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venerdì 10 agosto 2018

Etiopia 45 - Verso la Dankalia


Giovane Afar

Verso il Danakil
Stamattina c'è un po' di agitazione. Bisogna preparare la macchina caricando diverse masserizie per i prossimi quattro giorni. Lalo ci ha organizzato un giro nella depressione di Danakil o come la chiamiamo noi, nella Dancalia, una delle zone più estreme del pianeta, che arriva fino a 120 metri sotto il livello del mare e che ha una temperatura media sempre superiore ai 40°C. Insomma non è una passeggiata e le cose vanno preparate bene. Intanto ci vogliono dei permessi per arrivarci e poi è consentito andarci solo attraverso una organizzazione autorizzata che faccia una specie di convoglio di più macchine, insomma, sembra che anche alle autorità dia fastidio se qualcuno ci lascia la pelle in mezzo al deserto e rimanga la in mezzo come una pelle di salame rinsecchita. A questo scopo ci sono pure le solite guardie armate di kalashnikov al seguito, per sicurezza che non si sa mai e tanto per far campare tutti. Insomma, noi saremmo indipendenti, ma l'appuntamento con gli altri è davanti all'hotel Milano dove si radunano cinque mezzi di cui uno dell'agenzia, che caricano viveri, acqua e quanto servirà alla bisogna, per farci sopravvivere quattro giorni per quanto possibile, inclusi materassi e viveri vari. Alla fine si riesce a radunare tutta la banda, accompagnatori inclusi e a partire solo verso le 11. Risaliamo sull'acrocoro e poi dopo aver proceduto verso est, in un territorio sempre più secco e desertico, la strada comincia a scendere in spaccature sempre più profonde che segnano la terra, aperte da una erosione provocata da masse di acqua di cui non riesci neppure ad immaginare la potenza.

Il bar
E' un territorio sconvolto dalle forze della natura, vedi alvei secchi larghissimi, pieni di montagne di pietre e di rocce franate dalle pareti e pronti a riempirsi di nuovo portando con sé altre montagne di materiali.  I fianchi delle alture circostanti, scavati dalle forze della natura mostrano gli strati sovrapposti di epoche passate, come se le unghie feroci di un drago malevolo si fossero  piantate nella terra trascinando via tutto quanto possibile nella loro smania di ferire, di arrivare alle viscere più profonde, di afferrare l'anima di questo posto per trascinarlo fino all'inferno. Su una specie di promontorio si apre un'ampia veduta su una valle di cui non riesci a scorgere i confini. Forse è proprio questo il punto dove convenzionalmente nasce la Rift Valley, la ferita profonda che divide l'Africa da questa sua costola orientale destinata prima o poi a staccarsi definitivamente, di certo però non in tempi in cui ci si dovrà più preoccupare dei danni che l'uomo infligge al pianeta con la sua presenza corrosiva e parassitaria. In ogni caso non sarà un nostro problema. In distanza picchi isolati circondati da regolari coni erosivi. Punti e aree senza nome, mai calpestate da piede umano forse, anche perché laggiù non vi è nulla da vedere, da prendere, da sfruttare. Abbiamo lasciato ormai alle nostre spalle gli ultimi rari insediamenti, qualche casupola di pietra, riparo di pastori e carovanieri in sosta e la strada è ormai una pista tracciata in un deserto di roccia e pietre disordinate.

