre costruzioni esistenti fin dal IX secolo, tra le quali un antico frantoio, diverse sale, e la stele oscillante posta in mezzo alla corte. Più a nord sulla strada del lago Sevan, fermatevi tassativamente al Carvanserraglio Orbellian, il meglio conservato dell'Armenia, che vi avvincerà con le sue implicazioni psicologiche-

Un pastore


La chimera
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Museo delle croci








7 -  Kazbegi

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