mercoledì 31 luglio 2013

Recensione : V. Pozner - Il barone sanguinario.

Per chi è appassionato di romanzi storici, ecco qua un volume assolutamente interessante. L'autore, intanto, Vladimir Pozner, un francese figlio di russi antizaristi in fuga a Parigi dal 1905, è quasi un fondatore di un nuovo genere letterario, oggi diremmo un doculibro fatto su informazioni raccolte, documentazioni scovata negli archivi, interviste e ritagli di giornale, messa insieme con fatica per costituire lo schema di un romanzo storico, di cui si racconta anche le difficoltà di costruzione, in una sorta a di metaromanzo attraverso la quale se ne segue anche la genesi, con tutti suoi vicoli cechi costituiti da personaggi improbabili che millantano parentele e conoscenze dei fatti. Comunque vi troverete tra le mani una biografia di un personaggio misterioso, il barone Von Ungern-Sternberg, sanguinario e pazzo, protagonista di un periodo storico pochissimo conosciuto, la guerra dei russi bianchi contro i bolscevichi attorno al 1920, col tentativo folle di costituire un impero siberiano-mongolico. 

La storia (titolo originale Le mors aux dents), scritta nel 1937, quindi molto vicino ai fatti descritti (l'autore era in Russia durante la rivoluzione di ottobre, fino al 1921 e la descrisse in 1001 jours), parte tra le mille difficoltà di reperimento delle fonti, poi prende la mano e via via vi farete trascinare in questa lotta grondante sangue, impiccagioni, frustate e sogni impossibili, attraverso il territorio della Mongolia, tra cinesi del Manchukuo, giapponesi in attesa di sfondare in Asia e l'esercito russo bolscevico ormai impadronitosi completamente del potere. Il barone, condottiero sanguinario e al tempo stesso carismatico ed affascinate, in preda al delirio di onnipotenza e a visioni religiose buddhiste e tibetane, scivola a poco a poco verso l'inevitabile sconfitta, tra follia e delirio di onnipotenza fino alla condanna alla fucilazione di un tribunale del popolo, anche se, per la verità, la sua fine è controversa e secondo alcuni storici, morì invece di morte naturale, mentre secondo altri fu visto negli anni '50 sorbire tranquillo un caffè al Mozart di Vienna. Sia come sia, al castello Ungern sono stati recentemente segnalati fenomeni di "infestazione psichica", quindi ce n'è per tutte le versioni. Per gli appassionati di storia, un libro da non perdere.



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martedì 30 luglio 2013

Miracolo a Torino.

A volte i miracoli accadono. Può venire il diluvio universale, potete perdere tutto nel crollo di borsa o i Pooh possono separarsi per sempre. Voi penserete che non c'è più nulla da fare, che tutto è perduto e che mai lo statu quo ante potrà essere mai ripristinato. Inutile rivolgersi a Padre Pio o a Francesco anche se adesso è molto più di moda, quello che è finito è finito. I morti non risorgono. Ebbene, qualche volta non è così. Come chi mi segue sa bene, qualche mese fa mi è accaduta la più grave disgrazia che a un povero smanettatore da tavolo possa accadere: il prematuro cedimento dell'hard disk del mio PC. Come dice la parola, in un mondo di mollaccioni, il disco dovrebbe essere la cosa più dura di tutto il computer stesso e quindi l'ultimo a cadere nella dura lotta per la vita e per l'eternità, invece è successo. D'altra parte, tranquillo di ciò, non avevo minimamente provveduto a fare alcuna copia di back up, pur avendo in dotazione almeno altri tre dischi esterni, di cui uno con apposito software di back up automatico. Per carità, sapevo che prima o poi sarebbe stato opportuno farlo, ma appunto prima o poi, chi va ad immaginare che un bel giorno ti capita proprio la disgrazia, che il fulmine coglie proprio te tra i tanti che ti circondano. Invece proprio a me, si vede che ero il predestinato. Inutile dire quante volte mi sono sentito dire, ma come, non avevi salvato niente? Il mio pusher che ha preso in consegna il cadavere e che già una volta mi aveva riportato in vita dal coma profondo un altro attrezzo, in questo caso era stato subito esplicito, come fanno ormai i medici moderni.

E' ormai etico mettere il malato con prognosi infausta, subito di fronte all'amara realtà e così era stato, duro e crudo, potevo dare addio a quasi 6000 foto e altri files vitali, a meno che ritornare in Africa e in Indocina a rifarmele tutte. Certo, mi aveva buttato lì qualche parola detta e non detta, favoleggiando di speciali pratiche esoteriche, di misteriose white rooms, lasciando cadere mezze parole su cifre elevatissime e nemmeno proponibili. Me ne ero andato col mio morticino in mano e con le pive nel sacco, ma come tutti i parenti dei malati senza speranza, prima di affidarsi alle palliative, si tenta sempre almeno una volta di andare dal santone che ti promette guarigioni miracolistiche, imponendoti le mani o inoculandoti staminali varie. Nel mio caso il santone si è materializzato in un ragazzotto sedicente solutore di ogni problema digitale impossibile, che vantava già precedenti successi nel campo. Dopo un mesetto di cura il morto mi è stato restituito con scuse varie, che ne rimarcavano l'impossibilità di trattamento resuscitativo. In realtà, il sospetto è che, causa mancanza di tempo e di altro di più importante da fare (avete notato come tutti lamentino mancanza di lavoro e nella pratica siano tutti talmente impegnati da non darvi neanche retta?), il mio povero corpicino offeso, sia stato abbandonato in un canto e neppure preso in considerazione, poi dietro le mie continue insistenze di avere una qualche notizia, mi sia stato restituito tanto per toglierselo dai piedi. 