Sistemazione per la notte
Nell'ultimo paese, prima di imboccare questa deviazione verso il nulla, abbiamo mangiato in uno dei tanti baraccotti che stanno sul lato della strada, un piatto di riso e una ratatouille di verdure, abbastanza discreta, circondati da uomini che non sembrano capaci di sorriso; poche le donne, discrete e completamente velate. Siamo nella terra degli Afar, gente combattiva e abituata a continue guerre e scaramucce coi vicini, per lo meno questa è la sensazione, almeno a vedere la quantità di armi che girano, appoggiate con semplicità alla spalla o posate a terra mentre si sorbisce un caffè. Facce dure e poco socievoli, anche i bambini, non ridono o forse non ne hanno troppa voglia. Nessuno gioca, si limitano ad osservare, con sguardi difficili da interpretare. Nel deserto invece non senti più, almeno per ora, la presenza di umanità. Percorriamo ancora un po' di chilometri verso il nulla, fuori la temperatura continua ad aumentare, finché arriviamo al campo, per lo meno l'area di terreno coperta di ciottoli, dove ci fermeremo a dormire questa notte. C'è una capanna di frasche, vicino ad una baracca di lamiera e sparsi sulla terra qua e là un po' di brande all'apparenza abbandonate, di bastoni di legno e corda intrecciata, molto simili ai charpoi indiani che vedi negli slum del Rajastan. Lasciamo lì una parte delle masserizie, materassi e pentolame.

Deserto di sale
Un gruppo di ragazzi sull'ultima auto arrivano dopo un'oretta, erano rimasti bloccati dopo aver attraversato il letto di un torrente in secca per fare qualche foto e poi tutto d'un tratto hanno sentito un gran fragore ed una fiumara di fango e pietre è arrivata di colpo riempiendo la depressione e isolandoli dalla riva sulla quale avevano lasciato l'auto. E' la pioggia di questa notte che è caduta sull'acrocoro e che è arrivata di colpo fin quaggiù. Ci è voluta un'ora perché il livello dell'acqua scendesse e potessero riattraversare. Riunita la carovana, le auto ripartono lungo una pista nera e bordata di pietre. Adesso il deserto circostante è soltanto più una linea chiara all'orizzonte. Anche le pietre e le rocce sono scomparse e la superficie che ci circonda si è mutata in un tavolo,dapprima grigio, poi sempre più bianco e solo leggermente increspato. Siamo nel deserto di sale del Danakil, una delle zone più aride del mondo. L'auto corre per chilometri circondata soltanto dal biancore abbacinante di quei cristalli invisibili che solo fermandoti, scendendo a terra e toccandoli, puoi avvertire come una ruvida tela che gratta la mano, la disidrata e cerca di attirarti a sé per assorbire l'acqua che ti porti dentro, per seccare i tuoi tessuti e farti suo per sempre. Il sale bianco ti acceca se solo ti giri verso quella palla rovente che sta scendendo lentamente nel cielo, ma che non riesce ad mostrare i suoi raggi gialli di sole anomalo e perverso, anch'esso mummificato a mezz'aria in una luce innaturale e aliena.

Al di là del lago
La linea dell'orizzonte è lontana ed irraggiungibile, ma più vicini appaiono specchi traslucidi che riflettono l'indaco del cielo. Miraggi che il calore estrae dalla terra e che neanche tu puoi credere possibili. Invece man mano che ti avvicini, la superficie di un lago immenso di cui non riesci a valutare il confine, in uno stato fisico incerto tra liquido e solido, diventa sempre più reale. E' una superficie immobile e fissa, come un invaso di mercurio o come forse sono gli oceani di metano ghiacciato dei satelliti perduti nelle profondità dello spazio. Uno specchio perfetto e privo di imperfezioni che si perde al'infinito. Quando ti avvicini fino a toccarlo avverti subito che si tratta solo pochi centimetri di acqua salsa, destinati via via ad evaporare, facendo ritirare sempre di più questa morgana malefica e ingannatrice che respinge la vita, ma che, all'opposto, fa di tutto per attirarti morbosamente a sé, vinto dalla sua mortale bellezza. Cammini su una superficie granulosa e scricchiolante per avvicinarti alla riva che sembra sfuggire sempre un poco più in là. Le concrezioni di sale sono dure e quasi tagliano le tue suole morbide. Fatichi a calpestare l'acqua, quasi temessi di penetrare un liquido venefico, pericoloso o addirittura corrosivo e invece puoi immergervi le mani o i piedi, per sentirli subito ricoperti di una sorta di oleosa salsedine.


