domenica 19 agosto 2018

Etiopia 49 - Il vulcano Erta Ale


Tra gli Afar

Erta Ale
Ci svegliamo presto, ma sembra che oggi tutto si possa fare con una certa calma. Intanto arriva la colazione imbandita dallo sghignazzante Shaka Zulu che ormai deve mantenere questo suo clichet un po' folle, un po' rasta, mentre depone su un tavolo claudicante arance, uova, pancake e udite udite Nutella! Sapore di Italia lontana, viva l'olio di palma, che sia benedetto! Cominciamo a mangiare che non si sa mai cosa può succedere, poi con calma si carica tutto e si parte. Un'altra lunga sosta lungo la strada, altre baracche piene di autisti che riposano e donne velate che preparano i caffè. Questa è una sosta d'obbligo, in quanto qui si radunano tutte le macchine che poi dovranno procedere in carovana verso la catena dell'Erta Ale, la nostra meta di oggi. Se quello che abbiamo visto fino ad adesso era un territorio nemico della vita e dell'uomo in particolare, questo che ci aspetta è ancora, se possibile, più estremo. Questa catena montuosa è costituita da una serie di basse bocche vulcaniche che si ergono nel triangolo Afar, a partire dal deserto di sale, estendendosi verso sud in direzione di Gibouti. Si tratta di almeno sei vulcani, cosiddetti a scudo, che hanno costituito una vasta crosta basaltica, tipica delle zone di allargamento della crosta terrestre, che di norma si trovano soltanto in aree sottomarine. Qui, durante il Pleistocene arrivava il mar Rosso ed ora invece si trova soltanto questo deserto sterminato che si perde in scarpate laterali al di sotto del livello del mare, formati da sedimenti corallini. 

Al bar
Tutta la zona, tuttavia è un colossale campo di lava grande più di 2000 km2 in perenne mutazione. Inoltre essendo zona che è stata più volte teatro di guerra per lo meno negli ultimi decenni, le osservazioni dirette sul campo sono state piuttosto rare. Solo ora il luogo è visitato con una certa regolarità. In ogni caso la particolare peculiarità di questo vulcano è che il cratere più elevato, attorno ai 600 metri, contiene un lago di lava del diametro di circa cento metri che la temperatura superiore ai 1200 gradi mantiene perennemente liquida e solo di tanto in tanto si forma sulla sua superficie una qualche sembianza di crosta nera che si spezza subito in blocchi di basalto galleggianti. Uno spettacolo unico ed imperdibile a costo di disagi anche importanti. Ecco perché le auto si radunano in questo avamposto desertico in attesa di formare una carovana per arrivarci. Il luogo è pieno di militari armati che aspettano evidentemente di essere assoldati, non si capisce bene se per andare ad assaltare una qualche postazione nemica o per accompagnare i turisti nel loro giro, sta di fatto che stanno tutti lì, seduti sulle panche dei vari baretti a sorbire caffè, con il kalashnikov appoggiato come non parere, sulle ginocchia. Tutti si muovono intorno con aria indaffarata, in realtà non si combina assolutamente nulla, neanche i banchi della frutta e della verdura vendono qualche cosa. Gli altri stanno lì come inattesa che accada finalmente qualcosa che possa determinare finalmente la partenza.

Dragon trhee
Ogni tanto un camion parte verso sud ed il confine giboutino, che guerre o non guerre, gli affari vanno avanti e la gente deve pur mangiare. Dopo un po' il nostro solito Shaka arriva con riso e verdure, non è chiaro se per necessità di nutrimento o se per fare passare il tempo, che però si trascorre in maniera comunque interessante aggirandosi tra le baracche a scattare foto con la macchinetta sottomano, che qui non girano facce troppo amichevoli, neanche da parte dei bambini che ti squadrano sempre dal basso in alto, come per esaminare il tuo valore intrinseco, forse come ostaggio, senza neache chiederti soldi. Comunque ad un certo momento la fila di Toyota arriva a sette e bisogna partire alfine. Dopo una serie di valloni rocciosi ricoperti da una strana pianta detta Dragon three, prendiamo una pista diritta che presto dovrebbe diventare una arteria importante, per lo meno al vedere quanto è sopraelevata sul territorio circostante ed il grande campo pieno di macchine movimento terra pieno di scritte cinesi, al lato della strada stessa. Ma subito si esce per un viottolo laterale e la pista diventa improvvisamente niente di più che una traccia di pneumatici sulla sabbia. Adesso la guida è molto divertente; Abi si scatena lanciando il mezzo a buona velocità e cercandocosì di superare i tratti di sabbia più molle e leggera, al volo per non rimanere impantanato. Le sbandate e gli scodinzolamenti trascinano l'auto lateralmente, ma il nostro autista sembra ben preparato ad affrontare il problema, dato che intanto che tiene il volante, con l'altra mano mantiene il ritmo della musica a palla che spara un rock neo etiope piuttosto accattivante. 