Comunque mi apprestavo ad una adeguata sepoltura nell'apposito sito di smaltimento, a cui il poverino mi sembra avesse pieno diritto, visto l'entità della Tares pagata, quando un'anima buona mi ha suggerito un sito internet di recuperatori di dati, probabilmente una congrega segreta di monaci che vivono in catacombe sconosciute ai più, che promettevano prodigi a cifre modiche e soprattutto dichiaravano di fare una diagnosi gratuitamente, cosa di un certo interesse. Non essendo possibile portare direttamente il defunto sul luogo dell'autopsia, certamente segreto ed introvabile, mi è stato dato un comodo recapito a Torino, dove un paio di settimane fa, mi sono recato a fare la consegna come  un carbonaro mazziniano, col mio pacchetto sotto il braccio avvolto in carta di giornale. Non avevo i baffi finti per non farmi riconoscere, ma chi lo ha ricevuto, lo ha messo subito sotto il banco con fare circospetto e non ha voluto rispondere a nessuna delle mie domande indiscrete, mostrando apparente mancanza di conoscenza. Non so, sono qua solo per ritirare. Del mio pacco non c'era già più nessuna traccia, forse era già in valigia diplomatica che viaggiava verso Mosca. Dopo qualche giorno vengo contattato da un gentile giovane che dice che purtroppo, contrariamente a quanto sperato, non ci sono possibilità di recupero per via "normale"ai prezzi indicati nel sito: da Euro 149. Appunto da... Ma, e qui la voce si è fatta più suadente, il caso era molto complesso, eppure c'era ancora la possibilità di adire ad un trattamento eseguito con macchine per così dire "speciali", certo purtroppo il costo cambiava, ma.... 

A questo punto avevo ormai la bava alla bocca, si sa quando ti prendono in questo modo, per impedire che un tuo caro si spenga definitivamente sei disposto a a tutto. Mi sono sentito chiedere con voce rotta a quanto sarebbe ammontato il disturbo. Ho dovuto sedermi sulla sedia. Ma capirà, è una operazione molto delicata, un lavoro lungo e poi ci sono i supporti su cui riversare i dati e poi le spese di spedizione e l'imballo, e poi ancora c'è l'IVA, capirà e va già di lusso che non c'è stato ancora l'aumento al 22%, grazie Letta, e lo smaltimento del residuo. Dopo una trattativa indecente mi sono sentito accettare la cifra di 696 Euro per togliermi il dente, pagamento immediato con carta di credito, fiducia massima, sito protetto. Tento una estrema difesa prima di arrendermi. Come posso avere la garanzia che potrete entrare nel disco ed estrarre tutti i files perduti,visto che è procedura così complessa? Non c'è problema, ecco qua già pronti l'elenco dei files recuperabili in un battibaleno e giù a snocciolarmi tutte le mie foto tanzane, laotiane ed ogni altro recesso più intimo e segreto del mio passato recente. Aveva già Tutto pronto davanti, il subornatore di fanciulle indifese. Ho capitolato, ho dato l'indirizzo e soprattutto gli estremi della carta di credito. Poi mi sono messo in religiosa attesa, immerso nella meditazione come un bonzo pronto a disfare in un attimo  il mandala che ha costruito in anni di paziente lavoro.

Cercavo solo di scacciare nei recessi più nascosti della mente l'atroce dubbio. Come farà a trovare la mia porticina nascosta, il tizio del DHL, visto che anche il postino non ci arriva e rimanda indietro le mie pur rare lettere? Oggi non si può dare semplicemente il tuo numero di telefono in modo che, avvisato, ti presenti sul ciglio della strada a ritirare il pacchetto, adesso c'è il tracking number, un precario di un call center di Battipaglia ti può dire in qualunque momento dove si trova, ma non come accordarti con chi fa le consegne per farti trovare. Disperavo ormai, conscio della difficoltà della cosa, consolato a fatica dal barista della Rosa Rossa, che mi diceva di dare il bar come recapito per la prossima volta, quando ecco comparire, come una morgana in mezzo al deserto, un giovine bennato con i capelli viola, con un pacchetto in mano e un aggeggio nell'altra, dove ha raccolto la mia firma ed è scomparso subito dopo come uno hobbit tra gli alberi della foresta.Una corsa a perdifiato fino a casa, un armeggiare nervoso con l'attrezzo che ci mette tanto ad accendersi, poi la magia. Ragazzi eccoli lì tutti i miei files perduti, controllati ad uno ad uno e amorevolmente ricopiati sul mio nuovo PC. Felice anche se di parecchio alleggerito (dei miei sagrìn, è ovvio). E' proprio vero, a volte i miracoli accadono. Pagando, naturalmente. 



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lunedì 29 luglio 2013

Pioggia.



Accidenti! Acqua da magnìn come si dice da queste parti. Sveglia alle sei con tuoni, fulmini e saette e poi giù si sono aperte le cateratte del cielo vomitando secchiellate d'acqua, bombe liquide come gavettoni maligni lanciati dalle streghe della montagna. Tuttavia quando sei sotto le coperte al calduccio e sul tetto senti il vorticoso tamburellare della pioggia, c'è  una sensazione di piacevolezza. Ci si rinserra meglio, rannicchiati, tirando su meglio le coltri per non fare sfuggire il calore e poi si sta lì ad ascoltare il tac tac senza fine, un rumore piacevole che ti fa compagnia, che ti racconta storie, che riporta alla luce il senso delle montagne verdi scuro per l'umidità, ricoperte di boschi dai tronchi ricoperti di muschio. Ogni tanto, un lampo rischiara la notte che sta per finire dietro l'imposta chiusa, dopo un attimo un colpo fortissimo squarcia l'alba che sta arrivando, sembra uno schianto di un velivolo alieno sulla costa dietro le case, forse addirittura nel giardino dietro casa. Ti prende un senso di paura ancestrale, senza spiegazione logica, ti appallottoli ancora di più, in attesa che il bombardamento finisca, che l'invasione abbia inizio. Poi il tambureggiamento scema di intensità a poco a poco, mutandosi in un rumore di fondo, poi scompare del tutto. Si fa giorno, il camoscio capo branco, comincia a controllare la valle dall'alto del crinale. Il cielo grigio scuro, le nuvole basse gonfie di acqua, sembrano rischiararsi, diradando un poco. Poi un raggio di sole rischiara la valle, le pietre del selciato, le foglie degli alberi che continuano a sgocciolare. Più aumenta la luce, più la trasparenza dell'aria si fa cristallina ed aumenta la distanza a cui puoi fare arrivare lo sguardo. Forse da una cima potresti vedere la città lontana, non c'è la minima presenza di foschia. Come è pulita l'aria! 


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sabato 27 luglio 2013

Polenta e salciccia.