Uno scavatore
Tutto attorno non c'è traccia di vita. Qui non può esserci nessun tipo di vita. A queste temperature ogni essere si rifiuta categoricamente di rimanere in vita. Risaliamo sulle macchine solo per smentire questa sensazione imbarazzante. Facciamo ancora qualche chilometro nel bianco che gradualmente, mentre cala il sole muta il suo azzurrino venefico in un rosato malsano. Poi in mezzo al nulla ecco apparire qualche cosa. E' un gruppo di esseri scuri e quasi immobili. Quando arriviamo più vicino, l'assembramento si rivela essere un'area di scavo del sale. Una dozzina di uomini scurissimi percuotono il terreno, fendendolo lungo linee precise con picconi e marre, poi tramite lunghe leve di metallo, sollevano lastre di materiale che si stacca secondo linee obbligate, segnate da differenze di colorazione dei depositi più scuri. Le lastre pesantissime vengono spezzate in più punti, poi altri uomini, accoccolati a terra, con scalpelli appuntiti, ricavano mattonelle regolari togliendo via le parti scure e formando pezzi quasi perfetti del peso di circa 7 chili. Altri ammonticchiano queste mattonelle di sale, che vengono via via impilate con cura.


Il camioncino dei dannati della terra
Se ne fanno pacchetti di una decina che vengono caricati, una da una parte e una dall'altra più qualcuna in soprannumero negli spazi rimasti vuoti, sul basto di una fila di dromedari accucciati a terra, che brontolano sonoramente ad ogni successivo carico, ma qui sono gli unici a protestare, girando il muso verso l'uomo che li grava del peso, con una smorfia dolorosa ed un verso che grida il proprio disappunto, fino a che si raggiungono i circa 150 chili previsti. Guadagnano 1 birr al chilo di prodotto e vengono pagati alla fine della giornata, quando finalmente si scende sotto i 40°C e arriva l'ora di smettere il lavoro, mentre la carovana si mette in marcia. Ti parrà assolutamente impossibile che si possa lavorare a queste temperature ed in queste condizioni, eppure questa gente è arrivata qui all'alba e dopo aver scavato tutto il giorno, salirà dopo il calar del sole su qualche camioncino scalcinato che verrà a prenderli, perché anche qui c'è un trasporto per i dannati della terra, per andare a passare la notte in qualche baracca, aspettando l'alba successiva per andare a scavar via un altro pezzo di deserto. Questo luogo è davvero estremo. Non so come possa essere raccogliere pomodori nel sud dell'Italia, che a conti fatti rende anche un pochino di meno, ma a quanti dicono che questa è gente che non ha voglia di lavorare, auguro di cuore di rinascere proprio qui e di riuscire a trascorrervi una vita serena.

Il lago salato



SURVIVAL KIT

Depressione del Danakil (Dankalia)- Per visitare questa regione è obbligatorio servirsi di una agenzia specializzata che organizza giri di 2-3-4 giorni, con partenza e arrivo a Macallé, che prevedono una visita abbastanza completa della regione e forniscono il pacchetto completo a cifre varianti tra i 250 e 350 Euro al giorno, prendere o lasciare, che comprende le auto, vitto, due notti all'aperto nel deserto o sul vulcano e una in un ostello di fortuna in una cittadina a mezza strada, le guardie armate obbligatorie, materassi e cucina. Una di queste è Ethio travel and Tours. A Macallé la trovate sotto l'Hotel Milano, se arrivate lì con pullman. Scegliete il tipo di giro che vorrete fare e verrete aggregati ad altri viaggiatori per la "spedizione". Noi siamo arrivati con la nostra macchina aggregandoci al gruppo e usufruendo quindi di un altro contratto assai meno oneroso, cosa che vi consiglio di fare.