L'ultimo villaggio
Dopo un'oretta arriviamo alla fine della zona sabbiosa e comincia un terreno lavico ed accidentato completamente nero. Al limite della lava un insediamento di capanne di paglia e pietre di basalto ammonticchiate le une sulle altre. Qualche ragazzino lacero che ci corre incontro, un paio di donne magrissime che ci guardano passare senza neppure la forza di alzare una mano. E' incomprensibile dove questa gente trovi di che nutrirsi e soprattutto dove sia una pur minima quantità diacqua. Adesso la pista è diventata impossibile. E' un arrampicarsi in un continuo saliscendi su roccia puntura e scabrosa, che sembra sbriciolarsi al tuo passaggio, con sobbalzi fastidiosi e continui. Questa tortura dura per quasi quaranta chilomentri che si riescono a percorrere in oltre quattro ore. Qui la pista non esiste neppure più, si tratta solamente di seguire una certa direzione cercando di evitare gli scoscendimenti troppo esagerati che possano fare capottare la macchina. I nostri compagni sono spariti dalla vista, tranne una Mitsubishi che ci segue, le altre auto si sono disperse alla ricerca della via che ognuno reputa migliore. Il paesaggio è dantesco; una distesa nera e continua di cascate di lava solidificata in forme scabre e taglienti. Rocce puntute che feriscono le mani se appena le raccogli e che, incomprensibilmente invece, non tranciano i pneumatici della macchina. Finalmente, dopo lungo penare arriviamo ad un gruppo circolare di costruzioni di pietra nera dai tetti ricoperti di fasciame di legno e residui di paglia. 

Il campo base
Non è chiaro se si tratti di ricoveri temporanei di pastori, visto che non si vede traccia di possibili pascoli a perdita d'occhio. Eppure qualche capra solitaria vaga tra le rocce in cerca di qualche stelo secco da brucare, voltando ogni tanto le corna nella nostra rumorosa direzione. Questo è evidentemente il campo base per la salita all'Erta Ale. La temperatura è altissima, sicuramente superiore ai 45°C anche se sono quasi le sei di sera. Bisogna aspettare qui che scenda la notte, per poter cominciare la salita ad una temperatura accettabile. Intanto si mangiucchia di nuovo qualche cosa cercando di far passare il tempo. Gli autisti e le guide sono piuttosto rumorosi e sembrano festeggiare attorno alla baracca cucina dove imperversa il nostro solito Shaka Zulu, maestro di cerimonie. Gli uomini armati invece stanno appartati davanti ad un'altra baracca, silenziosi, come abituati ad aspettare ordini. Io girolo un po' attorno alle baracche andando a guardare da vicino il gruppo di dromedari che aspettano accucciati a terra in circolo. Molti stanno per essere caricati di masserizie, materassi e acqua da portare in cima. Altri, pochi, invece serviranno per quei turisti malandati, inadattabili o semplicemente pigri, che non hanno voglia di farsi la scarpinata notturna di tre ore fino ad arrivare ai seicento metri del bordo della caldera. Uno di loro mi guarda da sotto con uno sguardo irresistibile. Avete notato che ciglia lunghe hanno i dromedari? Sono animali apparentemente scontrosi ma di certo dolcissimi. Mi sa che i 40 $ richiesti dal suo Caronte che mi guarda appollaiato su una roccia ridacchiando, non sono poi così tanti. Ci penso mentre cala il buio più fitto.
La carovana





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