 



Bisognerebbe affidare uno studio ad una di quelle università americane importanti per poter finalmente capire il mistero. Sono cose difficili da incasellare, da etichettare. Perché è pur vero che ci sono cose che hanno affermato la loro icastica indispensabilità attraverso un lento lavoro di secoli, come la pasta e fagioli ad esempio, mentre per altre sono bastati pochi attimi per esplodere con il fulgore di una supernova e diventare parte integrante della dignità di un popolo, come il marocchino schiumato alla nutella. Ci sono poi realtà che hanno conquistato il loro posto al sole, con apparente noncuranza, quasi senza fatica, rimanendo lì ad occupare una posizione che in fondo nessuno ricorda appartenuta a qualcun altro. E' di certo il caso delle acciughe e bagnetto. Ma in altri casi la spiegazione di un fenomeno è assolutamente nascosta ed inaccessibile. Prendiamo la polenta con la salciccia. Cibo plebeo e nientaffatto qualitativamente di classe. Un sapore deciso, livellato indegnamente dalla dose di droghe dell'insaccato, salsa di pomodoro per annegare il tutto in un simbolico bagno di sangue e poi farina di mais in quantità industriale, lasciata cadere a pioggia come sabbia del deserto, sollevata dall'harmattan e portata lontano nel calderone, per mescolarsi all'acqua e compiere il suo ciclo vitale. Cibo umile e anche un po' insulso, che potete raccontarla come volete, ma alla fine, con tutti i voli pindarici che ci volete mettere, rimane sempre un tappabuchi della storia culinaria di una nazione, anche in tempi come questi dove si cerca di recuperare qualunque schifezza pur che abbia l'alone dell'antan, del come era buona la roba di una volta, dei saperi che si vanno perdendo e tutte le altre insulse sopravvalutazioni che servono soprattutto a far marciare un business. 

Diciamolo pure, la polenta e salciccia vale un riempimento del tubo digerente in caso di necessità, tutt'al più per una cena sull'aia alla fine del raccolto, sperando che non sia stata un'annata troppo umida e che nel mais ci siano poche aflatossine. Dimenticavo, basta che non sia OGM che così siamo salvi, per le aflatossine pazienza. Dunque bocciata. Chi volete che si sbatta per mangiarsela. Eh, ma allora non avete capito niente di dove voglio andare a parare e di come è la gente. E' sufficiente che al centro di un paese qualche giorno prima venga messo un cartello con tanto di annuncio: serata gastronomica, Polenta e salciccia e altre specialità della valle ed un paese che anche in pieno periodo estivo è quasi totalmente deserto, di colpo si popola di masse sconfinate di gitanti famelici. Da lontano par di vedere il quarto stato in marcia verso il sol dell'avvenire. Le prime avvisaglie si hanno già nel tardo pomeriggio. Le macchine parcheggiate lontane nei prati, che i posti più accessibili son tutti presidiati da tempo, gruppi  di amici e famigliole si avviano a passo di marcia sostenuta, chi conta i soldi per l'acquisto, chi cerca posizioni comode per consumare, chi si predispone già alle 18,30 in una coda, dapprima appare timida, poi non appena formata, subito si rimpolpa di nuovi arrivi come per timore di rimanere senza. C'è chi non si sa decidere, se occupare i posti nelle lunghe tavolate predisposte da stuoli di volontari o se invece mantenere una posizione di privilegio nel turno di avvicinamento al pentolone. Mariti che litigano con le mogli, bambini che frignano, poi alla fine ci si scambiano i posti. Intanto i nuovi arrivi si guardano intorno sgomenti di essere arrivati ormai troppo tardi, insicuri di trovar posto seduti, obbligati forse agli scalini più periferici, nessuno osa pensare di essere oltre il numero fatidico di chi per ultimo raschierà il fondo del paiolo. Intanto, sotto una tettoia da tempo un pentolone ricolmo di broda rossa in cui galleggiano cilindri marroni sospetti che, il sapiente movimento di un lungo bastone, fa via via affondare e riemergere come in una terribile pozione per un sabba mortale, viene accudito dall'addetto barbuto con cura severa e luciferina. 

Dall'altro lato, il paiolo è colmo fino all'orlo della fangosità dorata che ondeggia limacciosa e ribollente, senza pace, continua il rimestio, che la polenta non deve essere abbandonata un attimo a se stessa, se no si offende e si dà al primo venuto come l'harem di uno stambecco che, distratto se ne vada a brucare erba più verde, mentre altri maschi, più occhiuti ed astuti, anche se più deboli, non aspettano altro che subentrare allo stolto. La coda intanto ha assunto proporzioni da mostra del Louvre. Qualcuno rumoreggia, lamentando l'ora non rispettata d'inizio delle danze, mentre gli altri ormai vinti dall'attesa non hanno neppur la forza di protestare, aspettano, che questo è il destino del popolo bue. Finalmente qualcosa si muove e le prime mestolate fumanti vengono lasciate andare nei piatti di plastica che quasi fondono al contatto con il materiale a temperatura elevatissima. Cucchiaiata di broda rossa a cappello e avanti un altro. I più avveduti, mangiatori di lungo corso, hanno con sé pentolini appositi dove raccogliere i materiali forniti ed evitare le ustioni che i più maldestri invece tentano di scansare passandosi i piatti da una mano all'altra in un balletto logistico che non riesce quasi mai ad evitare il peggio o lo strabordamento del materiale fumante. Ma alla fine eccoli tutti lì che mangiano, mangiano gettandosi nel gargarozzo cucchiaiate di lava fusa che cuoce loro immediatamente le mucose dell'esofago, ottenendo così anche il vantaggio di cancellare il sapore del resto da ingurgitare prima che in pochi minuti diventi tutto gelido e solidificato. Il tutto va avanti per ore per la gioia del cassiere delle esauste casse della Proloco; infine la massa si muove a piccoli gruppi, chi tentando di spegnere l'arsura provocata dalla salciccia, prosciugando le fontanelle sparse, chi andandosi a spiaggiare riverso in fondo al paese dove sta partendo l'altro must della serata: balli occitani per tutti, tradizioni e antichi saperi dei pastori degli alpeggi. Bisognerà pur trovare una spiegazione logica a tutto questo. Comunque per la verità non era mica così malvagia.



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venerdì 26 luglio 2013

Tajarin cun le garitule.