Sale pronto per il carico





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44 - Macallé

mercoledì 8 agosto 2018

Etiopia 44 - Macallé


Religiosi a Wukro

La moschea di Nagash
E' ancora lunga la strada verso Macallé o Mekele come si dice qui, un altro nome che riporta indietro nel tempo, non per niente proprio in un sobborgo della mia città c'è ancora un cinema dedicato a questo luogo, sopravvissuto certo mentre tante altre sale di proiezione Adua o Impero, hanno chiuso malinconicamente i battenti da tempo. Più o meno a mezza strada tra Adigrat e Mekele, incrociamo il villaggio di Negash, sede di una famosa moschea, che è reputata come la più antica costruita in Africa, datando addirittura al 630, ed eretta, almeno il suo primo insediamento, dai primi seguaci di Maometto arrivati fin qui per sfuggire alle persecuzioni. Naturalmente non rimane nulla di quella costruzione iniziale e l'attuale moschea è piuttosto moderna, ma il luogo ha una sua importantissima valenza per tutto il mondo musulmano etiope che qui converge in occasione delle principali feste dell'Islam, proprio per la sua importanza storico religiosa, oltre al fatto che sembra conservi la tomba di Ashama ibn Abjar, il re cristiano di Axum che diede ospitalità ai fuggitivi. Tuttavia il luogo è certamente molto interessante durante queste manifestazioni di folla e durante le feste e le cerimonie che ne conseguono, diversamente il paese non è altro che un piccolo gruppo di case che non presenta particolare fascino.

Wukro Chirkos
Ben diversa invece la situazione della chiesa di Wukro Chirkos, solo ad una decina di chilometri a sud di Negash, poco prima di Ugurò. Il Tigray è la regione delle chiese rupestri, uno degli molti altri, se ce ne fosse ancora bisogno, punti di interesse dell'Etiopia. Dal V secolo in poi infatti, in tutta questa area caratterizzata da immense pareti di arenaria e altre rocce tenere, cominciò un  enorme lavoro di scavi tesi ad ottenere degli edifici ricavati dal pieno della pietra, scavando addirittura in verticale verso il basso nel terreno fino a far emergere costruzioni imponenti di diversi piani, nei quali successivamente fu nuovamente scavato all'interno per ricavarne navate, pilastri, absidi in un unico straordinario monolito che appare come costruito dalla base. Queste chiese sono sparse a decine in tutta la regione ed oltre a quelle più famose di Lalibela che vedremo nei prossimi giorni, se ne possono ammirare molte altre, se solo si vuole prendere qualcuno dei tanti sentieri laterali alla strada principali, dove comunque sono ben segnalate da indicazioni di Ortodox church, con la relativa distanza. Questa di Wukro, oltre ad essere una delle più interessanti è anche tra le più comode, distando solo un centinaio di metri su una collinetta sulla sinistra della strada principale, appena prima del paese.

Religiosi
Si sale una scalinata intagliata nella roccia e a poco a poco si intravede, al di là del muretto di cinta, la chiesa alta quasi due piani di arenaria rosata con due finestre intagliate nella facciata e la porticina di ingresso. Lungo il muricciolo si vede un piccolo cimitero di tombe antiche seminascoste dai fichi d'india e dalle piante basse.  Il parallelepipedo di roccia viva mostra ancora dopo quasi 1500 anni gli spigoli netti e già dalla facciata avanzata sui fianchi, indovini la pianta a croce greca che la caratterizza. L'interno è ancora pieno di religiosi e di qualche fedele. Siamo nella settimana santa e le cerimonie si svolgono di continuo fin dal mattino presto, in alcuni casi durano anche tutta la notte. Subito dopo l'ingresso l'atmosfera diventa mistica e misteriosa; ti senti proiettato in un passato lontano, tra suoni antichi e voci cantilenanti nella penombra accompagnate dai suoni ritmati dei sistri e di altri sonagli metallici. Il pavimento irregolare è coperto di tappeti malandati. Quasi in ogni angolo indovini, mascherato dall'ombra qualche corpo raggomitolato che dorme o riposa dopo la veglia della notte. Tutte le pareti sono ricoperte da splendidi affreschi, che scompaiono nel buio dei soffitti anneriti dall'incendio provocato nel XV secolo da una regina Falascià. Gli imponenti pilastri quadrati dividono l'ambiente in tre parti principali dove si devono posizionare le donne, gli uomini e i religiosi.

Le volte
In fondo l'iconostasi che nasconde i segreti del sancta sanctorum accessibili solo al pope. Una donna incappucciata in un ampio velo bianco prega, seduta a terra; in una stanzetta laterale, alcuni vecchi leggono libri sacri con compunzione, al fianco hanno appoggiato i lunghi bastoni di preghiera; un gruppetto di giovani, davanti alla porta sembrano scherzare tra di loro, poco inclini a impegnative pratiche religiose; un anziano dorme, seminascosto tra le panche, sugli spessi tappeti. Rimango a lungo seduto in un angolo ad assaporare quella atmosfera mistica di sacro e di antico, di cerimonia finita ma ancora nell'aria; qualcuno mi guarda curioso, sorridendo, senza stupore, mentre un sistro tintinna la sua musica sovrastando per un attimo la cantilena della giaculatoria comune. Esci poi dal monolite di pietra, una costruzione quasi aliena, un poco straniato da questa aria diversa e scendi i gradini attraversando il cortile. Al di là del muretto c'è ancora qualche vestigia di antiche tombe epiù avanti, anche i poveri resti dei fanti italiani che hanno perso la vita tra queste ambe, tra il '35 e il '43, quando eravamo in cerca di un nostro posto al sole tra le potenze. La storia è sempre scandita maggiormente dalla morte e dai suoi segni, che dalla vita. C'è però una sensazione di pace tra i fichi d'India che stanno a vegliare intorno alle tombe e di cui nessuno mangia i frutti. Le donne sedute a chiacchierare sulle panche del giardino, di certo non possono ricordare.

Moringa Hotel
Un'altra ventina di chilometri e poi si arriva al bordo del plateau, al di là del quale, nella valle, che poi è a 2000 metri, scorgi la città di Macallé che si stende nella piana. In quanto capitale del Tigray, è una città con una certa pretesa di modernità e al di là delle tante costruzioni non terminate che ornano la periferia, il centro è piuttosto moderno. Il nostro albergo non si tira fuori dalla tendenza; all'interno le camere finite arrivano solo al primo piano per il resto ci sono solo i pilastri di cemento, che cominciano ad essere collegati dai mattoni, quando ci saranno i soldi si andrà avanti, non facciamola lunga. Lalo è piuttosto innervosito, pare che qui al nord, a conti fatti, tutto sia immotivatamente più caro e di certo il budget che aveva in mente, sta sforando di parecchio. Oltretutto anche il cibo, che a noi per la verità sembra sempre uguale, non gli piace affatto e dichiara che gli fa venire il mal di stomaco. Tuttavia sembra che la fase critica della sua tosse sia in via di miglioramento e della paventata malaria non ci sia traccia. Al ristorante dell'albergo troviamo Margot, una francese anzianotta che viaggia sola, girando sacco in spalla sui pullman locali, con la quale scambiamo informazioni varie. E'molto interessata all'Omo e mi sa che Lalo si è già fatto un'altra cliente. Insomma non c'è dubbio che se ci sono gli interessi, si trova sempre il modo di muoversi in giro per il mondo e l'età non è un vincolo così importante. Almeno speriamo. Intanto andiamo a prepararci per la parte più impegnativa del nostro viaggio. La Dankalia, uno dei territori più estremi della Terra ci aspetta da domani.


Monaci
SURVIVAL KIT

I pilastri della chiesa scavati nella roccia
Wukro Chirkos - A meno di un km da Ugurò, arrivando da Negash sulla sinistra. Una delle più antiche chiese monolitiche rupestri. Pianta a croce greca. Conserva begli affreschi e il cimitero con tombe antiche. Si paga un biglietto all'ingresso. Abbigliamento rispettoso, specie le donne a cui è richiesto il velo. Da visitare in concomitanza con qualche cerimonia, molto suggestiva. In tutta la regione ce ne sono molte altre, ma questa è certamente la più facilmente raggiungibile oltre ad essere una delle più belle. 