Vi avevo già parlato qui  di questo ristorantino adatto a chi risale la Val Chisone, Ai Cacciatori di Roure, in cui si torna volentieri. Quindi non starò di nuovo a raccontarvi la solita favola del lupo del rapporto qualità prezzo.Volevo invece portare la vostra attenzione su un piatto molto interessante, i tajarìn cun le garìtule, che capita di rado di assaggiare, causa la ormai non facilissima reperibilità di questo delizioso fungo. Il finferlo come si sa è una vera squisitezza per amatori, profumato e delicato al tempo stesso, che il ristoratore medio,  in generale, lesina in quantità a causa del prezzo, che lievita come il pane fatto con le giuste farine. Qui invece ne avrete un bel piattone generoso in cui i deliziosi miceti si mescolano con la fine pasta fatta in casa in proporzioni più che dignitose. Appena colti nel sottobosco dei vicini castagneti, mantengono tutta la loro consistenza e profumo, quindi sconsigliata l'aggiunta di parmigiano che ammazzerebbe il delicato equilibrio  del piatto. Naturalmente li troverete solo per un breve periodo, quando i raccoglitori della zona forniscono il ristorante con quel che hanno trovato la mattina, ma se sarete raccomandati, come me, ve li terranno da parte. Non serve dunque oltre parlare del flan di zucchini e menta alla fonduta, del filetto di trota in carpione o dell'assaggio gentile di un fegato alla veneziana in forma assolutamente delicata, preparato su ordinazione da altri, ma di cui non abbiamo voluto privarci. Né del coniglio alla ligure o del roast beef morbidissimo e neppure dei classici persi pièn di cui vi ho già parlato altrove. Non mancate, se non ha già finito la quantità che produce in casa, il digestivo liquorino all'alloro di un verde mirabile che appaga l'occhio, oltre che la papilla. Niente foto stavolta che ho lasciato a casa la macchina fotografica. Bisognerà ritornare.

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giovedì 25 luglio 2013

Recensioni: K.Follett - L'inverno del mondo.




Secondo episodio della trilogia The century, il romanzo ripropone i figli dei personaggi del volume precedente, raccontandone le storie che si intrecciano continuamente attraverso tre continenti. Come sempre storicamente ineccepibile, il periodo raccontato, ripercorre tutta l'ascesa del nazismo dal 1933 fino al suo tragico epilogo, vissuto nelle vicende complicate delle famiglie coinvolte. Come la maggior parte dei lavori di questo autore, la storia ti conduce morbosamente attraverso le 1000 pagine per vedere come finiranno le vicende dei vari personaggi. Alla fine non ci sono santi lo devi finire per forza. Ci sono tutti gli ingredienti più classici delle spy stories, sull'affresco generale della vicenda tedesca e delle tragedie a tinte fosche della guerra con tutti i suoi orrori. Comunque una letteratura di consumo, che va bene giusto per l'ombrellone e che, probabilmente viene commissionata anche per numero di pagine, anche per giustificare in qualche modo i 25 euro richiesti, cosa che, del resto può anche essere considerata un difetto visto la difficile maneggevolezza di lettura del tomo, se si è distesi sul lettino in spiaggia o peggio direttamente sulla sabbia. Si vedono qua e là i cedimenti stilistici alla cassetta, quel terminare i capitoli con pennellate di sesso un tanto al pezzo, cosa evidentemente giudicata di acchiappo per lettrici e lettori di bocca buona. Direi che anche con l'indulgenza dovuta alle letture estive ci sono modi migliori per spendere i soldi.


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martedì 23 luglio 2013

Il Bar Baleta: l'angolista.

L'angolista - gent. concessione Gino "Baleta" Gemme


Il Bar Baleta era un cosiddetto bar con biliardo, ma l’attività principale, oltre al far passare il tempo nelle discussioni più improbabili, come quella famosa del peso dell’aquila, che andò avanti per mesi, era il gioco della carte. I giochi più gettonati, oltre ai tarocchi, erano lo scopone, la briscola in cinque e tutta quella serie di giochi discendenti dal bridge come King, Superking e così via. Il bridge era evidentemente giudicato troppo snob e impegnativo soprattutto bisognoso di una concentrazione difficile da ottenere con il via vai e la allegra confusione del locale. Così, i pur diversi appassionati, sceglievano altri ambienti più titolati e solo di tanto in tanto alla domenica mattina, con la presenza di qualche giocatore di particolare rilevanza (la squadra alessandrina ha militato anche in serie A) si formava un tavolo attorno al quale si faceva subito un ambiente di rispettoso silenzio, rotto solo dagli ululati e dai pugni sul tavolo dei più nervosi in seguito a qualche errore dei soci malcapitati. Per tutto il resto della giornata e nelle lunghe serate invece, l’atmosfera era più distesa e gli sfottò classici, sempre uguali ma facenti parte del rituale, la facevano da padrone. Di norma i quattro giocatori di ogni tavolo, brigavano e discutevano con tranquillità sulle varie possibilità della partita, imprecando alla sfortuna delle carte sempre contrarie. 

Tuttavia questa armonia instabile durava fino al momento in cui arrivava una figura particolare, il famigerato Angolista. Costui è personaggio addirittura istituzionale nel bridge, che si definisce con un nome specifico: Kibitzer (addirittura un termine yiddish, tanto per capirci!), ed è una vera piaga sociale per ogni circolo che si rispetti. Il tizio in questione, mediocre giocatore di solito o facile all’iracondia, cosa che gli impedisce di trovare un compagno fisso, è convinto in assoluto di essere un campione e soprattutto di avere in mano ogni segreto della tecnica di gioco. Arriva con fare circospetto, mentre tutti gli stanno alla larga, quando i tavoli si sono già formati, oppure rimane regolarmente spaiato quando le quadrette si accordano per iniziare la partita. Poi con calma, ordina un caffè e si sceglie il tavolo più litigioso o quello che lui ritiene composto da giocatori più scarsi e, afferrata una sedia si dispone ad un angolo del gruppo in modo da poter osservare con calma durante il gioco, le carte dei due giocatori che gli stanno ai lati. All’inizio ovviamente non dice nulla, poi appena capisce di essere spettatore accettato, comincia di volta in volta a rilasciare dichiarazioni sui supposti errori madornali commessi dai giocatori. E’ ovvio che conoscendo le carte di almeno due contendenti  e spesso del morto, è come se giocasse a carte scoperte, quindi parte da una posizione di considerevole vantaggio. 