Hotel Moringa - Kedemay Bekele - Macallé - Stanze piuttosto piccole ma pulite. Preferire quelle sul cortile interno molto più tranquille. Prezzi ragionevoli, 12 € con colazione. Wifi funziona pochissimo. Ma c'è acqua calda e il bagno è accettabile. Ristorante normale con soliti piatti. Buona colazione con uova strapazzate e succo.

Due monaci



Una tomba a Wukro
9 -  Risveglio a Kibish

martedì 7 agosto 2018

Etiopia 43 - Le carovane del Tigrai


Il Tigré


Panorama del Tigré
Da stamattina, da quando siamo partiti da Axum e dopo pochi chilometri abbiamo superato Adua (quante suggestioni anche a leggere semplicemente questi nomi su dei cartelli stradali) il panorama è completamente cambiato, si è fatto più arido e pietroso e la temperatura è aumentata considerevolmente. Non siamo riusciti comunque a vedere, chissà se esiste ancora, ma sembra che nessuno ne sappia più niente, la grande testa di Mussolini scolpita in una parete rocciosa, che dovrebbe essere da qualche parte nei dintorni. Siamo su un grande acrocoro giallo ed ondulato che si perde all'infinito, circondato a distanza da picchi di montagne contorte e senza nome, sono le distese del Tigré o Tigrai, la regione più a nord del paese, dove un tempo passavano le lunghe carovane dirette oltre quella catena che oggi rappresenta il confine con l'Eritrea per arrivare fino a Massaua. Ho ritrovato su Youtube quella famosa canzone del '36, con la vocina chioccia di Daniele Serra, che allora illustrava un epoca e non riesco a resistere dall'allegarvela, fate partire il video mentre leggete il pezzo, aiuterà a ricreare un'atmosfera.  

       

La chiesa di Yeha
Ora invece, c'è questa strada che lo attraversa, una delle tante lasciate da noi, ma prima potevi soltanto immaginare infinite teorie di dromedari carichi che a passo lento percorrevano la pista rettilinea verso il mare lontano. Ad un'altra quindicina di chilometri da Adua, c'è una piccola deviazione sterrata che raggiunge Yeha, un villaggio in cui è possibile vedere la più antica struttura costruttiva etiope, risalente al 700 a.C., una torre tempio, in stile sabeo, con parti ancora ben conservate, forse grazie al fatto che sono state utilizzate un migliaio di anni più tardi come chiesa cristiana. Al suo fianco la chiesa ortodossa moderna dedicata ad uno dei cosiddetti nove santi, dove si sta svolgendo una funzione. Anche se non si può entrare, rimango seduto sui gradini di pietra a guardare le mura squadrate della torre vicina. Il coro dei religiosi che proviene dall'interno della chiesa è molto suggestivo; le capre che brucano i ciuffi di erba attorno al sentiero, ti passano intorno guardandoti interrogativamente; la litania del prete sale di un'ottava, il coro dei fedeli lo segue; c'è un senso di antico e di sacralità misteriosa nell'aria, che porta le voci lontano, verso le montagne, passando tra i rami rinsecchiti degli alberi morti sulla terrazza, dietro il muracciolo di pietra. Poi la strada riprende uguale e diversa. Un'altra trentina di chilometri, poi la deviazione per una pista contorta e in pendenza che costeggia le scarpate di un canon profondo.

Yeha
Dall'altra parte le montagne che prima sembravano così lontane. Ocre chiare e rocce smangiate dal caldo e dall'acqua. Al di là delle creste e del passo che intravedi tra due picchi, l'Eritrea è a soli 7 chilometri, così almeno certifica Lalo, sempre attento e preciso. Ma intanto si arriva ad una spianata rocciosa alla base di una parete di roccia che culmina un una cima arrotondata poco più in alto. Una lunga scalinata intagliata nella roccia viva ti fa risalire la china fino alla verticale della montagna, liscia come se mano umana l'avesse levigata, una cosiddetta amba. Siamo all'ingresso dell'antico monastero fortificato di Debre Damo costruito su questo monte isolato nel VI secolo. Solo che non c'è modo di entrare, non esiste via di accesso se non tirarsi su con una corda per una quindicina di metri, appoggiando i piedi alla parete, per arrivare ad una apertura scavata in cima allo scoscendimento. Un esercizio che richiede una certa vigoria fisica ed una notevole esperienza, anche se per la verità, un gruppo di ragazzotti in cima, stanno lì disposti a dare una mano, previa mancia ben s'intenda, a chi debitamente imbragato volesse salire fin lassù, sempre che non sia femmina naturalmente, in quando all'altra metà del cielo è inibito salire a causa della loro diabolica ed impura natura, fatto comune a molti altri luoghi dell'ortodossia monastica di diverse parti del mondo, come ad esempio a Monte Athos in Grecia. 

La salita al monastero
Arriva intanto un giovane religioso con tanto di tonaca, mantello bianco e cappello. Si avvicina alle corde e senza por tempo in mezzo si abbranca alla fune e messi i piedi alla meglio nei punti meno lisci della roccia si arrampica con destrezza verso l'altro; in quattro o cinque balzi risale la parete apparentemente senza sforzo ed arriva al varco superiore, dove due braccia amiche lo aiutano a salire completamente oltre l'accesso e sparisce nel foro. L'abilità scalatoria lo ha certamente reso degno dell'ingresso. Subito dopo arriva un ragazzo tedesco, molto atletico e con evidenti esperienze pregresse di scalatore, per lo meno vedendo come si dispone all'impresa, che subito si decide a seguirlo. Ma la cosa non è così semplice, infatti qualcuno lo aiuta a predisporre una sorta di imbragatura di corda e quindi, un po' facendo forza su gambe e braccia, un po' grazie ai robusti addetti soprastanti che lo tirano su, riesce a guadagnare il traguardo. Noi, al di là delle foto di rito appesi come culatelli alla fune, ma coi piedi a pochi centimetri dal suolo amico, non riusciamo neppure a fare una bracciata e il buon Abi che cerca di seguire le orme del monaco, con coraggio e baldanza, non va oltre una ascesa di un paio di metri, poi dopo aver penzolato in qua ed in là desiste e decide anche lui di abbandonare l'impresa in favore dei più puri di animo. Certe mete spirituali bisogna guadagnarsele, c'è poco da discutere. Tutti ridiscendono quindi la scalinata, mogi per la delusione. 

Il funerale
Io sono rimasto indietro per fare qualche scatto solitario nel bel panorama che si distende davanti all'amba, tra le file di cactus e fichi d'India, che sembrano quasi un bosco, in verità anche cogliendo l'occasione per sgravarmi, non visto, di quel peso impellente che la maledizione del viaggiatore impone spesso in queste lande desolate e prive di intimità, anche se spesso la sacralità dei luoghi consiglierebbe maggiore ritegno, ma abbiamo appena detto che proprio questo ci ha inibito il diritto alla salita e quindi i conti tornano. Ritorniamo dunque sulla strada principale che adesso scende verso sud e che attraversa paesini di case colorate di tinte forti, parallelepipedi in muratura scanditi da grandi linee geometriche, che costeggiano la massicciata. Fuori da un abitato incontriamo una gran massa di persone vestite di bianco. In mezzo, una bara portata a spalle, coperta da una coperta a fiori; la folla in silenzio che la segue, verso un cimiterino fuori dalla case, dove sono allineate tante piccole lapidi in pietra. Fuori del paese il paesaggio prosegue invece, sempre più grandioso, sempre più straniante. Sembra di attraversare le terre dell'ovest americano, con le sue spaccature, le sue voragini, i suoi canon che aprono la terra per rivelare un mondo sottostante diverso e sconosciuto. In qualche caso però si vede la mano umana, che in secoli di fatica ha compiuto, dove la terra si sovrappone alla pietra, terrazzamenti continui, forse per strappare qualche misero frutto a questo territorio avaro o forse soltanto per evitarne l'erosione completa.


Case di paese nel Tigré

Yeha - Ingresso
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Where I've been - Ancora troppi spazi bianchi!!! Siamo a 121 (a seconda dei calcoli) su 250!