Ma la cosa più insopportabile è che assieme alle perle di saggezza che dispensa alla fine di ogni mano, su come si sarebbe dovuta effettuare la giocata, o la dichiarazione, su quale sorpasso si sarebbe dovuto sperare o sulla facilità della conta delle carte in mano all’avversario, trincia giudizi impietosi sulle capacità dei vari giocatori, espliciti ed offensivi se in buona confidenza, mostrando facce e smorfie di dolore disumane ai supposti errori, nei tavoli meno tolleranti. Va da sé che in generale, nonostante la sua posizione di vantaggio, l’angolista prende quasi sempre lucciole per lanterne, vede squeeze inesistenti, messe in mano fantasiose e scorda di solito che le carte che suppone già uscite sono in realtà ancora in mano ai vari giocatori. Di norma gli viene restituito pan per focaccia e l’incauto viene caricato di contumelie e gli viene mostrata senza troppo savoir faire la sua pochezza, cosicché alla fine se ne va scornato, blaterando sulla incapacità generale dei giocatori del bar e inseguito dai lazzi impietosi delle sue supposte vittime. Il Bar ha avuto tra le sue file angolisti famosi di cui non voglio dire oltre, figure che anch’esse, però hanno collaborato a costruire quell’affresco impagabile che è stato il Baleta.


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lunedì 22 luglio 2013

La tartaruga.

La tartaruga anela all’infinito. Da quasi venticinque anni se ne sta dentro una bacinellona azzurra di plastica, alternando momenti di torpore a fasi di movimento lento, mangiucchiando pigramente quanto le viene fornito dall’alto, piccoli pellets colorati,frammenti di gamberetti secchi, larve o piccole parti di verdura, che inghiotte senza masticare, con colpi ritmati del becco tagliente. Poi ritira la testa un poco dentro il carapace mostrando solo le lunghe striature rosse ai lati della bocca. Poi, appena non la guardi si mette in movimento, sempre lentamente di certo, ma con determinazione assoluta. Si avvicina al bordo e con movimento alternato delle zampe anteriori, tenta di issarsi. Gli unghioni scivolano sulla plastica liscia, le zampe posteriori tentano di spingere tutto il corpo da dietro, la testa stessa esce al massimo, mentre il collo si allunga all’inverosimile per tentare di arrivare in qualche modo fino al bordo. Annaspa ancora quasi con disperazione, po,i rimasta un attimo in una situazione di equilibrio estremamente precario, precipita verso il basso inesorabilmente e senza possibilità di fermarsi.

Appena sul fondo nell’acqua melmosa, si prende un attimo di tregua,la gola si gonfia e si sgonfia ritmicamente come ad un atleta al culmine dello sforzo o come un cardiopatico al termine della rampa di scale, poi ricomincia, lenta ma costante nel successivo tentativo di risalita. Vede il cielo sopra di sé e null’altro, non sa nulla del mondo che la circonda, ma imperterrita continua da venticinque anni in questo impossibile tentativo di fuga. Ha ripetuto l’inutile sforzo per migliaia e migliaia di volte, sempre uguale, sempre destinato ad un insuccesso imprescindibile. Una lezione che nulla insegna di fronte ad una genetica brama di libertà. Lei non cede, non demorde mai, come un uomo che pur convinto della altissima probabilità di essere mortale, tuttavia non può esserne assolutamente certo fino a quando non ne avrà la definitiva, se pur fatale conferma. Issa, issa, povero animale prigioniero, compi anche tu il tuo destino, ma seguendo il tuo ritmo, lento e implacabile. Come diceva il grande poeta giapponese Buson in un suo haiku famoso, Oh tartaruga, Sali anche tu sul monte Fuji, Ma piano, piano.


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La poesia ha un prezzo?

domenica 21 luglio 2013

Applicare l'applique.

Quando arrivi nella casa abbandonata da mesi, oltre allo sconforto ed alla desolazione del rudere ricoperto di polvere che appare come una tomba etrusca appena scoperchiata, nasce subito il problema delle cose da fare o da ripristinare. Questa situazione è nota anche come sindrome del bricoleur. Ci sono persone infatti a cui non solo questo incubo, dà piacere ed eccitazione, ma si capisce subito che se  non ci fosse se lo andrebbe a cercare, tanto gli friggono le mani per mettersi subito a lavorare alacremente, aggiustando, sistemando, rimettendo in funzione. Compaiono subito attrezzi di ogni tipo che il nostro ammirevole uomo di casa, si porta sempre con sé, casomai ne sorgesse la bisogna, che so io, per  una porta che si chiude male o una spina pendula  ed ecco saltar fuori da borse segrete,  cacciaviti e arnesi multitasking per affrontare la necessità del momento. Forse non si è capito ma io non sono mai stato accettato in quel club. Mettere le mani in qualsivoglia meccanismo o lavoro che rimetta in grado qualunque cosa di funzionare, è superiore alle mie forze, alla mia comprensione, di più mi ripugna applicarmici e cerco di sfuggire come un cane rabbioso alla vista dell’acqua, quando questo obbligo diventa imprescindibile. Già vi ho detto della messa in funzione della stufa, ma stamane, anche se ho cercato di defilarmi con una manovra di aggiramento degna di miglior causa, sono stato bloccato sulla soglia di casa e portato di peso davanti a una cosetta che nella scorsa stagione era stata messa da parte il giorno prima della partenza dicendo, ci penseremo un altro anno. Un punto luce, assolutamente indispensabile che dà vita alla cucina, aveva cessato di funzionare irrimediabilmente e a nulla era valso un primo contatto ispettivo, né il tentativo di sostituire semplicemente la lampada al neon aveva prodotto risultati. 

Quindi eccomi davanti al problema. Uno, avesse almeno una schiera di assistenti che, a richiesta, gli fornisse gli strumenti necessari, che so io, bisturi, forcipe, garza, ecc, sarebbe un piacere, il chirurgo potrebbe operare con tranquillità e profitto, invece l’infermiera di sala è al livello del dottore e le cose si fanno subito difficili. Il primo problema è smontare la vecchia applique. Semplice direte voi, ma se serve il cacciavite a stella, voi quale pensate io abbia in dotazione? Naturalmente quello a taglio. Quindi già questa prima operazione si è rivelata complicata, riverso col collo piegato in maniera innaturale verso l’alto, mentre le cervicali chiedono aiuto, le braccia sembrano di cemento, il cacciavite non caccia le viti, frammenti di soffitto si sbriciolano e ti finiscono negli occhi. Un inferno.  I tasselli sembrano fusi nel mattone, insensibili a qualsiasi richiamo e non si muovono, quando le prime urla belluine cominciano la scalata verso il cielo. In un modo o nell’altro qualche cosa si smuove, poi d’un tratto tutto crolla, per fortuna l’assistente lo acchiappa al volo prima che si infranga al suolo, il grosso rimane appeso ai fili al soffitto. Bisognerebbe staccare tutto e riattaccare il nuovo appena acquistato al Fai da te, che il Signore se lo portasse via chi lo ha inventato. Via le valvole, almeno fin lì ci arrivo, poi cominciamo le operazioni. Naturalmente mancano le forbici, il nastro adesivo e quanto altro serve all’elettricista. Subito un veloce messo viene mandato ad acquistare il dovuto, poi tra cristi e madonne si taglia, o meglio si strappa via tutto con rabbia. Poi il compito più arduo, bisogna leggere le istruzioni della nuova applique da appendere. 

Un romanzo di fantascienza, da cui è impossibile sviscerare se i fili 1 e 2 vanno inseriti nei punti 3 o 4, poi bisogna trovare i punti per inserire il filo della terra , ma ahimè la terra non c’è data la vetustà del sistema. Alla fine è chiaro che bisognerà andare per tentativi. Quando viene il momento della presa delle decisioni e quando rimangono solo i duri, ecco l’inghippo insormontabile, i buchi preesistenti sono come ovvio, in punti diversi e non combacianti, quindi l’applicazione diventa impossibile, sono necessari nuovi tasselli, trapano per i buchi, volontà di osare e soprattutto tanta tanta pazienza. Tutto è perduto, vista l’impossibilità di procedere, giocoforza si deve abbandonare il campo lasciando a terra morti e feriti, dopo avere sommariamente avvolto i fili col nastro appena ricevuto in dotazione, lasciandoli poi mestamente penzolanti dal soffitto martirizzato in pieno nulla di fatto. Tutto il vecchio accantonato a lato, il nuovo, lì a terra in attesa di essere ripreso in considerazione. Si vedrà, in seguito. Per intanto le truppe che orgogliose avevano disceso la valle, si ritirano in rotta risalendo l’antico cammino. Un tavolino del Bar della Rosa Rossa, immortalato dal De Amicis in Alle porte d’Italia, attende, porto sicuro il soldato sconfitto per ristorarlo con un marocchino e brioche al cioccolato.


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sabato 20 luglio 2013

Montagne antiche.

Monviso


La montagna è immutabile, ogni volta che ci arrivi, la ritrovi uguale, antica e arcigna come una vecchia tignosa che i nipoti non vanno mai a trovare al ricovero. Il mare si sa, è un'altra cosa; brezze pruriginose che stimolano gli ormoni, schizzi di onda che sferzano il viso come a sfidarti, sfacciati, in un senso di ribellione, di pelle scoperta, di carezza suadente di sole, coi profumi di mirto e di rosmarino. La montagna aspetta. La roccia cruda raccoglie i secoli e guarda il passaggio con sguardo di sufficienza. Accetta di malagrazia chi sale sui sentieri pietrosi tra le macchie di rovo. Come tutti gli anziani detesta la gioventù, pronta a divorare i padri ed a prenderne il posto. I boschi di pini scuri e impenetrabili, di lontano paiono isole segrete ed irraggiungibili, pronti a celar segreti, cerchi di streghe, gemiti di masche di tempi passati, di storie mai chiuse da raccontare d'inverno nelle stalle, con l'aria di chi non la vuole dir tutta per non spaventare troppo e ancor di più, quindi paurose e piene di mistero. Il montanaro poi, che ti guarda sempre in tralice, dubbioso del tuo essere straniero, comunque estraneo, venuto chissà a razziare o peggio a portare la peste che arriva appunto d'oltremare, pericolo sconosciuto e minaccioso al solo nominarla e che socchiude gli occhi mantenendo una piega amara sulla bocca. Parla poco perché poco vuol dire, geloso del suo mondo di aria sottile, abituato al silenzio. Davvero sempre uguale questo mondo di creste scoscese, di valli ricurve e corrotte dai rii che brontolano nelle forre tra gli alberi. 

Erba rada che fatica a divenir foraggio per i sempre più rari animali d'alpeggio. Anche i fiori  che punteggiano il pascolo spuntano con fatica, timidi e ritrosi. Nessuno che li colga. Il vento quando tira, è sempre teso e gelato, come a voler spazzare via l'intruso e se ne va con sibili cupi sollevando sterpi; resiste solo il pastore fuori della malga a rimestare latte e a compattar formaggio, solo, senza una donna al fianco a dar serenità e calore. Voci e grida, anche se lontane nella valle danno sempre un senso di fastidio, manca allegria nell'aria. Il vecchio vede sempre nero, al massimo grigio, seduto su una vecchia panca a lasciar passare il tempo, barbottando lamenti. Sotto il balcone sbrecciato è rimasto solo il segno di un vecchio nido di rondinotti che non vengono più, anche per loro quel tempo è passato e incombe la crisi. Larici ed abeti stanno immobili al vento, come se non soffiasse, rigidi e privi di sentimento o di quel senso di tremore e paura che han le acacie o i salici giù nella piana, che fremono al minimo refolo; ma quelle son piante femmine, troppo istintive, troppo uterine. La montagna è severa, non ti aspetta e neanche ti accoglie, al massimo ti sopporta come un ospite di passaggio, non desiderato, che tanto tra un po' se ne andrà.


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venerdì 19 luglio 2013

Finalmente in Vacanza.

E così è venuto finalmente il momento di partire per i monti.  Era quasi ora col caldo che fa. Intanto, di primo mattino è cominciato lo stivaggio dei materiali. Macchina in cortile e montagna di masserizie accumulate a fondo scala. Nascosti con cura dietro le finestre i vicini ridacchiano. Ogni volta sempre di più,  un cumulo immenso di pacchi, borse, sacchetti che rigurgitano di ogni cosa pensabile e occupano una superficie talmente vasta da far pensare ad un esodo biblico, una transumanza definitiva, un cambio di vita con conseguente abbandono di un territorio sfruttato al massimo, una migrazione senza ritorno. Una fuga impietosa da un paese dei Calderoli e degli Alfani, vani desideri, sogni impraticabili. Appare quasi certo, invece, che l'auto, con i suoi spazi pur piuttosto capienti tra bagagliaio e sedili lasciati liberi dagli esuli, possa contenere tutto il carico. Ma l'addetto allo stivaggio è vecchio del mestiere e la lunga esperienza fa sì che a poco a poco, provando varianti diverse con pazienza certosina, tutto trovi il suo giusto spazio, ogni più piccolo pertugio sia colmato, ogni bagaglio si incunei nella posizione perfetta che consenta anche agli altri di prendere il proprio posto. Infin si parte, il nonno convinto a fatica e timoroso per l'avventura, gli altri frementi di abbandonare la città fallita, precorritrice di Detroit, avvolta fino all'ottavo miglio, dalla cappa rovente dell'afa estiva implacabile. 

Con tante cose imbarcate, c'è praticamente la certezza che nulla sarà stato dimenticato. Si risale la val Chisone, dopo aver lasciato al fianco Piùbes, per l'ennesima volta senza andare a trovare l'amico Juhan del Tamburo a scroccargli un caffè, valle che risplende, verde e selvatica per la pioggia frequente di questa umida estate e finalmente la silhouette frastagliata del Forte si staglia sul fianco della montagna. Riaprire una casa dopo un anno è sempre impresa dura, non fosse altro per lo scarico di tutto quanto portato seco. Ragnatele e terra dovunque, polvere che impasta l'occhio umido del nonno che sale a fatica i gradini, terrorizzato per il temuto freddo montano, il vero incubo che ha impedito fino ad oggi una partenza più anticipata. Nella concitazione della partenza, ha dimenticato gli occhiali da lettura, suo unico svago. Sarà dura. Ma non il termometro per controllare con attenzione la temperatura. Eccola là, ci sono diciannove gradi e giù maglioni. Bisogna correre ai ripari, che non siamo mica a pettinare le bambole. Tutto previsto. Mano allo scatolone preparato per la bisogna. Conoscendo la situazione ecco saltar fuori una apposita stufa da montagna portatile. 

Sarà sufficiente istallarla per avere un bel tepore in pochi minuti.  Si sa che io appartengo alla categoria degli inetti nelle cose pratiche, pertanto mi ero preoccupato di acquistare un attrezzo idiot proof. Il venditore, cui  la mia insistenza di avere una cosa davvero semplice da maneggiare, aveva causato una manifestazione di quasi insopportazione malcelata, alla mia ennesima richiesta di rassicurazioni, mi aveva tagliato corto con un: Guardi c'è un bottone On/off e aveva battuto lo scontrino abbandonandomi al mio destino con lo scatolone tra le braccia. Tirato fuori l'attrezzo, spunta subito un libretto di istruzioni di 124 pagine.  Non mi sembra che ci sia solo un bottone  di accensione. Anzi, noto subito un display di dimensioni generose. Ho già capito che sarà una grana. Intanto la lettura del libro dell'illuminazione, come dicono i cinesi, è subito superiore alle mie forze per cui lo metto subito da parte. E' chiaro che l'operazione fondamentale deve essere quella del riempimento del serbatoio di carburante di cui sono fornito di una generosa tanica. Subito si nota che l'estrazione del marchingegno non combacia coi disegni del libretto. Non riesco neanche a capire come si apre il tappo, non parliamo della pompa di plastica, in stile "sigugnòla" da travaso del vino che mi ricorda antiche battaglie tra il mio papà ed una damigiana da 54 litri. 

Dopo diversi tentativi qualcosa scorre dalla tanica al serbatoio, ma troppo presto si gridò vittoria, il liquido arriva impetuoso, abbondante ed al momento del troppo pieno, il flusso si presenta inarrestabile e subito trabocca in ogni dove, inondando il pavimento di pericoloso materiale infiammabile. Parole di cui poi ci si pente, cominciano a salire al cielo con toni sempre più alti ed accezioni decisamente inurbane, da festa della Lega.  Bisogna rendersi conto, una volta per tutte, che ognuno dovrebbe dedicarsi alle cose che sa fare e basta, invece le esperienze passate non servono a nulla ed ogni volta si ripetono gli stessi errori idioti. Ed eccomi qui alle prese con il fiotto di liquido che deborda e mi sta corrodendo le mani peggio dell'acido muriatico. La devastazione è totale, ne è finito più fuori che dentro. Toccherà aspettare che asciughi la più grossa, per lo meno sulle pareti del serbatoio prima di reintrodurlo nella sua sede, sempre che riesca a rinserrare il tappo, che le istruzioni minacciano di maneggiarlo con speciali cure pena la decadenza della garanzia o in alternativa l'esplosione della stufa stessa. Le pagine del libretto dedicate allo scoppio di incendi sono più di quelle che mettono in guardia dall'avvelenamento dell' ossido di carbonio. 

Speruma bén. Devo accelerare i tempi per sottrarmi allo sguardo disperato dell'avo intirizzito, mentre a me cola il sudore dalla fronte per la difficoltà dell'operazione. Basta, succeda quel che deve succedere, infiliamo la spina e muoia Sansone con tutti i Filistei. Troppo semplice, come prevede la legge di Murfy, se devi infilare una spina in una presa nuova, benché a possibilità multiple, questa sarà certamente dell'unico tipo non previsto dall'elettricista installatore. Mentre il nonno sempre più preoccupato rinserra i lembi di una ulteriore coperta attorno alle spalle, un veloce messo viene inviato alla ricerca di un apposito raccordo che consenta l'accensione. Finalmente tutto sembra a posto. E' l'ora della verità. Accendiamo e se alte si alzeranno le fiamme dell'inferno, accada quello che deve accadere, il fuoco purificatore farà giustizia di tutto. Ma una serie infinita di opzioni deve ancora essere tarata, altitudine, data e ora, temperatura di spegnimento automatico e altre piacevolezze del genere. Infine con un piccolo scoppio una fiamma azzurrognola si leva e un grato puzzo di idrocarburo combusto avvolge l'ambiente. Mentre il nonno si rannicchia sotto le coperte in attesa che l'ambiente si arroventi, crollo esausto  sul terrazzino. Finalmente le vacanze sono cominciate.


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giovedì 18 luglio 2013

Giornalismo ed OGM.

Giornali e giornalisti come sappiamo sono una categoria un po' particolare. Va bene, diciamolo pure, sono un po' come i partiti ed i politici, specialmente di questi tempi. Ignorando la quasi totalità degli argomenti di cui trattano (da bravi tuttologi e questa, non è certo una colpa, anzi, come sapete per me è un pregio) però se ne fregano in linea di massima di approfondire le varie notizie ed argomenti, ma preferiscono sparare i pezzi valutando soltanto l'interesse e le credulità dei lettori (come nell'altro caso fanno la stessa cosa per gli e-lettori) attenti a non andare contro il sentimento popolare. A volte addirittura per non scontentare nessuno si da spazio (per lo meno si ha il buon senso di metterli in pagine diverse) ad entrambe le tesi opposte così da accontentare tutta la platea. Questo comportamento è di certo ispirato alla politica, partiti assieme di lotta e di governo, fazioni all'interno dello stesso schieramento che sostengono tesi opposte per accalappiare tutti e così via. Un buon esempio è dato dalla Stampa, giornale serio all'apparenza, che ospita nelle pagine dedicate al gusto ed alla buona tavola, seguitissime da una folta platea di epuloni golosi dalla bocca a cul di gallina (tra i quali io in prima fila) per poter assorbire aromi di vini rari o nuances di essenze eduli, articoli e sproloqui davvero imbarazzanti di propugnatori della ormai trionfante fuffa del biologico e della truppa che su questo ci marcia e ci campa (spesso a spese nostre). Poi a volte, nelle pagine scientifiche, dove almeno sono chiamati a scrivere persone di scienza, trovi pezzi di senso totalmente opposto, forse per trattenere almeno quei pochi che vorrebbero da un organo di informazione che le notizie e gli argomenti  fossero trattati con un minimo di rigore. Nel Tuttoscienze di ieri, ad esempio, c'è un bel pezzo di Roberto Defez, del CNR di Napoli, sull' indecente comportamento dei parlamentari sul problema OGM, che hanno approvato, come vi ho riportato nei giorni scorsi, un decreto bufala all'unanimità, quando si sa che è palesemente illegale e tale verrà al più presto dichiarato con conseguente procedura di infrazione e relativa multa milionaria pagata da voi (e da me, come quelle sulle quote latte). 

Caso che certo desta stupore e orrore in quanti si occupano del problema, ma non sono certo nuovi per i nostri legiferatori. Come ricorda Defez, basta riandare al famoso caso Di Bella, alla diatriba sulla previsione dei terremoti col radon, fino al più recente caso Stamina. Una bufala dietro l'altra , attorno a cui i politici, sentito l'odore (o la puzza) di voti buoni, si affannano a fare interrogazioni, soprattutto facendolo sapere al proprio bacino elettorale, fino a decidere di stanziare per le bufale stesse ingenti somme (ricordo sommessamente 3 milioni di euro solo per l'ultimo caso buttati nel cesso) mentre alla ricerca vera, quella che produce risultati,  i soldi vengono sottratti e per quella non ci sono mai i fondi, vedi il caso dei precari dell'INGV. La ricerca italiana non è mica da buttar via (come i politici), vi ricordo solo l'altra notizia nella stessa pagina di una importante scoperta nel campo dell'AIDS ottenuta anche col contributo italiano, e sottolineo però, con una ricerca che coinvolge la sperimentazione su animali, tanto per fare un po' di polemica. (Ma tanto secondo Grillo l'AIDS non esiste, quindi forse questo risultato non serve). La ricerca sugli OGM in Italia verrà uccisa, va bene, proprio tutto il contrario di quanto dovrebbero volere i difensori della natura e delle specificità italiane, mentre la massaia continuerà a servirsi di decine di articoli prodotti per mezzo di OGM importati a scapito dei nostri agricoltori, a partire dal parmigiano, per finire al gorgonzola. E la Coldiretti che evidentemente ha deciso che questa battaglia-farsa paga, continuerà a vendere tramite i Consorzi Agrari che controlla quasi completamente, mangimi costituiti in massima parte da OGM come si può ben verificare leggendo i cartellini sui sacchi, dove la dicitura (riportata anche sulle fatture) è indicata per legge. Ma così la massaia di Voghera è contenta, il business delle multinazionali (questa volta sante e non odiose) del biologico ingrassa, anche a spese di chi lo lascerebbe volentieri ad altri e siamo contenti tutti. Viva l'Italia.

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mercoledì 17 luglio 2013

Haiku preoccupato.

dal web


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di sorbetto al limone
Glicemia alta?


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Tarda primavera.


martedì 16 luglio 2013

Alle Fonti di Valmadonna



Alle Fonti di Valmadonna credo che mio papà abbia conosciuto la mia mamma. Era la fine di giugno, l'estate incombeva in quel 1939 carico di nuvole nere. Il governo aveva approvato quella mattina la "Disciplina all'esercizio delle professioni per i cittadini di razza ebraica".  Sono convinto che quei ragazzi allora non ne avessero neanche sentito parlare, non avevano neanche la radio e di giornali, in campagna tra i contadini, credo che se ne leggessero pochi. Se penso che adesso la gente si lamenta c'è da farsi venire i brividi. I ragazzi andavano allora a prendere la "rusà", la rugiada di San Pietro e Paolo, così almeno di diceva, quando si andava a ballare. Alle Fonti c'era una sorgente di acqua solforosa, con una puzza tremenda di uova marce. Si sentiva ancora cinquanta anni fa, quando ero bambino e anch'io ci andavo in bicicletta, ma già non ci ballavano più e la sorgente non era che un rivoletto di acqua puzzolente. La mia mamma aveva diciotto anni e forse era la prima volta che con le amiche andava a ballare alle Fonti, in bicicletta, scavallando le colline della Val Milana. 

Il mio papà, invece, dieci anni di più, doveva essere un frequentatore assiduo, sempre in bicicletta, ma arrivava dalla città, con gruppo degli amici scapoloni che giravano i balli dei paesi dove arrivavano le ragazzotte dalla campagna, tanto per dare un'occhiata. Certo ci saranno stati i maschi del posto e spessissimo finiva a botte, dietro ai balli a palchetto, forse per questo ci si andava in gruppo. Con quel Borsalino sulle 23 e la sciarpina di satin crème, doveva essere uno che faceva colpo sui gruppi di fanciulle che arrivavano dalle cascine sparse sulle colline a folate con le gonne leggere e le prime calze di nylon con la riga dietro. Devono essersi fulminati con lo sguardo, è scoccata una scintilla, così la mia mamma non ci è andata neanche più a ballare, dopo quella prima volta e un anno dopo si sono sposati. Un bel coraggio, stavano cominciando cinque anni di guerra. Adesso anche la Fonte si è spenta da tempo, dietro alla stazione di Valmadonna. In quei locali ci hanno fatto, mi sembra, un ristorante elegante. Fuori nel giardino si intravede però ancora un residuo di quella pista rotonda di cemento dove, quasi un secolo fa, quei ragazzi si guardavano da lontano, prima di cominciare quel ballo, guardandosi negli occhi. Adesso non si sente neanche più la puzza delle uova marce. Anche quella ormai, se ne è andata altrove.

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